[CINESITALIANI] L’eterno mito del ritorno a casa: i cinesi d’oltremare che lasciano il “sogno italiano” per quello cinese

Sul ponte di Tashan, lungo la statale 330 che dalla città di Wenzhou porta a Qingtian, storico focolaio di emigrazione dalla Cina verso l’Europa continentale, campeggia una grande scritta in lettere alfabetiche gialle su fondo blu cielo. Il messaggio è ripetuto per tre volte, nelle diverse lingue dei tre paesi che oggi ospitano le maggiori collettività di cittadini della Rpc in Europa: italiano, spagnolo e francese. Quella italiana recita: “Benvenuto al distretto cinese d’oltremare Qingtian”, ma è la versione francese che svela il senso vero di questi cartelli: “Bienvenue a Qingtian aux Chinois d’outre-mer”. Il benvenuto è diretto, infatti, alle “foglie cadute che ritornano alle radici” (luoye guigen, 落叶归根) e alle “tartarughe marine” (haigui, 海归/海龟, gioco di parole sul diverso significato di termini omofoni: “coloro che tornano da oltremare” / “testuggini marine”), ovvero agli emigranti e agli studenti o specializzandi che scelgono di tornare alla madrepatria dopo aver fatto fortuna o essersi formati all’estero. Sottinteso: emigranti che tornano al “paese degli antenati” (zuguo, 祖国) per investirvi capitali, idee e competenze accumulate altrove.

Lungo il corso degli anni Duemila, e con un’impennata significativa dal 2007 in avanti, una quota consistente di chi aveva lasciato la Cina per formarsi all’estero ha cominciato a tornare in patria. Lo hanno fatto soprattutto gli individui più qualificati o in corso di alta formazione, ma il fenomeno ha gradualmente investito anche i migranti a bassa qualificazione emigrati in Europa. I primi indubbiamente sedotti dalle migliori prospettive di crescita e di carriera offerte da uno dei pochi contesti internazionali ad alta resilienza dopo che la crisi finanziaria internazionale ha cominciato a farsi sentire in tutto l’Occidente e oltre. I secondi in parte attratti dalle opportunità di investimento e speculazione offerte dalla vitalità del mercato cinese, in parte perché ormai disillusi rispetto alle possibilità di fare fortuna nei paesi europei di maggior insediamento cinese. Si tratta di alcune delle economie più colpite dalla crisi e dalle politiche di austerity introdotte nell’Unione Europea per farvi fronte: Spagna, Italia, Francia. L’emigrazione dal Zhejiang ha conosciuto il primo picco proprio pochi anni prima dello scoppio della crisi. In Italia, ad esempio, i flussi più consistenti si sono avuti negli anni 2003, 2004 e 2005, per lasciare poi il posto a incrementi decrescenti fino a un nuovo picco negli anni 2009, 2010 e 2011, cui è seguita una fase di contrazione degli ingressi tuttora in atto. Due fenomeni paralleli hanno accompagnato questo andamento migratorio: da un lato, i nuovi ingressi dall’estero hanno interessato in misura crescente ricongiungimenti familiari e ingressi per motivi di studio, con una quota sempre minore di persone che migrano in Italia per motivi di lavoro; dall’altro, vi è stato un sensibile e progressivo incremento dei ritorni in patria, che dal 1994 al 2013 hanno interessato complessivamente 12.061 persone. Oltre il 60%di questi ritorni si è verificato negli ultimi cinque anni. Certo, non sono poi molti: rapportati ai 256.846 cittadini cinesi residenti in Italia nel 2013, è un modesto 4,7%, che senza dubbio raccoglie anche molti anziani desiderosi di trascorrere il crepuscolo delle proprie esistenze nel paese natale.

