Schlitzaugen. In tedesco significa “occhi a mandorla”, ma non nel senso cosmetico del termine: è più affine all’inglese (americano) slant eyes (“occhi tagliati a fessura”, “occhi obliqui”), un epiteto derogativo impiegato almeno da fine Ottocento con riferimento agli immigrati cinesi. Quando il 26 ottobre scorso il nuovo Commissario europeo per l’Economia e la società digitali, in occasione di un discorso rivolto agli imprenditori di Amburgo, ha impiegato questo termine per fare del sarcasmo sugli uomini politici cinesi in visita alle istituzioni europee, la cosa ha suscitato immediata e vasta indignazione nel panorama mediatico tedesco, con immediata e aperta denuncia del carattere razzista delle sue esternazioni.
Vista dall’Italia, questa vicenda fa una certa impressione. In questo paese, infatti, non passa giorno senza che l’espressione “occhi a mandorla” venga impiegata con la massima disinvoltura da cronisti di qualsivoglia testata social o mainstream italiana, esattamente alla stessa maniera. Cioè non per discutere di make-up o di chirurgia estetica, ma proprio per parlare di cinesi (o anche di giapponesi o di coreani), quasi che fosse del tutto normale riferirsi a una determinata popolazione riducendola a certe sue caratteristiche fenotipiche: un po’ come se ci riferissimo correntemente a Obama come al presidente dalla pelle color cioccolato (o “abbronzata”), o se discutessimo dell’incremento dei turisti russi in Versilia come dell’invasione degli “occhi di ghiaccio”. Evidentemente l’italiano medio, anche colto, non si cura di quanto il proprio lessico lasci trasparire un sostrato inconscio connotato da una visione novecentesca, con echi razzisti e coloniali, quando si parla dell’altro da sé. Le categorie dell’esotico o del grottesco sono tuttora parte integrante del registro narrativo quando si parla di non-bianchi. Qualche cautela è stata assimilata rispetto ai neri africani, ma per quanto riguarda gli asiatici, siamo ancora agli “occhi a mandorla”, per non dire al “muso giallo”. Questa disinvoltura lessicale mostra quanto in Italia le categorie del “politicamente corretto” siano lontanissime dal trovare applicazione se non in termini polemici, di critica del “buonismo” di chi chiede che si usi un linguaggio più rispettoso e dignificante nella rappresentazione delle minoranze.
Un altro vezzo della comunicazione di massa nostrana, riferito ai cinesi, è quello di impiegare sistematicamente il termine “orientali” come sinonimo di cinesi. Anche in questo caso si tratta di un termine connotato, che ha alle spalle un certo bagaglio di rappresentazioni e concettualizzazioni della Cina come nostro Oriente, definizione che mette insieme in un unico mazzo popolazioni e culture diversissime tra loro. Nulla di particolarmente offensivo, si obietterà: ma quanti italiani troverebbero normale venire costantemente indicati come “la comunità occidentale di Pechino”, nel momento in cui si discettasse della comunità italiana, di Pechino? Un conto è impiegare la dicotomia occidentale-orientale in riferimento a vere o presunte polarità culturali, schieramenti politici, filosofie di governo, ecc. Un conto è impiegare un termine fortemente virato in prospettiva etnocentrica per indicare una popolazione specifica. Detto altrimenti: è un linguaggio che offusca, fraintende, e infine oblitera l’altro. Lo reifica e lo neutralizza, lo rende categoria generica, di fatto non lo riconosce. Gli esempi di questa ordinaria sciatteria del pensiero, prima che della parola, sono davvero numerosi e meriterebbero uno studio dedicato, ma qui preme mettere in luce due elementi ad essa collegati.
Il primo è che nel nostro paese ci sono forze politiche che da questo punto di vista non solo non si sono mai fatte particolari problemi nell’impiegare un linguaggio ingiurioso o apertamente razzista, ma perseguono di fatto con coerenza una rappresentazione costantemente caricaturale, insultante, falsa e ideologicamente orientata dell’altro, soprattutto se “straniero”. La più influente nella politica italiana, sia a livello nazionale che, soprattutto, a livello locale, è la Lega Nord. Già Alessandro Dal Lago rilevava, in quella che resta una delle analisi più lucide e impietose del rapporto tra società italiana e immigrazione straniera, quanto il razzismo della Lega non fosse una semplice posa o un atteggiamento xenofobico – una legittima seppur discutibile esternazione della propria diffidenza nei confronti dello straniero – ma un orientamento politico sistematico, argomentato e ribadito in modo stringente fin dagli esordi di questo movimento.
Dunque non stupisce che proprio la Lega si sia fatta interprete e promotore di iniziative politiche che più spesso si sono espresse in termini anti-cinesi anche sul piano del dileggio ampiamente tinto di coloriture razziste, dalle caricature (sistematico ricorso a un’iconografia stereotipata di matrice coloniale nelle vignette impiegate sui propri volantini, manifesti, o pubblicazioni: dagli occhi a mandorla, al colore giallo, ai denti sporgenti, perfino al codino e al cappello a cono ) ai gadget, come i celebri sottobicchieri marchiati “Cin cin… cinesi no!” utilizzati nei raduni della Lega del 2009. Queste trovate spesso suscitano sorrisi di sufficienza o irritazione, qualche volta indignazione… ma sempre con il sottinteso tacito del “ma sì, in fondo non è una cosa seria”. Qui sta l’errore. Questo uso sistematico dell’immigrazione come spauracchio, questa enfasi sull’irriducibile alterità dello straniero, produce conseguenze.
