A partire dal 2011, la Repubblica dell’Unione del Myanmar ha affrontato un processo di trasformazione politica, economica, e militare. La prima trasformazione è senza dubbio politica. In seguito all’adozione di una nuova costituzione nel 2008, lo State Peace and Development Council (SPDC), la giunta militare alla guida del Paese, ha dapprima orchestrato una transizione dall’alto verso un governo semi-civile, guidato dal Presidente Thein Sein, e quindi ha preparato il terreno per lo svolgimento delle elezioni democratiche generali del novembre 2015, vinte dalla Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), guidata dalla sua incontestata leader, la vincitrice del Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi (per un approfondimento si veda RISE/1).
La seconda trasformazione riguarda l’economia. Con l’approvazione di alcune misure di liberalizzazione, l’apertura agli investimenti diretti esteri (IDE) e la sospensione o addirittura l’abolizione delle sanzioni internazionali, il Myanmar intende definitivamente abbandonare l’autarchia del passato, una pesante eredità del colpo di stato del generale Ne Win nel 1962. Infine, è in atto una trasformazione da uno stato di belligeranza tra il Tatamdaw (le forze armate) e le organizzazioni armate etniche (EAO) alla sottoscrizione di un cessate-il-fuoco nazionale, che possa condurre finalmente a una “pace eterna”, secondo l’auspicio di Aung San Suu Kyi.
Queste trasformazioni sono tra loro correlate, poiché ciascuna produce effetto sulle altre, rivelando un complesso sentiero di riforme il cui successo non può essere dato per scontato. Di più. In questo processo, il veloce cambiamento convive con alcuni elementi di continuità, creando così sfide multiple per il Paese: la Costituzione garantisce al Tatmadaw un potere di veto, i militari sono ancora pesantemente coinvolti nell’economia, molte minoranze etniche continuano a sentirsi marginalizzate, e lo sfruttamento legale e illegale delle risorse naturali (come il legname, la giada, le pietre preziose) continua senza sosta, perpetuando una dinamica storica di degrado ambientale e di disuguaglianze sociali. Un visitatore fugace che si limitasse al circuito Yangon-Naypyidaw-Mandalay potrebbe essere indotto a credere che la trasformazione sia relativamente morbida, e stia avendo successo. In parte è così, ma se la visita si estende alle borderlands (le aree periferiche del Paese a cui questo numero dedica un’ampia sezione) il quadro è molto più complesso, perché è lì dove le contraddizioni tra il cambiamento e la continuità emergono in tutta la loro evidenza.
Nonostante la costituzione riservi ai militari il 25% dei seggi, il cambiamento più profondo in Myanmar riguarda, senza alcun dubbio, la composizione politica del parlamento e del governo. Con poco meno dell’80% dei voti, alle elezioni del 2015 la NLD vinse 135 dei 168 seggi elettivi nella camera alta (Amyotha Huttlaw) e 255 dei 300 seggi elettivi nella camera bassa (Pyithu Hluttaw). Malgrado il grande sconfitto delle elezioni sia stato l’Union Solidarity and Development Party (UDSP), anche i partiti etnici, estremamente frammentati (più di 90 partiti hanno preso infatti parte alla competizione elettorale), non ottennero buoni risultati: la NLD vinse 496 dei 659 seggi contesi nelle assemblee dei quattordici Stati e regioni del Paese. Nel marzo 2016, con l’elezione alla presidenza di Hytin Kyaw, suo fedele alleato, Aung San Suu Kyi assunse i ruoli di Ministro degli Affari Esteri, ministro dell’ufficio del presidente, e Consigliere di Stato, diventando di fatto la leader incontrastata del Paese. In effetti, alcuni partiti etnici invitarono l’elettorato a votare per la NLD, nella convinzione che soltanto Suu Kyi – figlia dell’eroe dell’indipendenza, il generale Aung San – potesse tenere testa ai militari, ed evitare il ritorno della dittatura. Questi ultimi, infatti, non hanno mai lasciato l’arena politica: il Tatmadaw si ritiene il guardiano dell’ordine, ed è convinto che la NLD debba operare entro i confini dell’architettura costituzionale pensata dai militari nel 2008. Un altro elemento di continuità è rappresentato dalla centralizzazione del potere. Non solo Suu Kyi è fermamente al comando del partito e del governo, con scarsa disponibilità a delegare, ma nella periferia ha installato governi regionali monocolore, senza considerare la sensibilità dei partiti etnici, che non hanno in realtà mai cessato di vedere in lei un’esponente dell’etnia di maggioranza Bamar, storicamente dominante sulle minoranze, anche attraverso l’esercito – sinistramente definito da Suu Kyi “l’esercito di mio padre”. La configurazione futura del sistema politico, quindi, dipenderà dall’evoluzione della relazione tra la NLD e il Tatmadaw e dalla volontà di incorporare membri delle altre etnie nei ranghi più elevati delle forze armate, ma anche dal grado di fiducia e coordinamento tra il governo centrale, i governi locali, e gli stakeholder negli stati e nelle regioni.