Visitando i contesti di origine, tuttavia, non si può non restare colpiti dalla frequenza con cui ci si imbatte in persone giovani che dichiarano di essere tornati in Cina dopo aver trascorso periodi relativamente brevi in Italia. Se nei villaggi di montagna da cui sono originariamente ripresi i flussi negli anni Ottanta e Novanta oggi si incontrano quasi solo persone anziane, veterani della migrazione che passano il tempo a giocare a carte o a mah jong (majiang, 麻将) fino all’imbrunire, intavolando interminabili chiacchierate nei loro pittoreschi dialetti, nelle cittadine di media grandezza come Qingtian, Wencheng o Rui’an i “ritornati” sono persone di età inferiore ai trentacinque anni. In questi contesti urbani, tuttora pervasi da un certo fervore commerciale e da investimenti immobiliari che altrove nella regione stanno da tempo segnando preoccupanti battute d’arresto, queste persone svolgono mestieri che fino a metà degli anni Duemila erano più spesso riservati a migranti interni: tassisti, portieri d’albergo, commessi ecc. I più avventurosi aprono piccoli esercizi commerciali, negozi di abbigliamento o bar “in stile italiano”, in cui è possibile bere caffè espresso italiano o un buon bicchiere di barbera. Chi ha tentato di inserirsi nella manifattura, invece, si dichiara pentito o quantomeno preoccupato: troppi vincoli burocratici, troppo poche guanxi, mercati imprevedibili, corruzione ingestibile, maestranze riottose e volatili.

Quelli che in Italia hanno fatto fortuna sul serio tendenzialmente si dedicano all’import-export, o si cimentano in arditi progetti di speculazione immobiliare. Un buon esempio è il progetto Italia in Tonglu, recentemente presentato presso la Camera di commercio italo-cinese da Jiang Wenyao (Oscar Jiang), presidente dell’Associazione generale del commercio di Qingtian in Italia. Tonglu è una “cittadina modello”, a un’ora d’auto dalla capitale del turismo interno cinese, Hangzhou, celebre per la qualità della sua progettazione urbana, la salubrità e la cura dell’ambiente, collocata in prossimità di un sito di interesse storico-paesaggistico. Nella regione del Zhejiang questa città viene proposta al turismo di lusso interno come luogo deputato allo svago, al relax e allo shopping di alto livello. Il progetto in cui si è impegnata una cordata di imprenditori transnazionali originari di Qingtian e residenti in Italia è quello di realizzare una “Europatown”, un quartiere che amalgami in un ibrido esotizzante parchi a tema, centri commerciali, hotel di lusso, spa resort e casinò d’ispirazione europea. China European City (Zhong’ou cheng, 中欧城), infatti, si presenta come un insieme coeso di edifici costruiti in modo da emulare i tratti caratteristici del borgo italiano tipico, ma con un tocco di gigantismo alla cinese: la piazza, il campanile, i portici ecc. L’impatto estetico del rendering del progetto sull’osservatore europeo è straniante, un bizzarro esempio di esotismo occidentalista, ma sul consumatore cinese benestante – assicurano i proponenti – l’effetto è di grande seduzione. Per tutti quei cinesi che non possono o non vogliono recarsi all’estero, questo surrogato offrirà le medesima opportunità di acquistare i grandi marchi europei, mangiare e bere all’europea, andare all’opera o a un concerto, per poi svagarsi all’ombra di cupoloni brunelleschiani e colonnati simil-Bernini. L’area coinvolta è di quattrocentomila metri quadri, l’investimento è di tre miliardi di Rmb, poco più di 420 milioni di euro al cambio di gennaio 2015.

