Traduzione dall’inglese di Simone Dossi
Al potere da soli due anni, Xi Jinping è già riuscito a costruirsi un’immagine di leader di peso: capace di impersonare al meglio una grande nazione di cui i cinesi possano essere orgogliosi e allo stesso tempo abile nel presentarsi dinanzi ai leader stranieri come figura carismatica. A differenza di Hu Jintao, suo predecessore cauto e ingessato, Xi si caratterizza come leader energico e in sintonia con la gente. La nazione lo ha seguito estasiata mentre decorava il suo ufficio con fotografie della sua famiglia, o mentre assaggiava le patate offerte da un umile contadino, viaggiava in minivan anziché sulla limousine presidenziale, e reggeva la borsetta alla moglie Peng Liyuan, già celebre cantante che – con la sua classe e il suo stile alla moda – ha contribuito non poco alla popolarità del marito.
Ma il successo di Xi va ben al di là delle pubbliche relazioni. Dopo aver ereditato un partito dilaniato dalle lotte interne e un paese in impellente necessità di riforme economiche e politiche, Xi si è dedicato anzitutto a consolidare il suo potere su tutti i fronti. Oltre a far piazza pulita dei rivali interni, a ricostruire la legittimità del Partito reprimendo la corruzione e facendo leva su riforme economiche e nazionalismo, la sua ricetta per un “autoritarismo resiliente” include la censura di internet e dei social media. A quanto pare, l’uomo sa quel che sta facendo ed è dotato della determinazione e della capacità necessarie a procedere su questa strada: la Cina di Xi diventerà sempre più ricca e potente, ma anche meno pluralistica, rimanendo saldamente autoritaria.
Le politiche attuate da Xi sin dal 2012 hanno dato luogo a speculazioni circa lo stile di leadership che egli ha inteso adottare. Alcuni sostengono che aspiri a diventare il nuovo Mao: avrebbe infatti accentrato il potere nelle sue mani, anziché attenersi alla formula della “leadership collettiva” secondo cui il capo di Stato altro non sarebbe che un “primus inter pares”. Ha assunto la presidenza delle due Commissioni militari centrali – di Partito e di Stato – subito dopo essere diventato rispettivamente Segretario generale del Partito e Presidente della Repubblica Popolare, in contrasto con la prassi seguita da Hu Jintao, che aveva impiegato tre lunghi anni per ascendere ai vertici militari del paese. Xi presiede inoltre personalmente i gruppi direttivi ristretti incaricati di gestire la politica economica, la riforma dello strumento militare, la cybersecurity, la questione di Taiwan e gli affari esteri. A differenza dei suoi predecessori, che lasciavano ai propri Premier la gestione dell’economia, Xi supervisiona direttamente anche le riforme economiche.
Xi presiede la Commissione per la sicurezza di Stato creata nel 2013 al fine di consolidare il controllo politico sull’intero apparato di sicurezza, inclusi gli organi un tempo diretti da Zhou Yongkang, già membro del Comitato Permanente dell’Ufficio politico del Partito e poi caduto in disgrazia per aver sostenuto Bo Xilai nelle manovre di potere che precedettero il XVIII Congresso nel 2012. A testimonianza di quanto in avanti Xi sia disposto a spingersi nell’eliminazione dei suoi nemici politici, Zhou è il primo membro del Comitato Permanente a essere indagato per corruzione ed espulso dal Partito dalla fondazione della Repubblica Popolare ai giorni nostri. I protetti di Zhou in posizioni altolocate sono stati rimossi uno dopo l’altro in seguito all’apertura delle indagini a carico di Zhou nell’agosto del 2013, a garanzia dello sradicamento della sua vasta rete di influenza. Pochi mesi dopo, l’arresto di svariati alti ufficiali e in particolare di Xu Caihou, già Vicepresidente della Commissione militare centrale, convinceva 53 altri ufficiali a dichiarare pubblicamente la propria fedeltà a Xi, un atto raro nella storia della Rpc.
