I l locale è piccolo, a malapena 50 posti, ma è gremito di giovani dall’aspetto curato e con quel tocco di flair metropolitano cinese che li distingue immediatamente dai loro coetanei sino-italiani. Lanren shao (懒人烧) significa “rosticceria dei pigri”, un nome assai più simpatico dell’inquietante Carnivore union che è invece il nome “italiano” del ristorante: è un tipico ritrovo studentesco fondato a Milano da alcuni ragazzoni pechinesi con la passione per la musica alternativa, il calligraffitismo cinese (calligrafia cinese interpretata in stile graffiti) e lo huoguo (火锅), la “pentola mongola” o fondue chinoise. Davanti a una pentola ricolma di brodo bollente incrociano le bacchette gruppi di studenti – ma anche turisti e giovani expat – cinesi richiamati dal tam tam su WeChat un po’ da tutte le città del Nord Italia, ma soprattutto da Torino e Milano, dove la concentrazione di universitari cinesi è particolarmente forte. L’atmosfera è perfetta: sembra di essere in un tipico covo underground della Pechino giovane e punk-rock, musica indie cinese e angloamericana in sottofondo, pareti coperte dai graffiti lasciati dai clienti e dalle polaroid con cui lo staff immortala le serate dei suoi avventori. Il menu è semplice ma convincente: huoguo e shaokao (烧烤) a base di ingredienti genuini e cucinati con brio… o lasciati cuocere nel brodo secondo l’estro della clientela.
È solo l’ultimo esempio di una nuova tendenza che sta rivoluzionando la gastronomia cinese a Milano (e in misura minore in altre città italiane), ma più in generale segnala una profonda trasformazione della socialità cinese in Italia, tanto sul piano dei comportamenti e delle mode, quanto su quello dei consumi materiali e culturali. Oggi Milano è senza dubbio la capitale italiana della cucina cinese “autentica”, ovvero considerata accettabile anche dai sofisticati palati dell’equivalente cinese della “generazione Erasmus”, quasi sempre rampolli della nuova classe media, i cui generosi conti in banca ne foraggiano l’educazione europea. Locali come Lanren shao, infatti, sono nati per intercettare questo nuovo segmento di mercato. A inaugurare i primi esempi di questo genere di ristorante sono stati cinesi del Zhejiang – tipicamente di seconda generazione – che si sono accorti del disagio provato da un crescente contingente di nuovi consumatori cinesi. Giovani con una significativa capacità di spesa e una certa tendenza alla tipica autoreferenzialità dell’expat in una città in cui mangiare cinese “come in Cina” fino a qualche anno fa era quasi impossibile. Cinque anni fa in via Padova apriva il Mong Kok/Wang Jiao (旺角), che rapidamente sviluppò per gemmazione una sfilza di locali sparsi per la città, in grado di offrire piatti allegri e alla moda – le cucine di riferimento sono tipicamente quella hunanese, sichuanese, shanghaiese e cantonese – a prezzi relativamente contenuti, pensati per una clientela cinese volubile, sostanzialmente refrattaria alla cucina italiana ma caparbiamente orientata a non cucinarsi mai nulla da sola.
Ovviamente i milanesi più attenti ai trend metropolitani si sono subito fatti catturare da questi locali così diversi dal “solito cinese”, pieni di giovani asiatici trendy e carichi di energia, e hanno rafforzato l’idea che il capoluogo lombardo fosse maturo per una piccola rivoluzione gastronomica. Oggi locali di questo tipo si vanno moltiplicando, spesso sono gestiti da ex-studenti e impiegano studenti part-time. Molti sono in realtà sino-italiani della cosiddetta generazione 1.25, arrivati in Italia da adolescenti e quindi ancora perfettamente in grado di relazionarsi con i propri coetanei nati e cresciuti in Cina. Di fatto queste piccole trattorie si vanno affermando come un volano di socialità tra cinesi che vanno apprendendo l’italiano, italiani che stanno studiando il cinese o semplicemente avventori che cominciano a “riconoscersi” in una città in cui il cinese non è più soltanto l’immigrato tutto lavoro e sacrificio, ma un proprio pari con il quale magari scambiare un brindisi e qualche chiacchiera… e magari discutere di cose da fare insieme. Va emergendo con una certa evidenza il ruolo inaspettato ma potenzialmente trainante degli studenti – e in termini più ampi, dei giovani professionisti espatriati – cinesi per il tangibile salto di qualità che si è rilevato in questi ultimi anni nell’immagine sociale e nella capacità di influenza culturale dei cinesi d’Italia.
Gli studenti cinesi immatricolatisi nell’anno accademico 2014/2015 nelle università italiane erano il 9,2% del totale degli immatricolati con cittadinanza non italiana, al terzo posto dopo romeni e albanesi. Considerato che il dato assoluto riferito al medesimo anno accademico per gli alunni con cittadinanza non italiana era di 13.056, di cui 9.891 non comunitari e 3.165 comunitari, i cinesi immatricolatisi nelle università italiane nell’anno accademico 2014/2015 sarebbero circa 1.200. Di questi, il 23% circa (272 studenti) si è diplomato in Italia: si tratta dunque di giovani di seconda generazione, nati o cresciuti in Italia. Ben il 77% (924 studenti) è invece rappresentato da studenti universitari cinesi che si sono trasferiti in Italia per motivi di studio. Gli atenei più gettonati dagli studenti stranieri in generale sono quelli di Bologna, Roma, Milano, Torino, Padova e Genova, ma per gli studenti cinesi la parte del leone la fanno i politecnici di Milano e di Torino. A questi atenei si aggiungono le accademie, i conservatori, le scuole di design, gettonatissime dagli studenti cinesi.