Sul fronte economico, con una crescita annuale media superiore all’8% tra il 2013 e il 2016, il Myanmar appartiene ora al gruppo dei Paesi a basso-medio reddito, secondo la definizione della Banca Mondiale, con un PIL nel 2016 di 67,4 miliardi di dollari. Il Paese si è aperto al commercio e agli investimenti: tra il 2011 e il 2014 le esportazioni sono cresciute in media a un tasso dell’11%, concentrate nel settore primario, e nell’anno fiscale 2015/2016 il Myanmar ha ricevuto un ammontare record di IDE pari a 9,4 miliardi di dollari. Tuttavia, il Myanmar condivide con la Cambogia il più basso livello di PIL pro capite tra i paesi ASEAN (1.275 dollari); la povertà è concentrata nelle aree rurali (dove vive il 76% dei poveri) e nelle borderlands; solamente un terzo della popolazione ha accesso alla corrente elettrica; e la maggioranza della forza lavoro resta impiegata nell’economia informale nonostante si sia verificato un calo rispetto al 73% del 2010 (circa il 57% secondo le stime più recenti). e Nella classifica dell’indice di sviluppo umano dello United Nations Development Programme (UNDP), il Myanmar si colloca al 145° posto, tra i Paesi a basso sviluppo umano. Forse il miglior esempio della compresenza di continuità e cambiamento in Myanmar è rappresentato dal ruolo dei militari negli affari economici. Il Tatmadaw controlla ancora due conglomerati, l’Union of Myanmar Economic Holdings Ltd. (UMEHL), e il Myanmar Economic Corporation (MEC), che storicamente hanno rappresentato per le forze armate una fonte di sostentamento al di fuori del bilancio pubblico. Il MEC è attivo principalmente nelle industrie pesanti, come la siderurgia, e nelle risorse primarie quali la gomma e il cemento, e la proprietà è divisa tra il ministero della difesa e il personale militare attivo. Il business dell’UMEHL è concentrato nelle industrie leggere e nei servizi, anche se il conglomerato è coinvolto nella produzione e nel marketing delle gemme, oltre che nell’estrazione della giada. Nel giugno 2016, la Myanmar Investment Commission ha dichiarato che l’UMEHL ha completato tutte le formalità necessarie per iniziare un processo di privatizzazione, da completarsi in alcuni anni. Tuttavia, gli interessi economici dei militari sono talmente pervasivi che anche nel settore privato molte aziende sono controllate e gestite da ex-militari, esponenti delle loro famiglie o cronies in generale.
Infine, per quanto riguarda la trasformazione sul versante della sicurezza interna, la priorità per il governo è la riconciliazione nazionale. Delle diciotto EAO attive nel Paese, solamente otto firmarono il National Ceasefire Agreement (NCA) dell’ottobre 2015, alcune hanno nel tempo firmato un accordo separato a livello di Unione o di Stato, e quattro (incluso il Kachin Independence Army – KIA) sono ancora in guerra. Alla fine di agosto 2016 il governo ha convocato la “Conferenza di Panglong del XXI secolo”, con lo scopo di giungere a una risoluzione di tutti i conflitti interni in corso. Il successo del processo di pace è importante non solamente per il Paese, ma anche per la NLD che, a meno di una nuova configurazione come partito veramente multi-etnico, non può essere certa di mantenere la maggioranza parlamentare in futuro. Qualora infatti i partiti etnici si dovessero raggruppare, le elezioni del 2020 sarebbero molto più competitive. La mancanza di fiducia tra le EAO e il governo centrale ha radici profonde, e ciò diminuisce la possibilità di ottenere risultati tangibili in un futuro ravvicinato. La questione è essenzialmente politica, poiché le EAO combattenti vorrebbero prima iniziare un dialogo politico e quindi sottoscrivere un cessate-il-fuoco, e non viceversa; inoltre sospettano che il Tatmadaw in realtà non voglia ottenere un cessate-il-fuoco davvero inclusivo, poiché tenere vivo un conflitto armato con alcune EAO permette alle forze armate sia di esercitare pressione affinché si siedano al tavolo delle trattative, sia di giustificare il loro ruolo in politica. Infine, vi è anche una dimensione economica del conflitto, legata principalmente allo sfruttamento delle risorse naturali, come avviene in molti Paesi in via di sviluppo. Da un lato, i militari ancora svolgono attività di espropriazione della terra per fini economici, senza alcun rispetto per i diritti d’uso dei contadini, in tal modo esacerbando i conflitti con le popolazioni locali. Dall’altro, i profitti derivanti dall’estrazione delle risorse minerali sono principalmente destinati alle casse dello stato centrale, riducendo così i benefici per i governi locali. In tal senso, un “federalismo genuino” basato sulla condivisione delle risorse e del potere sarebbe appetibile per molte EAO, ma non si registra alcun consenso sul significato reale di questo termine. Tuttavia la nuova sessione (maggio 2017) della Conferenza di Panglong ha registrato un importante progresso su questo fronte, in quanto il governo e le forze armate sembrano pronte a concepire una struttura federale dello Stato a patto che le EAO rinuncino formalmente alla secessione. La presenza come “ospiti” delle sette EAO (compreso il potente esercito unito degli Wa) riunite sotto l’ombrello della Northern Alliance, contrario al NCA, mostra però plasticamente quanto elementi di continuità in Myanmar si oppongano al cambiamento, e quanto la questione dei conflitti interni rimanga centrale per potere definire le trasformazioni in atto davvero compiute.
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