Il primo luglio 2019, nel ventiduesimo anniversario del ritorno di Hong Kong alla sovranità cinese, una piccola avanguardia di manifestanti mascherati e col capo cinto da elmetti protettivi si è forzosamente introdotta nell’edificio che ospita il Consiglio Legislativo (LegCo) di Hong Kong, vandalizzandone i locali e in particolare lo stemma della città (nella denominazione ufficiale di Hong Kong, che la definisce una Regione Amministrativa Speciale “della Repubblica popolare cinese”, queste ultime parole sono state cancellate con vernice nera), ricoprendo le mura di slogan contro l’amministrazione di Carrie Lam e esponendo la vecchia bandiera coloniale britannica di Hong Kong. Anche se la manifestazione, cui hanno preso parte decine di migliaia di cittadini, si è svolta in gran parte senza incidenti, l’attacco al LegCo ha visto per la prima volta l’impiego di tattiche violente come il lancio di mattoni contro la polizia e l’effrazione di un edificio pubblico. L’evidente sottotesto localista/indipendentista e il richiamo al passato coloniale della città non potevano non suscitare un’enorme eco nella Cina continentale, dove le immagini dell’assalto al portone d’ingresso per mezzo di un ariete improvvisato, dei graffiti antigovernativi e dello sfregio ai simboli della sovranità cinese sono subito divenuti il fulcro della narrazione mediatica ufficiale.
Pochi giorni dopo questi eventi, sui social media più gettonati dai cinesi d’Italia si diffonde un comunicato dal titolo inequivocabile: “La comunità cinese di Milano esprime severamente la sua veemente condanna riguardo all’influenza nefasta generata dal violento attacco al Consiglio Legislativo della Regione Amministrativa Speciale di Hong Kong”.[1] Il comunicato è firmato da una ventina di associazioni comunitarie cinesi, dalla più antica ed importante, l’Associazione Cinese a Milano (Mǐlán Huáqiáo Huárén gōngshānghuì, 米兰华侨华人工商会, lett. “Camera di commercio dei lavoratori e dei commercianti cinesi emigrati all’estero di Milano”), a una di quelle di più recente formazione, l’UNIIC (Unione imprenditori Italia Cina, Zhòngyì shānglián, 中意商联). Le altre associazioni firmatarie sono essenzialmente associazioni di compaesani originari dei medesimi distretti o raggruppamenti di minore impatto nella politica dei cinesi d’Italia, nati “per gemmazione” dall’associazione comunitaria principale. Ma il caso di UNIIC è un po’ speciale: questa associazione, infatti, è nata come espressione primariamente della seconda generazione di imprenditori e commercianti sino-italiani. La maggior parte dei suoi soci e dei suoi leader parla meglio l’italiano che il cinese, e sotto il suo primo presidente, Francesco Wu, UNIIC è riuscita a compiere un efficace ruolo di ponte e portavoce nel dialogo non sempre facile tra i cinesi di prima generazione e le istituzioni italiane. Il fatto che un’associazione di questo tipo rilanci un comunicato il cui tenore è quello tipico delle veline di regime (condanna senza appello del comportamento violento e illegale di una minoranza di facinorosi indipendentisti, che minaccerebbe dichiaratamente l’assetto “un paese due sistemi” che regge l’autonomia di Hong Kong, senza accenni alla natura più vasta e partecipata della protesta, e pieno sostegno all’azione repressiva delle forze dell’ordine) lascia perplessi. Il comunicato riflette realmente il pensiero dominante tra i cinesi di Milano – o d’Italia – sui fatti di Hong Kong? Questo “serrare i ranghi” dell’associazionismo cinese d’Italia su un movimento politico di portata epocale come quello che va sviluppandosi dal maggio scorso, che ha visto la partecipazione massiccia di quasi un quinto della popolazione di Hong Kong, non rischia di proiettare l’immagine di una comunità pronta a mettersi tutta sull’attenti quando Pechino chiama? Perché le conseguenze di questa immagine sono potenzialmente un grave detrimento al processo di formazione sociale e culturale della minoranza sino-italiana, e colgono appieno il “problema” di avere in Italia la più numerosa popolazione di cittadini della Rpc in Europa. Solo un’esigua minoranza di cinesi d’Italia ha ottenuto la cittadinanza italiana, anche se le richieste aumentano ogni anno. Ai cinesi che vivono in Italia – come del resto a tutti gli altri immigrati stranieri – il nostro paese non sembra capace di offrire appigli per una narrazione inclusiva, per un’appartenenza da condividere. Se questo è già grave di per sé, perché i cittadini stranieri e gli italiani di origine straniera costituiscono già il 10% della popolazione, e una percentuale ancora più ampia (circa il 13%) dei giovani in età attiva (15-34 anni),[2] il caso cinese ci mostra come le cose possano farsi ancora più complesse nel momento in cui tensioni di carattere internazionale possono riflettersi su orientamenti e comportamenti di cittadini stranieri che risiedono stabilmente nel nostro paese. La madrepatria cinese esercita un’influenza considerevole, e sempre maggiore, sulla vita dei cinesi che vivono in Italia: li considera un elemento cardine della propria capacità di proiettare soft power oltremare e di imprimere una narrazione positivamente pro-cinese all’estero.
