L’inaspettato endorsement di un candidato alle primarie di febbraio del Partito democratico a Milano da parte delle principali associazioni di imprenditori cinesi milanesi, a partire dall’Unione imprenditori Italia Cina (Uniic) di Francesco Wu, ha destato un certo scalpore. Il fatto che poi, a poche settimane di distanza, le primarie del Pd a Roma abbiano visto mobilitarsi un comitato di attivisti cinesi nel tentativo, più meditato e strutturato di quello milanese, di sensibilizzare e motivare alla partecipazione i cinesi di Roma, ha ulteriormente rafforzato l’impressione di un risveglio della sensibilità politica di una popolazione a lungo stigmatizzata come “chiusa” e “autorefere nziale”. Proprio queste caratteristiche di “scarsa propensione a integrarsi” ascritte ai cittadini cinesi residenti nel nostro paese dalla maggior parte dei giornalisti e dei commentatori politici hanno fatto dubitare del loro improvviso attivismo politico. Sul Fatto Quotidiano, il commento di Gianni Barbacetto alla pubblicazione dell’invito al voto su huarenjie.com, il principale portale web dei cinesi d’Italia ha giudicato poco credibili come simpatizzanti della sinistra milanese i cinesi del capoluogo lombardo, ventilando il sospetto che il loro sostegno al candidato “meno di sinistra” tra quelli in lizza, Giuseppe Sala, fosse un esempio delle manovre in atto per garantire a quest’ultimo un appoggio “esterno”, ovvero non ascrivibile ai tradizionali elettori del Pd, in grado di controbilanciare quello riservato dalla sinistra agli altri candidati.
I media italiani hanno sottolineato in più occasioni quanto fosse singolare che i cinesi che a Milano si sono recati alle urne non sapessero quasi nulla del processo elettorale cui prendevano parte, tranne il nome del candidato da votare. Il gazebo eretto nel quartiere Paolo Sarpi da una delle associazioni cinesi che si sono espresse a favore di Sala per organizzare e inviare al voto piccoli gruppi di cinesi desiderosi di partecipare ha fatto molto discutere, come pure il fatto che l’unica motivazione data dal citato annuncio su huarenjie.com per favorire tale candidato fosse la presunta non-ostilità di Sala alle istanze promosse dai commercianti e imprenditori cinesi, e in particolare di quelli con attività collocate nel quartiere Sarpi. Tutto troppo spiccio e semplicistico, tanto che in molti seggi si è espresso il sospetto che si trattasse di “truppe cammellate”, di gente che non aveva idea di cosa stesse facendo, ma che ci teneva molto a far sapere a qualcuno, magari improvvisando selfie in pieno seggio o fotografie della propria ricevuta elettorale, di aver votato “giusto”.
Interpellato in proposito, Francesco Wu spiega che è ben consapevole dei limiti dell’esperienza milanese: “Il fatto è che la decisione di partecipare alle primarie è maturata in seno ai vertici delle diverse associazioni della comunità cinese solo a gennaio inoltrato. A fine mese siamo riusciti a ottenere un rapidissimo incontro con Sala presso il circolo del Pd di Porta Romana, in cui ci ha spiegato che era consapevole del fatto che una parte della città non ci volesse bene e che essendo lui un commerciante poteva capire le nostre ragioni. Ma non ci sono stati accordi specifici di alcun genere, semplicemente una disponibilità a ragionare insieme e a capire come poter collaborare in futuro. In seguito a questo incontro, gli esponenti delle diverse associazioni di imprenditori cinesi di Milano hanno deciso di sostenere Sala, invitando i cittadini cinesi a votare per lui. Solo che non c’è stato un vero e proprio coordinamento: nel giro dei pochi giorni a disposizione, tutti si sono mossi un po’ per conto proprio, spesso anche in modo ingenuo e pasticcione, come nel caso del gazebo o accompagnando la gente a votare in gruppo. L’Uniic, dal canto suo, ha fatto soprattutto campagna elettorale nei negozi del quartiere Sarpi e sui social in rete. In ogni caso, nessuno è stato “spinto” al voto, non si è tenuta alcuna traccia dei votanti, i dati sul voto dei cinesi li abbiamo letti sui giornali. Per noi è stato importante dare un segnale, far capire che noi ci siamo e vogliamo contare di più”.