Secondo dati pubblicati dal Ministero dell’istruzione cinese, nel 2014 gli studenti universitari cinesi che studiavano all’estero sarebbero stati complessivamente circa 459.800, quelli rientrati in patria dopo aver studiato all’estero 364.800. Le autorità consolari cinesi in Italia registravano in quell’anno complessivamente 9.500 visti per studio in corso di validità, di cui oltre 4.000 riferiti a studenti che frequentavano atenei pubblici italiani. Dal 1978 al 2015, sono ben 40.421.000 i cinesi che hanno studiato fuori dalla Rpc, di cui poco meno dell’80% sarebbe rientrato nel paese una volta conclusi gli studi. Sono dati ufficiali e vanno considerati con una certa cautela, ma rendono l’idea di quanto sia imponente questo fenomeno e quale portata possa avere sulla società cinese. Nel 2015 il totale degli studenti universitari cinesi all’estero, sempre stando alla fonte ministeriale, avrebbe raggiunto quota 523.700 studenti, quindi quelli residenti in Italia sono ancora una goccia nel mare, meno del 2%. Tuttavia, l’Italia si è ormai affermata come la quarta destinazione europea per gli studenti universitari cinesi, dopo Regno Unito, Francia e Germania. Secondo i dati pubblicati dal Consiglio scientifico Uni-Italia, l’ente che dal 2011 gestisce i programmi Marco Polo e Turandot, volti ad agevolare l’accesso degli studenti cinesi alle università e alle istituzioni Afam (accademie di belle arti, conservatori di musica e scuole di moda e design), nel 2015 le preiscrizioni di studenti cinesi avrebbero raggiunto quota 4.138.
Grazie all’accordo sui visti di studio tra la Rpc e la Repubblica Italiana, in vigore dal 2006, agli studenti cinesi che vogliono studiare in Italia è consentito ottenere il visto per studio anche senza previe competenze nella lingua italiana, purché si iscrivano a uno dei corsi di lingua italiana appositamente istituiti e propedeutici all’immatricolazione. Ciascun ateneo o istituzione Afam può decidere di anno in anno se riservare o meno un contingente Marco Polo o Turandot segnalandolo al Miur tramite la banca dati Cineca. Per l’anno accademico 2016/2017 aderiscono ai due programmi 69 università e 100 istituzioni Afam. I corsi di italiano oggi hanno una durata rispettivamente di otto mesi (dieci mesi in via sperimentale). Un ulteriore requisito è il possesso di un diploma di maturità con una positiva votazione all’esame per il passaggio all’università (gaokao, 高考) o di un certificato di laurea. Si va facendo strada la proposta di un requisito minimo per il punteggio ottenuto nel gaokao, ovvero si chiede che esso sia pari o superiore ai 400 punti.
Si è fatto molto per incentivare gli scambi di studenti tra atenei cinesi e italiani in questi ultimi vent’anni, ma sussistono tuttora problemi importanti, ben noti al Miur e che Uni-Italia propone di affrontare in maniera più strutturata e coerente da diversi anni. Da un lato, sussistono tuttora serie difficoltà relative all’espletamento ragionevolmente spedito delle pratiche burocratiche inerenti la concessione del visto per studio, l’ottenimento e il rinnovo del permesso di soggiorno, l’accesso al sistema sanitario nazionale. Dall’altro, il problema più acutamente percepito dagli atenei è quello della competenza linguistica, tuttora largamente considerata inadeguata per assicurare una riuscita ottimale dei percorsi di studio. Molti studenti cinesi che scelgono di studiare in Italia sono attratti primariamente dai costi relativamente bassi dell’istruzione e dalla minore difficoltà di accesso ai programmi di scambio rispetto a quanto avviene in altri paesi europei e in particolare rispetto al mondo anglosassone. Sanno molto poco dell’Italia, della lingua e della cultura italiana – e questo è particolarmente vero per coloro che optano per corsi di carattere tecnico, ingegneristico e scientifico, auspicando che l’erogazione di corsi in lingua inglese possa consentir loro di superare le difficoltà di inserimento. Le cose in genere vanno diversamente.
I circa 10.000 studenti universitari attualmente residenti in Italia (stima ragionevole se si calcolano i visti attivi al 2014 e le pre-iscrizioni al 2015) nella maggior parte dei casi tendono a fare gruppo a sé, sia perché la scarsa competenza linguistica ne limita le relazioni con i coetanei italiani, sia perché sono rare le iniziative promosse a livello di ateneo per rafforzarne le competenze sociali e culturali. Un ulteriore punto debole è rappresentato dalle limitate prospettive di carriera in ambito accademico degli studenti postgraduate nel nostro sistema universitario, sotto-finanziato e in seria difficoltà sul piano del reclutamento di nuovi ricercatori e docenti, oltre che tradizionalmente assai chiuso nei confronti dell’incardinamento di studiosi non italiani. Considerato il ruolo che questi studenti, quasi tutti espressione delle élite cinesi contemporanee, tanto a livello economico che politico, potrebbero giocare un domani nel favorire scambi, relazioni e opportunità tanto per il mondo scientifico italiano quanto per quello economico, forse la questione andrebbe colta nel suo carattere strategico e meriterebbe maggiore attenzione da parte dei nostri decisori politici, nonché più articolati e sostanziosi investimenti.
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