Accanto al contrasto della corruzione, nell’aprile del 2013 Xi ha lanciato una “campagna per la linea di massa”: ai quadri del Partito è stato chiesto di studiare e attuare il principio maoista di “tenere uno stretto legame con le masse e mobilitare appieno l’entusiasmo, l’iniziativa e la creatività del popolo”. La campagna di austerità, durata 15 mesi, ha preso di mira “stili di lavoro inappropriati quali il formalismo, il burocratismo, l’edonismo e la stravaganza”, esaltando i legami con il popolo, le attività di critica e autocritica e altri elementi di chiara derivazione maoista. Al pari di Mao, Xi ha instancabilmente represso il dissenso politico, come dimostrato dall’arresto e dalla pubblica umiliazione di attivisti politici e celebri blogger come Xu Zhiyong, Charles Xue e Pan Shiyi, oltre al rafforzamento della sorveglianza su internet e social media.
Dall’altro lato, però, la determinazione nel perseguimento delle riforme economiche fa di Xi un pragmatico e un modernizzatore, esattamente come Deng Xiaoping. Xi è consapevole dell’urgenza di un cambiamento nel modello di crescita, con il passaggio dall’enfasi su investimenti ed esportazioni a una maggiore attenzione per il consumo e l’innovazione. Auspica un ruolo più significativo per il mercato e una riduzione dell’intervento del governo in economia, come affermato nella Risoluzione approvata nel novembre 2013 dalla 3a Sessione Plenaria del XVIII Comitato Centrale: “la riforma del sistema economico è lo snodo cruciale del complessivo approfondimento della riforma e la questione fondamentare è l’equilibrio da raggiungere tra governo e mercato, per consentire al mercato di giocare il ruolo decisivo nell’allocazione delle risorse e per consentire al governo di svolgere al meglio le proprie funzioni”. La Risoluzione delineava poi circa 300 interventi di riforma, in quello che appare come il piano di riforma più significativo dalla 3a Sessione Plenaria dell’XI Comitato Centrale nel 1978, ai tempi di Deng. Veniva inoltre istituito il Gruppo direttivo ristretto per l’approfondimento complessivo della riforma, sotto la guida di Xi stesso, per coordinare l’apparato di gruppi ristretti sulla riforma creati nei ministeri e nelle province. Come passo verso la riduzione dell’intervento governativo, venivano semplificate le procedure amministrative, con l’eliminazione di svariate autorizzazioni preventive. È stato imposto alle imprese di Stato di completare la conversione a “imprese moderne”, introducendo sistemi di governance al passo con i tempi e incoraggiando la partecipazione dei privati ai progetti d’investimento nel settore statale. Ai governi locali è stato consentito di introdurre tasse sulla proprietà immobiliare e sulle vendite come fonte indipendente di entrate, mentre sono stati loro ridotti gli oneri, con l’impegno del governo centrale (che tradizionalmente riceve metà delle entrate fiscali ma finanzia le spese sociali soltanto per un terzo) a garantire maggiori finanziamenti per i servizi sociali.
Alcuni ritengono che le tendenze “maoiste” di Xi siano soltanto un modo per accentrare il potere nelle proprie mani e per mettersi al riparo dagli attacchi che i conservatori all’interno del Partito potrebbero sferrare contro il suo ambizioso piano di riforme economiche. In parte questo è vero, ma ciò non toglie che Xi possa essere meglio descritto come un realista, che è ben consapevole dell’impellente necessità di consolidare il proprio potere all’inizio del mandato in modo da poter poi affrontare altri pressanti problemi, inclusa la corruzione rampante, la scarsa credibilità del Partito agli occhi dell’opinione pubblica, i disordini sociali e un’economia in rallentamento. Da qui l’opportunità di prestare omaggio ai padri del Partito (a cominciare da Mao) e di ostentare un senso di continuità – anziché di rottura – con la sua tradizione.