Tuttavia, l’immagine di una comunità cinese d’Italia monoliticamente schierata sulle posizioni del governo cinese è verosimilmente ingannevole e riduttiva. Le stesse dinamiche del rilancio del comunicato da parte di UNIIC, nel racconto di alcuni suoi esponenti di spicco, mostrano un quadro ben più complesso. Dal punto di vista di un’associazione di recente formazione, che soltanto da pochi anni ha ottenuto il proprio riconoscimento ufficiale da parte dell’associazionismo comunitario tradizionale come pure delle rappresentanze diplomatiche cinesi in Italia, l’adesione a iniziative comunitarie di questo tipo non riflette necessariamente l’esito di un dibattito interno su determinati temi, ma è piuttosto espressione del rispetto che giovani di seconda generazione tradizionalmente riservano ai loro anziani. I documenti che vengono trasmessi tramite i canali associativi in Italia e in Cina (a partire dal lavoro assiduo e capillare di networking messo in atto dalle qiáolián, 侨联),[3] una volta che sono approvati e diramati dall’Associazione Cinese senior, sono generalmente sottoscritti “in automatico”, senza neppure essere soggetti a particolare discussione interna tra i soci. Nel corso del primo mese delle proteste di Hong Kong, sui social di riferimento dei cinesi d’Italia – come il gruppo chiuso su Facebook Italian Born Chinese – raccolse un certo seguito un sondaggio informale delle opinioni che i membri del gruppo esprimevano nei confronti della più grande manifestazione politica cinese del XXI secolo. La maggior parte dei membri del gruppo, in massima parte cinesi nati o cresciuti fin da piccoli in Italia, si dichiarava sostanzialmente indifferente alla questione, mentre coloro che avevano opinioni definite in merito si spaccavano più o meno equamente in due campi contrapposti: da un lato, nazionalisti accesi, che vedevano nella protesta sostanzialmente un movimento secessionista; dall’altro democratici favorevoli alla legittimità del dissenso dei dimostranti e delle istanze da loro proposte. Conversando con diverse famiglie cinesi di Milano, è facile constatare come tale scissione tenda a ripercorrere le fratture generazionali: da genitori e figli, ma anche tra figli nati e cresciuti in Cina e figli nati e cresciuti in Italia.
