Arrivano tutti i giorni, con autobus che li prelevano direttamente dalle vicinanze del quartiere Sarpi di Milano o nei pressi della Stazione centrale. Alcuni hanno l’aria un po’ dimessa e gli abiti stazzonati di chi campa di espedienti, la pelle scura del contadino di recente inurbazione. Altri invece hanno i modi spicci di chi commercia e contratta, orologi vistosi, smartphone di ultima generazione. Oltre due terzi degli avventori del Casinò Admiral di Mendrisio, nella Svizzera appena al di là del confine con l’Italia, è cinese. Una piccola parte di questi clienti – e non necessariamente la più facoltosa – è costituita da turisti cinesi che stanno facendo il proprio Grand Tour europeo. La maggior parte invece è composta da cinesi residenti in Italia, che da ogni città della penisola periodicamente convergono su questa casa da gioco (o altre nelle vicine Lugano e Campione d’Italia), per indulgere in una passione assai radicata in tutta la Cina e storicamente connaturata all’esperienza dell’emigrazione: il gioco d’azzardo.
Il casinò svizzero mette a loro disposizione personale di origine cinese o comunque in grado di parlare cinese, perfino all’interno delle unità di supporto psicologico per il contrasto della ludopatia, la cui presenza è obbligatoria nelle case da gioco elvetiche. Offre un buffet gratuito e tollera che la componente meno abbiente dei frequentatori cinesi di fatto si serva del casinò come di una sorta di ostello temporaneo dove si può mangiare e dormire gratis, anche se non si gioca o si giocano solo piccole somme. Ma tutti gli altri giocano, eccome. Cifre importanti, talvolta da capogiro, di svariate decine di migliaia di euro, come mi racconta una della cassiere: “Ma dove li trovano tutti questi soldi”?
I cinesi d’Italia sono i clienti principali dei casinò ticinesi almeno dalla fine degli anni Duemila. Il radicamento del fenomeno, il coinvolgimento capillare di persone cinesi sparse in tutta la penisola, come pure la rilevanza economica che assume per i gestori del casinò, fanno pensare che qui non si tratti soltanto di mera passione per il gioco, ma di un possibile veicolo per il riciclaggio di denaro la cui provenienza non è chiaramente documentabile. L’imprenditoria immigrata cinese in Italia si basa fondamentalmente sull’accesso a capitali veicolati dal credito informale, somme che circolano in contanti e fuori dai circuiti bancari tra parenti, amici, compaesani, conoscenti o partner d’affari. Una vasta componente di questa economia è dunque totalmente sottratta a qualunque tipo di scrutinio o trasparenza bancaria o fiscale, anche quando è il prodotto di attività lavorative perfettamente legittime e condotte nel rispetto della legalità. La facilità con cui somme di contanti si muovono da una persona all’altra nella fitta rete di relazioni privilegiate che costruisce il tessuto sociale cinese in emigrazione si presta così inevitabilmente anche al riciclaggio di denaro di provenienza meno pulita. Non soltanto proventi in nero di attività lecite, ma anche redditi generati da attività di carattere illegale.
A partire dalla ripresa dei flussi migratori dalla Cina all’Italia negli anni Ottanta del secolo scorso, le principali economie illegali che hanno visto coinvolti immigrati cinesi si possono ricondurre quasi tutte agli aspetti “oscuri” del dispositivo di emigrazione ed inserimento economico gradualmente sviluppatosi con il rinsaldarsi delle filiere migratorie che storicamente collegavano alcune località dello Zhejiang meridionale con alcuni contesti d’immigrazione europei. A cominciare dall’emigrazione stessa, agevolata da broker che potevano essere parenti presenti in Europa, funzionari locali in Cina, “passatori” di varie nazionalità che si mobilitavano per far superare confini e controlli. Gradualmente si sono sviluppati soggetti in grado di fornire un servizio più o meno completo di assistenza all’emigrazione e al collocamento lavorativo all’estero. Questo tipo di intermediazione ha sempre avuto connotazioni complesse e costi relativamente elevati, coinvolgendo numerosi soggetti in tutti i contesti coinvolti dal transito dei migranti. Di fronte al mutare della domanda (l’aumento o il declino dei migranti potenziali), delle condizioni politiche internazionali (crollo del Muro di Berlino, avvio di Schengen, guerre, ecc.), delle legislazioni relative all’immigrazione nei paesi europei e dell’emigrazione in Cina, i soggetti che traggono profitto da questo tipo di attività hanno dovuto costruire reti assai diversificate di collaboratori e complici, meccanismi sempre più sofisticati di progressiva “normalizzazione” dell’immigrazione clandestina.
Oggi, per esempio, chi ancora (e sono sempre meno) emigra dalla Cina per raggiungere l’Italia per motivi di lavoro generalmente acquista una sorta di “pacchetto premium” che, al costo di circa 25.000 euro, garantisce la chiamata nominativa da parte di un’impresa italiana, l’ottenimento di un passaporto e di un visto regolare per l’espatrio per motivi economici, la collocazione all’interno di un contesto lavorativo e sociale specifico e concordato. Di fatto il migrante che si serve di questo canale per immigrare in Italia, immigra “legalmente”. L’elemento illegale è a monte, nella struttura di contatti e di convenienze incrociate che rende possibile tutto il processo. Questo tipo di imprese economiche illegali è difficilissimo da intercettare, perché tutte le somme di denaro coinvolte sono generate “nell’ombra”: i soldi per l’espatrio sono anticipati da parenti già residenti in Italia, da parenti o strozzini locali in Cina.