È ormai convinzione comune che, mentre i regimi democratici occidentali sono fondati sulla legittimità legale-elettorale, il regime cinese abbia visto le basi della propria legittimità spostarsi dall’ideologia comunista dei tempi di Mao alle performance economiche divenute cruciali negli anni Ottanta, e che il governo cinese abbia intenzionalmente alimentato il nazionalismo per riempire il vuoto ideologico lasciato dal Marxismo-Leninismo. Sin dall’inizio del suo mandato, Xi ha cercato di ricostruire la legittimità politica del Partito ripristinandone l’autorevolezza morale, approfondendo le riforme economiche come detto, e rafforzandone le credenziali quale interprete della grandezza nazionale.
La campagna contro la corruzione, che senza dubbio ha aiutato Xi a sbarazzarsi dei nemici politici, non si è fermata a questo. Nuovi casi di corruzione sono stati resi pubblici, nel governo, nelle forze armate e nel settore privato, a sostegno della tesi secondo cui la campagna sarebbe finalizzata a una vera e propria ristrutturazione della governance del paese. Nel 2013 il Partito ha sanzionato per corruzione oltre 182.000 funzionari e la campagna è stata ancora più intensa nel 2014: alla data del 23 dicembre, ben 41 funzionari di livello provinciale e ministeriale erano stati perseguiti, a confronto dei 17 perseguiti nel 2013 e dei 6-8 perseguiti in ciascuno degli anni precedenti. Questa vasta e persistente campagna anti-corruzione ha ottenuto il plauso di un’opinione pubblica che si era in precedenza dimostrata scettica verso altre campagne simili.
Ma Xi è anche un nazionalista. Già alla fine del 2012, subito dopo essere diventato Segretario generale del Pcc, Xi ha annunciato la propria visione di un “sogno cinese” e di una “grande rinascita della nazione cinese”. Nei primi due anni del suo mandato, la politica estera della Cina si è fatta più assertiva se non addirittura aggressiva, come dimostrano le posizioni intransigenti sulle controversie marittime nel Mar cinese meridionale e orientale: la vicenda della Zona di identificazione aerea in parziale sovrapposizione a quella giapponese, l’annuncio della costruzione di fari nel Mar cinese meridionale, la piattaforma petrolifera in acque contese con il Vietnam, la costruzione di isole artificiali a dispetto dei tentativi delle Filippine di portare la Rpc dinanzi a un tribunale internazionale e varie altre frizioni di questa natura. Allo stesso tempo, la Cina ha giocato un ruolo di primo piano nella creazione di tre nuove istituzioni finanziarie multilaterali con una capitalizzazione complessiva di 240 miliardi di dollari Usa: la Nuova banca di sviluppo (la banca dei BRICS), il Fondo infrastrutturale della Via della seta e la Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali (Asia Infrastructure Investment Bank, AIIB), che sono per il pubblico cinese un’ulteriore prova di quanto la Cina di Xi sia in grado di intervenire in chiave innovativa rispetto all’ordine economico internazionale a guida occidentale.
Alcuni anni fa Andrew Nathan aveva descritto quella che a suo parere era la via cinese alla “resilienza dell’autoritarismo” (authoritarian resilience): istituzionalizzazione delle procedure di successione, promozioni su base meritocratica, differenziazione burocratica e canali di partecipazione di massa. A ciò Xi ha aggiunto il consolidamento della leadership attraverso un uso pragmatico della linea di Partito, il ripristino dell’autorevolezza morale del Partito, la simbiosi con atteggiamenti di orgoglio patriottico e di nazionalismo, oltre alla decisa repressione di qualsivoglia opposizione politica dentro e fuori dal Partito. Se il destino della Cina nei prossimi otto anni dipende così tanto da un solo uomo al comando, non resta che sperare che questi sappia usare con saggezza il potere di cui dispone.
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