Costruire occasioni di confronto e dialogo su questi temi tra i cinesi d’Italia è molto difficile. Impossibile farlo sui social media, dove ogni dialettica è subito schiacciata da classiche contrapposizioni categoriche “noi contro di loro”. I luoghi della socialità informale faccia a faccia, dai contesti di lavoro a quelli amicali, non sono quasi mai cornici “neutre”, perché soggette a gerarchie informali o dichiarate, in cui il proprio parere dissenziente può trovare spazio solo a patto di poterselo permettere sul piano dei rapporti di potere. È proprio in questo senso che iniziative “italiane” di costruzione dell’appartenenza e della cittadinanza attiva possono svolgere funzioni importanti: promuovendo e normando “zone neutre” più o meno strutturate, dal luogo di ritrovo (locali, librerie, associazioni) al centro di promozione sociale e culturale (il collettivo artistico, il centro sociale di quartiere, l’università, la scuola ecc.) in cui si possa favorire un confronto protetto su temi come questo, che quando non sono vissuti con indifferenza tendono a tradursi in conflitti laceranti. Che l’Italia sia un punto nevralgico particolarmente sensibile per sondare la capacità di mobilitazione dei cittadini cinesi all’estero lo rivela anche l’inusitata performance dell’ambasciatore della Rpc in Italia, Li Junhua, quando lo scorso 9 agosto ha deciso di convocare una conferenza stampa per ribadire la posizione del governo cinese in merito ai fatti di Hong Kong, in chiave decisamente anti-americana (agli USA si rimprovera di mestare nel torbido, finanziando attivisti secessionisti come il leader di Youngspiration, Baggio Leung, e di voler promuovere una delle loro “rivoluzioni colorate” sul suolo cinese). Una possibile interpretazione è quella espressa dal caustico commento di Emanuele Rossi sull’edizione digitale della rivista Formiche: “Pechino usa la platea giornalistica convocata nell’ambasciata in Italia, territorio che evidentemente viene considerato dal Dragone come un background soffice per i propri proclami – forse perché il governo di Roma preferisce la politica dello struzzo anche sul fascicolo hongkonghino (zero commenti, zero prese di posizione)”.[4] Può essere però che il messaggio avesse anche (e forse soprattutto) un’altra platea di riferimento: quella dei cinesi d’Italia (e d’Europa), cui è stata chiaramente illustrata la linea da osservare nel proprio agire culturale, sociale e politico.
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[1] “Mǐlán qiáojiè guānyú qiángliè qiǎnzé bùfǎ fènzǐ bàolì chōngjī Xiānggǎng tèqū Lìfǎhuì dàlóu zàochéng èliè yị̌ngxiǎng de yánzhèng shēngmíng”, Europa News, 7 luglio 2019, disponibile all’Url https://www.xinouzhou.com/米兰侨界关于强烈谴责不法分子暴力冲击香港特区/.
[2] Si vedano i dati più recenti sulla popolazione straniera residente in Italia messi a disposizione dall’Istat, disponibili all’Url http://www.demo.istat.it/.
[3] Abbreviazione di Guīguó Huáqiáo Liánhéhuì, 归国华侨联合会, ovvero la rete nazionale delle diverse articolazioni locali della “Federazione dei cinesi emigrati all’estero rimpatriati”, che a livello apicale nazionale risponde direttamente al Comitato centrale del Pcc: si tratta pertanto di un’organizzazione definita mínjiān 民间, “popolare, non governativa”, ma che in realtà è legata a doppio filo al Partito. Si veda: Daniele Brigadoi Cologna, “La «ricerca delle radici» e la riaffermazione dell’appartenenza nazionale: politiche e narrazioni dei cinesi d’oltremare nella Cina di Xi Jinping”, in Marina Miranda (a cura di), Cina Report 2016. Politica. Società e cultura di una Cina in ascesa. L’amministrazione Xi Jinping al suo primo mandato (Roma: Carocci, 2016), 153-169; Yuanping Qiu, “Cinesi d’oltremare e sogno cinese”, in Mondo Cinese (2017) 163: 23-30. Sul ruolo delle qiáolián nella vita politica dei cinesi all’estero e nel quadro dell’influenza politica internazionale della Rpc, vedasi anche: Min Zhou e Rennie Lee, “Traversing Ancestral and New Homelands. Chinese Immigrant Transational Organizations in the United States”, in The state and the grassroots. Immigrant transnational organizations in four continents, a cura di Alejandro Portes e Patricia Fernádez (New York e Londra: Berghahn, 2015), 27-59; Anne-Marie Brady, “Magic weapons: China’s political influence activities under Xi Jinping”, relazione presentata alla conferenza internazionale The corrosion of democracy under China’s global influence, Arlington, Stati Uniti, 16-17 settembre 2017.
[4] Emanuele Rossi, “La minaccia della Cina agli Usa. Dall’ambasciatore di Pechino a Roma. Gulp!”, Formiche.net, 9 agosto 2019, disponibile all’Url https://formiche.net/2019/08/cina-pechino-usa-hong-kong/.
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