Si tratta quasi sempre di denaro guadagnato in chiaro oppure in nero che però non è mai transitato per alcuna banca. Tutti i soggetti intermedi di questa trafila, dall’imprenditore italiano che dichiara di voler stipulare un contratto di soggiorno fino all’ufficio che in Cina emette il passaporto, il consolato che appone il visto, la compagnia aerea che vende il biglietto apparentemente non commettono alcun illecito. Magari l’imprenditore ha incassato un premio in contanti per assumere la persona in questione, che forse non lavorerà mai in quell’azienda ma sarà invece assunto in nero da un’impresa manifatturiera cinese in qualche distretto industriale del Centro Italia, come altre somme possono essere state messe in circolo per oliare le pratiche burocratiche necessarie all’espatrio in Cina.
Come è stato accuratamente documentato da diversi ricercatori in Italia e in Europa, lo sfruttamento lavorativo cui sono soggetti gli immigrati cinesi nel corso del loro inserimento socioeconomico è solo raramente derivato da forme esplicite di coercizione, mentre rappresenta un elemento strutturale del loro dispositivo migratorio. Un dispositivo che risponde a precise esigenze ed obiettivi condivisi da tutti gli attori che vi prendono parte: dal migrante che cerca un’opportunità di collocamento fino all’azienda finale cinese o italiana che trae profitto dalla compressione dei salari e dei tempi di produzione imposta al lavoratore cinese. Le reti criminali che si occupano di mediare la migrazione e il collocamento lavorativo sono troppo “lasche”, diffuse e variegate al proprio interno, per poterne ricavare in modo strutturato una forma coerente e rigidamente organizzata di economia criminale. Questo genere di network illegali hanno avuto occasionalmente, soprattutto in passato, risvolti di carattere violento e coercitivo, come nel caso di intermediari fraudolenti, che praticavano il traffico di migranti con finalità estorsive: molte condanne per sequestro di persona, estorsione, sfruttamento dell’immigrazione clandestina e associazione per delinquere di stampo mafioso comminate nel corso degli anni Novanta e Duemila hanno caratterizzato forme di criminalità organizzata cinese che spesso ricorreva all’intimidazione garantendosi il contributo di “enforcer” disposti alla violenza. Tipicamente questi ultimi erano persone giovani, che tentavano di inserirsi – con intenti eversivi e l’obiettivo di fare molti soldi in fretta per poi sparire – in un mercato normalmente orientato alla “fidelizzazione del cliente”. Più o meno la stessa tipologia di soggetti giovani e senza scrupoli ha caratterizzato la formazione delle gang giovanili cinesi negli anni Duemila e Duemiladieci. È importante sottolineare che la fenomenologia criminale in questione – network criminali di adulti o gang giovanili – ha però storicamente avuto sempre dimensioni molto limitate. Come ricorda Stefano Becucci nel suo rapporto sulla criminalità cinese in Italia, l’azione penale avviata dall’autorità giudiziaria nei confronti di cittadini cinesi nel periodo 1995-1999 aveva coinvolto appena 630 individui. Negli anni 2004-2010 (anni che hanno visto il picco di maggiore emigrazione dalla Cina verso l’Italia), il numero di cittadini cinesi denunciati per vari reati è cresciuto da 450 a 1.233 all’anno. Un aumento significativo, ma tutto sommato contenuto se parametrato alla parallela crescita del totale della popolazione cinese in Italia: l’incidenza media delle persone denunciate sul totale si mantiene stabile allo 0,6%. Dimentichiamo le Triadi e le cupole in grande stile, le grandi strutture verticistiche e gerarchiche, tutti i parafernalia classici dell’immaginario mafioso nostrano. Malgrado le gang giovanili, soprattutto, abbiano dimostrato di saper esprimere una notevole e preoccupante capacità di ricorrere a forme assai brutali di violenza e di intimidazione, qui non sembrano esistere i presupposti per lo sviluppo di economie criminali di grande respiro: insignificante e del tutto subalterno a realtà italiane è infatti il coinvolgimento di queste forme di criminalità organizzata nel traffico di droga, armi o prostituzione, da sempre il core business delle organizzazioni criminali nostrane. Dovrebbe preoccupare invece il fatto che una quota rilevante, seppur difficilmente quantificabile, del reddito generato dall’economia dell’immigrazione cinese in Italia, quella legale come quella illegale, assuma tuttora forme poco o per nulla tracciabili. Una zona d’ombra pericolosa da imputare a una singola minoranza, in un paese in cui l’economia sommersa genera ancora circa un quarto del Pil, perfettamente permeabile al riciclaggio di denaro sporco, del tutto indifendibile sul piano comunicativo. I media italiani spesso affrontano il tema in maniera piuttosto grossolana: si tende facilmente a estendere episodi di riciclaggio e di trasferimento illegale di capitali che riguardano piccoli gruppi di sodali cinesi all’intera comunità. Ora che la fase “eroica” dell’epopea migratoria cinese in Italia può dirsi conclusa è forse giunto il momento di affrontare in modo più incisivo e documentato la questione, perché rischia di pesare in maniera sproporzionata sull’immagine sociale dei cinesi d’Italia e di condizionare in modo molto negativo le aspirazioni delle giovani generazioni a un maggiore riconoscimento sociale e una più attiva partecipazione politica.
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