Non è un caso che a proporre questo tipo di iniziative siano migranti transnazionali che risiedono in Italia o in altri paesi europei, e non return migrants ristabilitisi in Cina. Il fattore motivante del ritorno di questi ultimi, per quanto riguarda l’area storica di provenienza dei “nostri” cinesi, sembra essere piuttosto il crollo delle aspettative, la fine del loro “sogno italiano”. Emigrati sull’onda dell’ultima grande sanatoria e dei primi decreti flussi, convinti di poter realizzare a breve termine quelle “epopee veloci” di riuscita economica che avevano portato molti migranti degli anni Ottanta e Novanta dalla condizione di lavapiatti o operaio tagliafili a quella di proprietario di una trattoria o di un laboratorio di confezioni nel giro di meno di dieci anni, sono stati colti in contropiede dall’impatto con le mutate condizioni del mercato del lavoro in Italia e Spagna negli anni Duemila. Non solo si sono drasticamente ridotte le possibilità d’inserimento dal basso, in seno a segmenti dequalificati dell’economia manifatturiera e dei servizi gestiti – quantomeno ai livelli inferiori delle catene di produzione – da altri migranti cinesi. Il crescente spostamento verso il settore dei servizi dell’imprenditoria immigrata cinese (dalla manifattura al piccolo commercio) ha anche eroso le possibilità di trovare occupazioni in grado di ricompensare bassi investimenti con ragionevoli margini di profitto, e ha alzato la posta della qualificazione necessaria per trovare impiego. Un operaio generico in un laboratorio pronto-moda pratese può forse sperare in uno stipendio di 800 euro al mese, ma solo per alcuni periodi dell’anno e a fronte di un surplus di offerta di lavoro che gli sottrae potere contrattuale. Un apprendista parrucchiere può garantirsi opportunità migliori, ma deve essersi già formato prima di emigrare, e si colloca comunque in un mercato già prossimo alla saturazione.

Nella maggior parte degli esercizi commerciali aperti dai cinesi d’Italia negli ultimi dieci anni si impiegano i figli o parenti nati e cresciuti in Italia, o al massimo quelli di recente ricongiunti ai genitori: queste imprese raramente si rendono disponibili a stilare contratti di soggiorno con adulti neo-migranti. L’enclave socio-economica su base etnico-familiare cinese, che resta tuttora il principale datore di lavoro per i migranti cinesi nel nostro paese, va costantemente contraendo la propria capacità di assorbire lavoro. L’accesso a queste occupazioni è sempre più selettivo. Chi è emigrato dopo il 2005 fatica a inserirsi in modo soddisfacente, lavora sostanzialmente per ripagare i debiti contratti per emigrare, ma spesso non dispone di risorse sufficienti, in termini di capitale sociale, per garantirsi una mobilità sociale verso l’alto in tempi ragionevoli. Inoltre – commentano con un certo disappunto i migranti di più vecchia data – questi nuovi emigranti non sanno più “mangiare amaro” (chiku, 吃苦): non sono più capaci di sopportare i sacrifici, la compressione dei consumi e della vita sociale, la fatica fisica dei lunghissimi turni di lavoro che hanno reso possibile il successo di chi li ha preceduti. Cresciuti nella Cina del boom, si aspettano trasformazioni fulminanti e continue, hanno avuto vite più piene, ricche e gratificanti prima di emigrare. Insomma, non hanno “la stoffa giusta” e finiscono per gettare la spugna. I loro coetanei rimasti in Cina hanno spesso carriere più rapide delle loro, che perseguono assieme ai propri amici e parenti, nei contesti in cui sono cresciuti – o al massimo spostandosi di qualche centinaio di chilometri.

Il tassista, la receptionist, il barbiere, il barista, la commessa che a Qingtian raccontano la propria decisione di tornare dopo meno di cinque o sei anni passati in Italia lo fanno senza amarezza. Ci hanno provato, ma sono ancora giovani. Hanno visto un po’ di mondo, ma sono contenti di essere tornati per tempo in un paese che sentono ancora in corsa, ancora capace di stupire il mondo e offrire loro una chance di realizzazione personale. Un paese che, a differenza di chi li ha preceduti, sono ancora in grado di sentire proprio, in cui si sentono a casa.3 Sottolineano che, in ogni caso, conservano i legami familiari con i parenti all’estero, da cui possono trarre vantaggio anche restando in Cina. Anzi, possono fare da snodo locale per imprese di import-export gestite da propri parenti in Italia, Spagna e Francia. Aprire loro – e ai prodotti europei che proprio gli imprenditori migranti iniziano a proporre con successo ai consumatori cinesi – le porte del mercato cinese. “Non hai visto i cartelli all’entrata del paese?”

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