E questo ci porta al secondo elemento critico connesso alla normalizzazione del linguaggio dell’intolleranza e della stigmatizzazione del diverso: l’inconsapevolezza del valore performativo della parola, il potere che il linguaggio esercita nel plasmare la comprensione della realtà sociale, gli effetti culturali, sociali e politici che produce. Se una componente politica importante del nostro panorama politico (che peraltro non è la sola: lessico, opinioni e toni di carattere svilente nei confronti di minoranze sono spesso utilizzati, seppure con minore sistematicità, anche da altri soggetti politici del centrodestra, come pure dal Movimento Cinque Stelle, talvolta perfino da esponenti della sinistra) si esprime costantemente, coerentemente nei termini descritti, agirà anche di conseguenza. Un esempio paradossale ma con conseguenze serie è quello delle interrogazioni parlamentari e delle richieste di maggiori controlli da parte delle forze dell’ordine che la Lega Nord ha espresso in merito alla presunta “immortalità dei cinesi” che risiedono in Italia. L’ultima volta è successo a fine settembre di quest’anno, quando un articolo pubblicato su Il Giornale a proposito del basso numero di decessi registrato a Milano per l’anno in corso rispetto all’elevato numero di residenti cinesi ha immediatamente innescato la reazione del segretario provinciale della Lega Nord, Davide Boni, che denuncia “un gap elevatissimo tra nascite e decessi, questi ultimi praticamente inesistenti”, ribadendo che “è arrivato il momento di avviare controlli seri ed identificare e censire in maniera certa coloro che vivono a Milano e soprattutto chi lavora nelle attività gestite da cinesi”.
Ora, è noto da tempo che questa dei cinesi che non muoiono mai è una leggenda metropolitana: la sua prima menzione in Europa risale a un articolo relativo all’afflusso di centomila rifugiati d’Indocina in Francia a partire dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso e al loro insediamento nel XIII Arrondissement di Parigi, scritto dalla sinologa Marie Holzman, che metteva in relazione il basso numero di decessi con presunte pratiche di cessioni di documenti dai morti ai vivi. In Italia, la leggenda è introdotta per la prima volta da un articolo del Corriere della Sera del 2 settembre 1991, in cui si ipotizza la mancata denuncia di decesso per addirittura 500 (!) cinesi fiorentini. La leggenda fa leva su un dato reale (l’uso estemporaneo del documento d’identità di un immigrato che ha regolarizzato il proprio soggiorno sul territorio da parte di un immigrato irregolare è una prassi diffusa tra tutti gli immigrati, di tutte le nazionalità, in ogni epoca storica) per poi interpretare in modo errato e tendenziosa un altro dato reale (il basso numero di decessi, anche questo comune a tutte le popolazioni immigrate presenti in Italia) al fine di costruirvi sopra una storia suggestiva, ma falsa. Come si evince dalle tabelle allegate, non esiste alcuna “specificità cinese” sul piano della mortalità: mettendo a confronto i dati assoluti e i tassi di mortalità per mille abitanti, si nota chiaramente che il dato cinese è di poco inferiore al numero medio dei decessi in termini assoluti, mentre il tasso di mortalità degli immigrati cinesi è del tutto comparabile a quello di altre popolazioni immigrate che svolgono lavori poco pericolosi e hanno un profilo demografico fortemente sbilanciato sulle età più giovani. Se la mortalità dei cinesi, sul piano statistico, non fa notizia più di quella dei filippini, degli srilankesi o degli ecuadoriani, se cioè non esiste alcun merito statistico di cui discutere in proposito, perché se ne parla con tanta tenacia, al punto da invocare interrogazioni parlamentari e indagini di polizia?
Il problema è nell’occhio di chi guarda. In questi mesi la Lega Nord si è opposta in modo netto alla approvazione in Senato del ddl 2092 sullo ius soli, un decreto legislativo che rappresenta un importante primo passo nella direzione giusta per le centinaia di migliaia di giovani di nazionalità straniera nati e cresciuti in Italia che si sentono italiani e che desiderano avere voce in capitolo in merito alle politiche del paese che ha dato loro i natali. Il senatore Calderoli ha spiegato che questa opposizione mira a evitare che, “regalando” la cittadinanza italiana a giovani stranieri, si alimentino fenomeni di disaffezione e simpatie per il terrorismo islamico come quelli che hanno insanguinato la Francia negli ultimi anni. È una logica davvero difficile da comprendere: le simpatie jihadiste dei giovani francesi delle banlieue sono piuttosto la conseguenza dell’esclusione sociale, di una cittadinanza formale che non ha saputo sufficientemente tradursi in cittadinanza sociale e culturale. In Italia abbiamo giovani figli di immigrati che dichiarano a piena voce di sentirsi italiani e di volerlo essere attivamente, responsabilmente. A sbarragli il passo è un partito che da trent’anni si fa portabandiera della xenofobia e che, sdoganando sentimenti e prese di posizione discriminatorie e razziste, semina rabbia tra i “vecchi italiani” e fabbrica risentimento tra quelli nuovi.
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