Nei numeri precedenti si è già avuto modo di analizzare più da vicino il ruolo e le dinamiche recenti degli investimenti diretti esteri (Ide) in entrata e uscita dalla Repubblica popolare cinese (Rpc). Nel complesso, gli Ide rappresentano uno strumento di grande importanza dal punto di vista economico, perché legati alle dinamiche di produzione globale, e, più in generale, alle relazioni tra paesi, e per questo sono spesso nell’agenda delle visite ufficiali, inclusa l’ultima del presidente del Consiglio italiano nella Rpc. Per queste ragioni appare opportuno riflettere proprio sul ruolo della Rpc nelle strategie di investimento all’estero dell’Italia.
Rispetto al peso economico complessivo, l’Italia non è tra le principali fonti di Ide a livello globale. I flussi in uscita dal nostro paese oscillano in media tra l’1 e il 3% di quelli globali, un valore decisamente inferiore a quello dei principali paesi europei, inclusi alcuni competitor diretti quali Germania e Francia, entrambi con una media superiore al 6% nell’ultimo decennio.
Geograficamente, la gran parte degli investimenti italiani si distribuisce nei vicini paesi europei. L’assenza – con qualche eccezione – di vere e proprie multinazionali e la prevalenza di piccole e medie imprese ben spiega la riluttanza a esplorare contesti più distanti, e quindi rischiosi, seppure ricchi di opportunità. La Rpc non fa eccezione: ha ricevuto finora solo circa il 2% dello stock degli investimenti all’estero italiani, anche se il valore appare più rilevante laddove si guardi al numero totale di affiliate estere (1.103) e, in particolare, al numero di addetti (85 mila) (Tabella 1).
I dati dell’ultimo decennio gettano luce sulle dinamiche più recenti e sui cambiamenti in corso nelle strategie delle imprese italiane in Cina. Nel periodo 2003-2011, la quota di Ide italiani nella Rpc è risultata circa la metà di quella francese e un terzo circa di quella tedesca (Figura 1), a dimostrazione delle difficoltà strutturali nell’affrontare i mercati esteri più distanti rispetto ai principali competitor all’interno dell’Ue.
Riguardo alla distribuzione settoriale, la gran parte degli investimenti i Cina ha interessato il comparto tessile, con il 44% del totale, seguito a larga distanza da macchinari e servizi finanziari (Tabella 2). È da segnalare anche che la scala media degli investimenti nel tessile risulta inferiore rispetto ad altri settori, a maggior intensità di capitale (Tabella 2).
Per comprendere quali motivazioni guidino le scelte localizzative degli investitori italiani, è utile osservare la distribuzione degli investimenti per tipologia di attività svolta nella Rpc (Tabella 3). Emergono due fenomeni interessanti. Il primo è che, nella gran parte dei casi, le imprese italiane in Cina sono impegnate in attività commerciali o produttive, come d’altronde è stato evidenziato da lavori precedenti basati su indagini campionarie nel paese. Vi sono però notevoli differenze tra i vari settori. Mentre la gran parte (95%) degli investimenti nel tessile riguarda attività legate al commercio al dettaglio, l’80% circa degli investimenti nel settore dei macchinari è legato ad attività produttive. Le imprese investitrici sono chiaramente più propense ad affidare la produzione a fornitori e subcontraenti locali nel caso di produzioni – come quella tessile – a più basso contenuto tecnologico e, dunque, con minori rischi di violazione di patenti e diritti di proprietà intellettuale.
Il secondo fenomeno, più generale, è invece un progressivo ridimensionamento degli investimenti motivati dal basso costo dei fattori produttivi; crescono invece quelli volti all’acquisizione di spazi commerciali, anche su piccola scala, per sfruttare il potenziale dell’enorme mercato cinese. Ciò segna una differenza rispetto a Francia e Germania – che sembrano scegliere ancora la Cina come destinazione per produzioni più economiche – ma mostra, soprattutto, un cambiamento strategico delle imprese italiane, che devono fare i conti, a causa della crisi, con l’esigenza di una razionalizzazione delle risorse. A questo riguardo, si osserva anche una maggiore diversificazione geografica, con investimenti localizzati non più soltanto nelle provincie costiere, ma anche nelle più popolate aree centrali.
Se questi cambiamenti nelle strategie di investimento siano solo transitori, e dovuti agli effetti della crisi, è presto per dirlo, non essendo ancora disponibili i dati degli ultimi due anni. Tuttavia, considerando l’aumento dei costi di produzione in Cina, lo sviluppo dei consumi e le difficoltà della ripresa economica in Europa, è lecito attendersi che siano sempre più le opportunità di espansione commerciale a spingere le nostre imprese a scegliere la Cina come destinazione dei propri investimenti esteri.
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