I conteggi definitivi dei partecipanti al voto di Milano sono ancora in corso, ma interpellato a inizio marzo il comitato delle primarie milanesi ha comunicato che meno del 3% dei votanti risulta di nazionalità non italiana, e tra questi poco meno del 50% sarebbe cittadino della Repubblica popolare cinese. Posto che tale stima preliminare si riveli corretta, il “voto cinese per Sala” si riassumerebbe in qualche centinaio di preferenze: ufficiosam ente si va da un minimo di duecento a un massimo di novecento, su complessivi 60.628 votanti. Poca cosa, dunque: se il tema non fosse stato rilanciato dall’iniziativa dei cinesi di Roma in occasione delle primarie del 6 marzo la questione sarebbe già stata archiviata e dimenticata dai nostri media.
Ma questa lettura trascura il significato più profondo e significativo di questa vicenda, i cui sviluppi sono ancora in fieri e segnalano, potenzialmente, una interazione di più lungo periodo tra esponenti delle diverse realtà associative cinesi, privati cittadini cinesi (o cittadini italiani di origine cinese) e corpi intermedi della politica e della società italiana. A Milano i cinesi hanno saputo esprimere la più forte partecipazione alle sole consultazioni democratiche cui possono partecipare cittadini stranieri che non siano in possesso della cittadinanza italiana. Lo hanno fatto per testimoniare l’importanza che attribuiscono alla politica locale per lo sviluppo delle proprie condizioni di vita e di lavoro, esprimendo la volontà di avere voce in capitolo e di essere determinati a farla contare. È davvero così strano che a mobilitarsi siano soprattutto gli imprenditori, in una collettività in cui è lavoratore autonomo un adulto su tre? È “politicamente sospetto” chi sceglie, da cittadino straniero, di far pesare la propria voce a partire dalle questioni da cui essenzialmente dipende la propria attività economica e in ultima istanza il successo del proprio progetto migratorio? Nessuno dei cronisti e commentatori che si sono espressi in merito in questi giorni sembra aver compreso fino in fondo l’anomalia tutta italiana di avere quote sempre più significative della forza lavoro urbana, inclusa quella che crea impresa e posti di lavoro, impossibilitate a partecipare pienamente alla politica delle loro città poiché non sono cittadini italiani, né hanno la possibilità di naturalizzarsi in tempi relativamente rapidi.
A Milano i residenti stranieri sono circa il 19% della popolazione cittadina complessiva, ma sono quasi un quarto della popolazione attiva e oltre il 10% degli imprenditori. Rappresentano il 34% della popolazione nella fascia d’età 26-34 anni e il 25% dei minorenni. Ha senso che quote così ampie e rappresentative della popolazione urbana non abbiano modo di partecipare al modo in cui è governato il contesto in cui vivono, lavorano, crescono i propri figli? Davvero ci stupiamo che all’interno di tali quote vi siano persone adulte che si ritengono portatrici di specifici interessi, e che alcuni di questi interessi abbiano anche carattere “comunitario”, ovvero attengano ai membri di una specifica minoranza etnico-nazionale? In tutti i paesi in cui l’immigrazione ha trasformato il corpo sociale delle principali metropoli, l’attivismo politico delle minoranze si è sempre inizialmente coagulato attorno alla difesa di interessi di carattere comunitario, prima di far fiorire forme più complesse e diversificate di affinità politica. Negli Stati Uniti ancora oggi si parla di “voto latino” o di “voto nero”, anche se in seno a tali minoranze poi convivono di fatto opinioni assai variegate rispetto ai diversi programmi, partiti e candidati che caratterizzano la politica statunitense a ogni livello, dall’elezione del sindaco fino alla corsa per la presidenza. È ipocrita e ingeneroso vedere nell’azione collettiva degli imprenditori di una minoranza immigrata “una mera difesa corporativa di interessi particolari” – come se gli imprenditori italiani si comportassero in maniera diversa!
