In un quadro di persistente debolezza economica e politica dell’Italia, i rapporti con la Cina hanno confermato nel 2013 criticità strutturali già da tempo evidenti, pur a fronte di una dialettica che rimane costruttiva e aperta a nuovi sviluppi.
La dimensione economica è l’aspetto trainante nei rapporti bilaterali. La scelta dell’Italia di caratterizzare apertamente l’andamento dei flussi commerciali come “asimmetrico” è apparsa inevitabile alla luce del passivo di 16 miliardi di euro nella bilancia commerciale italiana nel 2012, su un interscambio totale pari a 34 miliardi (nel periodo gennaio-ottobre 2013 il dato resta negativo, con un passivo di oltre 11 miliardi, secondo gli ultimi dati disponibili). Si tratta di una condizione di squilibrio ormai cronica, su cui il “Piano d’azione triennale 2010-2013 sul rafforzamento della cooperazione economica tra l’Italia e la Cina” non ha inciso in modo sensibile. Né mitiga la situazione l’andamento degli investimenti diretti, in netto calo nel 2012 in entrambe le direzioni, con uno stock di investimenti cinesi in Italia tuttora esiguo (meno di 400 milioni di euro secondo le statistiche ufficiali; circa un miliardo secondo stime più realistiche, che includono però una presenza rilevante nell’economia sommersa).
Nel contenzioso Ue-Cina sul dumping cinese nella produzione dei pannelli solari – alle misure difensive europee Pechino ha reagito con l’apertura di una simmetrica procedura sulla produzione vinicola europea – l’Italia ha tenuto una posizione di sostegno alla Commissione più spiccata rispetto ad altri Stati membri, che ha irritato la controparte cinese. Gli effetti politici di questo contrasto sono potenzialmente più significativi del modesto impatto di eventuali misure restrittive sull’export del vino italiano nella Repubblica Popolare.
In questo quadro è essenziale non soltanto che il nuovo “Piano d’Azione sul rafforzamento della cooperazione economica, commerciale e finanziaria per il triennio 2014-16” sia portato rapidamente alla firma dei due capi di governo, come auspicato nel 5° Comitato governativo Italia-Cina (ottobre 2013), ma che vi facciano seguito azioni concrete e un monitoraggio più attento dei risultati conseguiti. In gioco ci sono i tradizionali dossier commerciali di importanza strategica per l’Italia – protezione della proprietà intellettuale, diffusione e tutela dell’indicazione di provenienza geografica, accesso al sistema di appalti pubblici in Cina –, ma servono anche interventi che sollecitino e preparino il tessuto produttivo italiano a cogliere le opportunità offerte dalle decisione di politica economica assunte nella 3a Sessione plenaria del Partito comunista cinese nel novembre 2013. Gli operatori italiani potrebbero avvantaggiarsi di una serie di sviluppi, fra cui il maggior ruolo che si prospetta per il mercato nella determinazione dei prezzi, i nuovi spazi per l’iniziativa privata specialmente nel terziario, e l’approfondimento delle politiche varate con il XII Programma quinquennale (2011-2015) in vista di un miglioramento qualitativo del sistema produttivo cinese e di un riequilibrio verso i consumi interni.
A questo fine, il rilancio del Comitato governativo quale cabina di regia delle relazioni bilaterali è un fatto positivo non scontato, cui si associa il crescente dinamismo della rete diplomatica italiana in territorio cinese (a partire dalla gestione dei visti) e – significativamente – il suo ampliamento attraverso l’apertura di un nuovo Consolato generale nella Municipalità autonoma di Chongqing nel gennaio 2014. Gli ostacoli a un’interazione più efficace non dipendono pertanto dalle (pur sempre ridotte) capacità degli strumenti istituzionali di proiezione verso la Cina, bensì da una carenza di strategia. Come rilevato da tutti i principali centri di analisi strategica del Partito-Stato cinese – avvezzi a proporre politiche fondate su prospettive di lungo termine – mancano da parte italiana tanto un contributo all’elaborazione di una visione del ruolo globale dell’Europa, quanto la capacità di ridefinire il ruolo e l’azione dell’Italia nelle aree di suo tradizionale interesse alla luce delle mutate dinamiche geo-politiche ed economiche globali.
Nel 2013 il governo cinese ha intensificato le relazioni con l’Europa centro-orientale, nuova tappa di una logica di segmentazione dello spazio europeo che risponde tanto alle esigenze della “Go global policy” cui sono chiamate le imprese cinesi, quanto alla domanda di investimenti che proviene da un’area estesa che va dai Balcani al Baltico. È opportuno che l’Italia segua attentamente questa dinamica, che in Cina si accompagna al proliferare di progetti e centri di studio dedicati a questo nuovo orizzonte subregionale della proiezione cinese verso l’Europa. A lungo termine non è inverosimile una configurazione in chiave sub-regionale anche della politica cinese nei confronti dell’Europa mediterranea, dove Pechino ha interlocutori particolarmente reattivi in Grecia, Malta e Cipro. Sia che l’Italia scelga di assecondare questa possibilità, sia che la osteggi come lasciato intendere sin qui, è importante che il suo orientamento sia precisato in modo più chiaro e coerente tenendo conto dell’emergente disegno strategico cinese. Anche nella regione che il Ministero degli esteri cinese inquadra complessivamente come Asia occidentale e Africa settentrionale (西亚北非, xiya beifei) può svilupparsi una proficua interlocuzione con la Cina, non da ultimo attraverso il rilancio del partenariato tra province cinesi e regioni italiane intorno a contenuti politici ed economici di comune interesse, tenendo conto che eventuali asimmetrie in fatto di esperienza e strumenti in questa complessa regione sarebbero, almeno nel prossimo futuro, ancora a vantaggio dell’Italia.
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