Sette anni fa, un ragazzo cinese poco più che ventenne mi chiese di convincere sua madre a lasciarlo tornare in Cina, affinché potesse riuscire a disintossicarsi da una dipendenza che durava ormai da diversi anni e ne stava compromettendo la salute. Coinvolto da un SerT (Servizio per le tossicodipendenze) milanese in veste di mediatore, capii presto che la madre non aveva bisogno di essere persuasa. Si era accorta da diverso tempo della tossicodipendenza del figlio, anche se non aveva alcuna idea di cosa fosse e di come “funzionasse”. Ma era convinta che lasciandolo tornare al villaggio di montagna in cui il figlio era nato e cresciuto fino ai suoi quindici anni fosse senz’altro la scelta più giusta. “L’aria lì è pulita, la natura è rigogliosa, i nonni gli vogliono bene… è senz’altro la cosa migliore. Allontanandosi da Milano non avrà più modo di procurarsi la droga”. La droga in questione era l’eroina da fumare, che a cavallo tra gli anni zero e gli anni dieci si era conquistata una nicchia di crescente popolarità tra i giovani cinesi “neo-ricongiunti”.
Arrivati in Italia da adolescenti, spesso troppo grandi per essere inseriti nella scuola media, questi membri della cosiddetta “generazione 1,25” (nati e cresciuti in Cina, e dunque non propriamente di “seconda generazione”, ma neppure adulti “di prima generazione”, secondo la classica definizione di Ruben Rumbaut[1]) hanno spesso incontrato notevoli difficoltà di adattamento al nuovo contesto di vita. Il giovane in questione mi spiegò che era parte di un “giro” che contava una cinquantina di eroinomani cinesi, tutti più o meno della sua età, tutti con storie simili alle spalle. Inseriti in famiglie che non avevano mai conosciuto davvero, costretti in esistenze da emigranti votate al lavoro e al sacrificio, avevano vissuto la propria migrazione forzata come una sorta di deportazione. Una scelta non condivisa, a monte di una vera cascata di sfide imposte e percepite come impari: apprendere una nuova lingua, familiarizzarsi con un nuovo contesto sociale, lasciarsi alle spalle tutti gli affetti dell’infanzia e della prima adolescenza, l’impatto tutto in salita con un nuovo sistema scolastico, un nuovo gruppo dei pari. E su tutto, l’imperativo del rigoroso ethos dell’emigrante cinese del Zhejiang: fare fortuna attraverso il proprio duro lavoro, senza temere la fatica, conquistandosi il proprio prestigio sociale grazie al successo economico costruito passo dopo passo.
Troppo dura da mandare giù, spiega questo ragazzino smunto e spigoloso: “我真受不了! Wǒ zhēn shòubuliǎo!” (Non lo potevo proprio sopportare!). Impara l’italiano, ma lo rigetta, rifiutandosi di usarlo anche quando gli farebbe comodo. Lascia la scuola dopo appena due anni di superiori. Passa tutto il suo tempo libero con un proprio ristretto giro di amici, oppure chiuso in camera a giocare ai videogiochi preferiti online. Alla droga arriva nel tentativo di cercare sollievo alla pressione che si sente addosso da quando è in Italia. Ma si rende conto che lo sta indebolendo troppo. “Devo tornare in Cina”, mi racconta, “solo lì riesco a disintossicarmi”. Gli chiedo perché – e la risposta è molto diversa da quel che pensa sua madre: “Io ho iniziato a usare sostanze nel mio villaggio, quando ero ancora alle medie. Lo facevano in tanti: ormai di ragazzi della mia età lì ce ne sono rimasti pochi. Adulti quasi non ce ne sono, sono tutti vecchi. La gente sta tutta qua in Europa ormai. Ci annoiavamo da morire: è un villaggio di campagna, non c’è assolutamente niente da fare. Così noi ragazzi abbiamo cominciato a organizzarci da soli. I più grandi bevono, si ubriacano. Ma i ragazzi preferiscono le paste: extasy (摇头丸 yáotóuwán), ketamina (K粉K fěn), e poi ice (冰毒 bīngdú), la metanfetamina in cristalli. È di quella che ho bisogno. Qui non so dove trovarla, mentre là ce n’è tanta e costa poco. Per questo devo tornare: mi aiuta a superare l’astinenza da eroina. Non riesco a farcela senza. Questo però non lo dire a mia mamma, lei non capisce”. È così che sentii menzionare per la prima volta questa droga da parte di un giovane cinese in Italia. I filippini, che la usavano già dai primi anni duemila, la chiamano shaboo. La fortunata miniserie tv Breaking Bad l’ha ormai resa famosa ovunque, e anche tra gli italiani la metanfetamina cloridrato, questo il nome tecnico, gira parecchio. Del resto due dei principali produttori dei precursori più importanti di questa sostanza si trovano in Europa: la Germania e la Polonia, rispettivamente il primo e il secondo produttore al mondo di efedrina e pseudoefedrina. Ma la Cina è il terzo produttore e il più importante per il crescente fabbisogno est-asiatico (Cina, Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Singapore, Filippine ecc.) e americano (Messico, Stati Uniti, Canada).
