In occasione della quinta conferenza dei capi delle polizie dei paesi della Ue, convenuta all’Aia lo scorso 24 settembre, il vicecapo della Direzione centrale anticrimine della Polizia di Stato, prefetto Antonino Cufalo, alla presenza del capo della Polizia di Stato, prefetto Alessandro Pansa, ha siglato con il direttore generale del Dipartimento per la cooperazione internazionale del Ministero della pubblica sicurezza della Repubblica popolare cinese, Liao Jinrong (廖进荣), un memorandum d’intesa finalizzato all’esecuzione di pattugliamenti congiunti in aree di interesse turistico. Non si tratta, per la verità, di un’idea nuova: la prima proposta in Europa in tal senso era stata avanzata nel 2014 dal ministro dell’Interno francese Bernard Cazeneuve, che voleva realizzare pattugliamenti congiunti con poliziotti cinesi a Parigi, nell’ottica di favorire il senso di sicurezza dei sempre più importanti turisti cinesi. Ma la proposta aveva presto incontrato resistenze di diversi consiglieri parigini dell’Ump (l’Union pour un mouvement populaire, che era allora il partito capeggiato da Nicolas Sarkozy) e alla fine non se ne fece più nulla.
L’obiettivo di questa collaborazione era ed è dichiaratamente quello di “rassicurare il turista cinese”. Parigi allora, come Milano e Roma oggi, infatti, non godono di buona nomea sul piano della sicurezza tra i turisti cinesi, che sono consapevoli di essere divenuti preda privilegiata di borseggiatori e questuanti aggressivi, soprattutto in ragione delle cospicue somme in contanti che essi abitualmente portano con sé. Nel 2015, grazie soprattutto all’Expo di Milano, l’Italia è diventata tappa obbligata e meta preferita dei tre milioni e mezzo di turisti cinesi in visita a paesi Ue. Si tratta dei turisti stranieri che mediamente spendono più denaro in assoluto nel nostro paese (circa 874 euro al giorno secondo i dati di una rilevazione Global blue del 2014, media che a Milano tocca i 1.208 euro al giorno). Le limitazioni all’espatrio di valuta sono aggirate con una certa facilità e gli acquisti principali sono preferibilmente realizzati in contanti. Molti turisti cinesi sanno che il loro viaggio in Europa sarà l’occasione imperdibile di una campagna acquisti (soprattutto capi e accessori firmati) volta a distribuire regali indispensabili al mantenimento del proprio prestigio sociale una volta tornati in patria, dunque la spinta a dedicarsi allo shopping di qualità nel corso del proprio tour d’Europe è altissima.
Gli attentati che hanno colpito Parigi hanno reso tanto più accattivanti le capitali italiane dello stile, Milano e Roma in primis. Così nelle prime due settimane di maggio, il momento di massimo picco delle presenze cinesi nelle due città, per la prima volta agenti dell’Ufficio di pubblica sicurezza (Gong’an ju, 公安局) della Repubblica popolare cinese hanno pattugliato strade e piazze di un paese occidentale, nello specifico gli hotspot turistici di Roma e Milano, affiancando carabinieri e poliziotti nostrani. Pur non avendo mansioni “operative” ma solo di pubbliche relazioni con i turisti cinesi, i quattro poliziotti cinesi inviati sul campo si sono opportunamente formati per la loro missione: almeno due di loro parlano piuttosto bene l’italiano e tutti parlano correntemente l’inglese. Un’iniziativa “di carattere simbolico” che ha colto nel segno, suscitando orgoglio e soddisfazione tra i cinesi in visita nei due capoluoghi, come pure tra i numerosi cittadini cinesi residenti stabilmente in Italia.
Tuttavia, quest’iniziativa invita anche a riflettere su alcune importanti questioni che la attraversano “in filigrana”. Cominciamo da un dato cui forse non è stata data molta importanza, quantomeno non nella estesa copertura mediatica dell’iniziativa tanto in Italia quanto all’estero, ovvero il fatto che l’attività per cui è principalmente noto internazionalmente il Dipartimento per la cooperazione internazionale del Ministero della pubblica sicurezza della Repubblica popolare cinese in questi ultimi anni è di carattere investigativo e di intelligence, non di pubbliche relazioni. Tende infatti a siglare accordi bilaterali finalizzati all’individuazione e all’estradizione di cittadini cinesi che sono scappati all’estero con ingenti capitali sottratti allo Stato cinese. Per esempio, il celebre tycoon Lai Changxing (protagonista del gustoso romanzo-reportage scritto da Oliver August nel 2007), fuggito da Xiamen nel Fujian a metà degli anni Duemila, poi arrestato in Canada ed estradato in Cina nel 2011, oppure Yu Zhendong, l’ex direttore della filiale di Kaiping della Bank of China, nella provincia del Guangdong, riportato in patria dopo quattro anni di latitanza. Considerata l’attenzione che da un po’ di anni a questa parte le nostre agenzie investigative riservano alla questione del riciclaggio di denaro e dei trasferimenti indebiti di capitali tra Italia e Cina, forse non è irrealistico supporre che questo primo approccio collaborativo possa preludere ad accordi bilaterali anche sul piano del contrasto della criminalità organizzata. Con tutte le dovute cautele del caso, abbiamo già avuto modo di argomentare su queste pagine che forse sarebbe opportuno avviare una collaborazione più stringente in tal senso.