Il dato vero di queste primarie, dunque, è piuttosto la struggente assenza della voce degli immigrati e la colpevole negligenza della principale forza di governo italiana nei loro confronti: nessuno sforzo di coinvolgimento, nessuna iniziativa capace di dare dignità e visibilità al voto dei cittadini stranieri da parte del partito. I soli che abbiano trovato il tempo, l’energia, la voglia e la fiducia in se stessi e nelle istituzioni necessaria per farsi avanti in numero significativo, sono stati i cinesi. E non perché qualcuno abbia voluto usarli per garantirsi migliori chance di vittoria, ma perché sono alla ricerca di qualcuno che possa dar loro voce, in attesa di potersi fare avanti di persona. In realtà, nel novero crescente dei sino-italiani politicamente attivi, c’è già chi si è fatto avanti, come Angelo Hu, il primo a ricoprire una carica elettiva come consigliere comunale a Campi Bisenzio. Eletto nella lista di Sel, in barba a chi vede i cinesi d’Italia “propensi al voto di destra”.
E il controcanto romano alla partecipazione alle primarie del Pd è stata una straordinaria testimonianza di passione democratica. Su impulso di Marco Wong, responsabile del comitato Jasmine roots, fondato proprio per far meglio comprendere ai cinesi di Roma l’importanza delle primarie e la loro possibile rilevanza per il desiderio di far contare il proprio contributo alla vita sociale ed economica della città anche in chiave politica, i membri delle associazioni cinesi romane hanno optato per uno sforzo più articolato e coordinato di interlocuzione con i candidati. Producendo efficaci vademecum a fumetti – in cinese e in italiano – su come si vota, prendendosi la briga di tradurre in toto i volantini dei candidati e di presentarne i programmi in modo chiaro ed esauriente, Jasmine roots ha voluto fare una vera e propria maieutica della partecipazione politica.
Nei confronti dei candidati, ha posto esplicitamente una serie di domande e formulato proposte chiare per sensibilizzare gli esponenti del Pd rispetto a quello che sarebbe necessario fare per migliorare l’integrazione sociale, economica e culturale della capitale. Il paradossale esito di questa generosa mobilitazione è che i principali candidati, compreso il vincitore Roberto Giachetti, hanno preferito non incontrare gli esponenti del comitato, forse timorosi di essere coinvolti in polemiche analoghe a quelle che si erano viste a Milano. Qualcuno dei candidati minori è stato decisamente più aperto e disponibile, ma alla fine il comitato Jasmine Roots ha preferito non esprimere una chiara indicazione di voto. Un’occasione persa per il Pd, che ha snobbato un’importante opportunità per mostrare quale valore attribuisca davvero al voto degli immigrati. Ma in fondo è la visione complessiva della società italiana a soffrire di miopia congenita nei confronti del potenziale politico delle sue minoranze.
Intervista a Marco Wong, responsabile del comitato Jasmine roots e presidente onorario di Associna
Come nasce il tuo coinvolgimento nella politica del Partito democratico?
Io mi sono ispirato agli esempi di mobilitazione politica dei sino-americani negli Stati Uniti, come la 80-20 Initiative, e decisi di coglier l’opportunità delle prime primarie del Pd a Roma nel 2007 per fare un’opera di sensibilizzazione sul diritto di voto degli stranieri. Mi candidai in una circoscrizione di Roma e portai al voto un numero abbastanza cospicuo di preferenze, circa 300. Poi ci furono le mie due candidature alle amministrative di Prato, pensate per dare rilievo al tema della rappresentanza politica della minoranza cinese, nel 2009 e nel 2012, ottenendo 241 voti di preferenza: sia italiani che sino-italiani. Mi colpì il fatto che cominciava a essere visibile un voto sino-italiano, espresso dal numero crescente di cinesi che avevano acquisito la cittadinanza italiana. Cosa che a mio avviso ha particolare valore perché la Cina non ammette la doppia cittadinanza, e dunque adottare quella italiana significa compiere un processo doloroso di abbandono di quella della patria ancestrale. Ma anche il fatto che ci fosse una quota sempre maggiore di persone non cinesi che fosse interessata a votarmi. Anche come Associna abbiamo fatto diverse iniziative di sensibilizzazione al voto, per arrivare a queste ultime primarie di Milano, dove sono stato in contatto con Francesco Wu cui ho cercato di dare qualche consiglio. Insomma, la sensazione è che queste esperienze avessero precorso i tempi e creato le premesse per iniziative di maggior respiro.