Nell’ottobre scorso la conclusione di un’indagine della sezione criminalità straniera e prostituzione della squadra mobile di Milano gettava luce sulle nuove prospettive del “mercato etnico” italiano per questa particolare droga, sequestrando 3 chili e mezzo di shaboo, per un valore di vendita al dettaglio pari a circa due milioni di euro. Trentotto persone (trentasei in Italia) sono state avviate alla custodia cautelare per una varietà di reati legati al traffico internazionale di stupefacenti. Diciannove cinesi, quattordici filippini, tre romeni e due vietnamiti: questi ultimi anello cruciale di una catena di approvvigionamento che parte dalla sua produzione – gestita appunto da vietnamiti residenti in Polonia – nel sobborgo di Wólka Kosowska a sud di Varsavia, per poi arrivare in Italia passando di contatto in contatto attraverso distributori cinesi dimoranti in Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca[2]. Questi intermediari cinesi controllavano il canale di collegamento tra i produttori e le piazze di spaccio cinese e filippina in Italia, imponendosi gradualmente sui vietnamiti anche come corrieri della droga. Dalla Polonia, passando per l’Europa dell’Est, la droga entrava in Italia dal Passo del Tarvisio, con un appoggio logistico a Padova, dove la rete di narcotrafficanti cinesi aveva uno dei suoi primi snodi. Ma la destinazione finale era Milano, dove cinesi e filippini si spartivano i rispettivi mercati, e in seconda battuta altri centri urbani dove gli acquirenti cinesi sono numerosi, come Bologna e Prato.
In entrambi i casi, gli acquirenti erano soprattutto connazionali cresciuti nel paese di origine e trasferitisi in Italia da adolescenti. Oggi sono giovani uomini e donne che continuano a sentirsi comparse costrette a recitare in un film che non è il loro. Col tempo si sono adeguati ai ruoli sociali che il copione del progetto migratorio famigliare gli ha assegnato, ma li vivono male. Per questo la loro socialità tende a gravitare attorno al proprio gruppo dei pari, coetanei che hanno vissuto le medesime esperienze di sradicamento e che soffrono allo stesso modo la pressione sociale e la vacuità di senso che ai loro occhi esprime la vita da immigrati, dove la posticipazione delle gratificazioni è l’asse portante della fatica quotidiana. Il mito del successo veloce, della svolta che ti cambia la vita, è per loro una fantasia escapista necessaria più che una realtà che ci si costruisce giorno dopo giorno con gesti umili, ma concreti. L’uso di una droga come l’ice consente di combattere questo senso di impotenza e di perdita di controllo sul proprio destino. Inizia come evasione dal quotidiano, ma poi diventa elemento imprescindibile di ogni momento ricreativo. Per questo i soggetti che negli ultimi vent’anni han cercato di costruire embrioni di impresa criminale giovanile lo hanno fatto a partire dal monopolio dei modi, dei luoghi e delle sostanze dello svago. Organizzando feste, procurando sesso a pagamento, offrendo canali di accesso privilegiati alle sostanze giuste. Quest’ultima indagine ha infatti tratto il proprio impulso dal conflitto tra due gruppi criminali composti da giovani cinesi (la “banda dei fratelli Wu” e la “banda di Wang Bin”) intenti, tra marzo e giugno 2014, a contendersi la piazza della Chinatown milanese sul piano di questi “servizi ricreativi illeciti” (droga, prostitute), cui si accompagna da tempo il tentativo – finora sempre contrastato con successo da esercenti e forze dell’ordine – di mettere in piedi un racket della protezione mirato ai locali e i negozi cinesi. Gli investigatori della polizia di stato milanese si sono resi conto in quell’occasione di quanto l’attività di spaccio ruotasse intensivamente attorno a questa specifica sostanza, che si sta radicando nel cuore del disagio di un’intera generazione di immigrati per forza. La nuova indagine aiuta a far luce su un’imprenditoria criminale giovane che ambisce a una dimensione internazionale e che punta ad assicurarsi il controllo del consumo di sostanze in segmenti di popolazione specifici, di cui conoscono alla perfezione aspirazioni e debolezze. Questa dimensione generazionale della questione apre a scenari che non ne permettono la riduzione al mero contrasto della criminalità. È invece necessario ripensare capacità d’azione e dotazione di competenze della rete dei servizi socio-sanitari, irrobustire il ruolo di supporto del privato sociale, comprendere l’importanza del lavoro di presa di contatto, prevenzione e riduzione del danno presso target specifici di popolazione.
[1] Ruben G. Rumbaut, “Assimilation and its Discontents: Between Rethoric and Reality”, in International Migration Review, Vol. 31, N. 4, Special Issue: Immigrant Adaptation and Native Born Responses in the Making of Americans (Winter 1997), pp. 923-960. Cfr. Anche: Ruben G. Rumbaut e Alejandro Portes, Ethnicities. Children of Immigrants in America, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 2001.
[2] Per una dettagliata ricostruzione dell’indagine e dei suoi retroscena, cfr. Lorenzo Bagnoli, “Dentro lo spaccio di shaboo nella Chinatown milanese”, Vice News, 18 ottobre 2016, [https://news.vice.com/it/article/shaboo-milano].
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