Un altro aspetto è stato invece al centro di un recente workshop convenuto a fine maggio presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nell’ambito del progetto Cereu – Countering extortion and racketeering in EU, patrocinato dal centro di ricerca Transcrime dell’Università Cattolica, dal Center for the study of democracy di Sofia e dall’Insituto de ciencias forenses de la seguridad dell’Università autonoma di Madrid, che ha dedicato un’intera sessione al tema della vittimizzazione di cittadini cinesi residenti in Italia da parte di soggetti criminali, e non, dediti ad attività di carattere predatorio ed estorsivo. In quell’occasione, uno dei relatori più autorevoli del panel cui ho avuto l’opportunità di partecipare, l’ex ispettore della Polizia di Stato Bruno Aricò, ha commentato che, aldilà delle iniziative d’immagine, quello che è soprattutto necessario per un efficace contrasto dei reati più gravi all’interno della realtà cinese d’Italia – la creazione di mercati di spaccio “etnici” da parte di gang giovanili dedite allo smercio di sostanze stupefacenti sintetiche, il riciclaggio di denaro guadagnato grazie a traffici illeciti (clandestini, merci importate illegalmente, contraffazione, prostituzione, gioco d’azzardo), ecc. – è un maggiore impegno nel senso della formazione linguistica e interculturale specifica degli agenti e della reale cooperazione internazionale tra agenzie investigative, a partire dagli enti ad essa principalmente preposti, come Interpol ed Europol, che ad oggi non sembrano ancora essere in grado di esprimere la sensibilità e reattività necessarie per consentire azioni coordinate rapide ed efficaci.
Aricò, investigatore di punta dell’unità speciale dedita al contrasto della criminalità cinese a Milano negli anni Duemila e inizio 2010, è una specie di leggenda per chi si occupa di questi temi: un veterano degli anni di piombo che si è messo a studiare il cinese e a divorare la letteratura criminologica e sociologica di riferimento per comprendere meglio la realtà cinese di Milano. Una realtà che ha poi conosciuto a fondo attraverso un intenso ed esteso lavoro sul campo, coltivando reti di contatti personali, dialogando con la complessa galassia di associazioni di imprenditori immigrati, gestendo informatori e collaboratori di giustizia che si sono rivelati determinanti per la rapida risoluzione di molti casi della cronaca nera meneghina con autori di reato e vittime cinesi. Il problema, sottolinea Aricò, è però quello di rendere sistematiche queste attività, di non lasciarle all’iniziativa del singolo agente o investigatore. Occorrono lungimiranza e serietà, bisogna comprendere che nell’Italia di oggi (e ancor più in quella di domani) la minoranza cinese sarà sì una componente stabile della società, ma non necessariamente sarà tutta costituita da persone perfettamente in grado di comprendere e parlare l’italiano. Più che “importare” agenti della Rpc, varrebbe dunque la pena di reclutare agenti italiani o sino-italiani che parlino correntemente il cinese, che conoscano bene i “nostri” cinesi, o che si impegnino attivamente a conoscerli da vicino.
E questo porta alla considerazione finale, inevitabile all’indomani di un nuovo eclatante episodio di “rivolta cinese”. I tafferugli tra imprenditori e lavoratori cinesi della pelletteria nel quartiere dell’Osmannoro a Sesto Fiorentino dello scorso 29 giugno (su cui torneremo prossimamente) sembrano essere stati innescati dalla rapida degenerazione di un’ispezione dell’Asl in un acceso diverbio tra le parti. Nell’intenso scambio di opinioni, filmati, commenti e appelli alla protesta scatenatosi sui social media cinesi d’Italia domina soprattutto – come già a Milano quasi dieci anni fa – l’acuta percezione di sentirsi bersaglio in quanto minoranza, di essere oggetto di controlli arbitrariamente selettivi… insomma quello che negli Stati Uniti si definirebbe ethnic profiling. L’essere oggetto di attenzione da parte delle istituzioni e delle forze dell’ordine più per la propria identità etnica che per quello che effettivamente si sta facendo. Mancano elementi determinanti per poter stabilire se le cose stiano effettivamente così: bisognerebbe confrontare i dati sui controlli di Asl, Guardia di Finanza, Polizia di Stato, Carabinieri e Polizia municipale nei territori considerati e disaggregarli per etnicità dei soggetti controllati, numerosità dei controlli, quantità e onerosità delle multe comminate, dei sequestri di macchinari, della chiusura di attività ecc. Ma quasi trent’anni di ricerche sull’immigrazione in Italia e sulle interazioni tra istituzioni e cittadini immigrati convergono nel mettere in evidenza come la pragmatica relazionale tra agenti o pubblici ufficiali italiani (tranne rarissime eccezioni, sempre europei “bianchi”) e cittadini cinesi di fronte alle prime difficoltà o ai primi attriti (“fa finta di non capire”, “non si capisce cosa dice”, “guarda come vivono/lavorano questi”, “smettila di gridare” ecc.) degradi spesso e facilmente dalla dialettica “cortese ma ferma” del normale rapporto tra pubblico ufficiale e cittadino ad una brutale sicumera di matrice coloniale, che contrappone i rappresentanti di una maggioranza dominante “civilizzatrice” ed egemone ad una minoranza subalterna e inferiorizzata. Basta una visita allo sportello stranieri della più vicina Questura (o Ufficio anagrafe, Pronto soccorso ecc.) per verificare sul campo la mesta pervasività di questi atteggiamenti. Un retaggio caparbiamente longevo e profondamente radicato nel subconscio del nostro paese, perché non è mai stato realmente messo in discussione. Una reale critica postcoloniale del linguaggio, delle rappresentazioni sociali e della pragmatica comunicativa delle nostre istituzioni è ancora appannaggio di pochi accademici e non riesce a imprimere ancora alcuna spinta al rinnovamento delle narrazioni collettive della contemporaneità, né tantomeno informa di sé i percorsi di formazione o di autoriflessione avviati internamente alle pubbliche istituzioni stesse.
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