Perché si è costituito il comitato Jasmine roots?
L’intento è stato duplice. Da un lato evitare che potessero nascere anche qui le polemiche che ci sono state a Milano. Dall’altro proporre una partecipazione alle primarie più consapevole, perché è vero che tra chi ha votato a Milano forse non ce n’era molta. Per cui abbiamo cercato di fare tutto in maniera il più possibile trasparente e ben coordinata. Ci siamo mossi di concerto con le diverse associazioni cinesi di Roma, giovandoci anche del fatto che le associazioni dei cinesi di prima generazione avessero anche recepito l’indicazione da parte dell’Ambasciata cinese di evitare di esporsi a polemiche politiche. Volevamo anche che l’eventuale mobilitazione cinese convergesse su quel candidato che avesse anche avuto il coraggio di prendere impegni più concreti che non una semplice “disponibilità al dialogo”. Così abbiamo informato la comunità attraverso i social e diffondendo materiale informativo in cinese e in italiano, nel modo più trasparente possibile, e ci siamo proposti per incontrare i candidati, stilando una lista di dieci domande e dieci proposte che ritenevamo potessero contribuire a orientare le politiche e di conseguenza anche a indirizzare le preferenze degli elettori cinesi.
E come è andata?
Ci hanno fatto molti complimenti, hanno trovato condivisibili le proposte, ma di fatto gli unici che poi abbiano voluto incontrarci sono stati i candidati “minori” come Mascia e Pedica. Quindi alla fine non siamo riusciti a pervenire a un vero e proprio endorsement. L’impressione è stata che i candidati più forti, Morassut e Giachetti, non volessero assumersi il rischio di esporsi alle critiche di chi li avrebbe accusati di essere stati sostenuti dalle “truppe cammellate cinesi”.
Ci siete rimasti un po’ male…
Bisogna considerare che nel frattempo a Roma ci sono state le consultazioni della Lega, che a Roma hanno visto tra i protagonisti Irene Pivetti, da tempo nota in seno alla comunità cinese romana per i rapporti e le attività che la legano alla Cina. E sono andati a votarla in molti, si mormora che siano addirittura cinquecento. Un bel paradosso per la Lega, che non perde occasione per criticare l’appoggio a Sala da parte dei cinesi di Milano. Per festeggiare il buon risultato ottenuto per la Pivetti è stata organizzata una cena in cui ha ringraziato calorosamente per il supporto, cui ho partecipato insieme ad altri esponenti della comunità. Devo dire che se non sapessi quale parte politica rappresenta la Pivetti, l’avrei presa per una genuina “amica dei cinesi”. E allora mi chiedo: sono ingenui questi qui delle associazioni cinesi di prima generazione che esprimono sostegno a chi nel concreto spesso si adopera per facilitare opportunità imprenditoriali, o sono ingenuo io che per sostenere la parte politica di cui maggiormente condivido le idee e i valori sono costretto a fare la corte solo per farmi accogliere? Qualche dubbio ti viene. Anche se io non potrò mai votare la destra. Per quanto sia un imprenditore di orientamento liberale, i valori dell’inclusione e delle pari opportunità sono quelli che per me contano di più, e tradizionalmente questi sono i valori della sinistra.
Come vedi il futuro di Jasmine roots?
L’idea sarebbe di lavorare un po’ sulla seconda fase, quella delle elezioni amministrative vere e proprie. Si potrebbe pensare a un candidato sino-italiano che possa coagulare il voto cinese, cittadino italiano. Certo, si rischia sempre di alimentare lo stereotipo del “voto etnico”, una visione un po’ “da consulta dell’immigrazione” che è ancora molto in voga nella sinistra. Ma di fatto il valore dell’esempio di chi si fa avanti per essere eletto è molto importante, soprattutto per quei cinesi d’Italia che hanno capito che non basta aver fatto i soldi per essere realmente riconosciuti e accettati in questo paese.
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