Il 31 ottobre 2020 i cittadini della Costa d’Avorio si sono recati alle urne per la terza volta consecutiva, dopo che la guerra civile scoppiata nel 2002 a causa dell’inasprirsi delle tensioni etniche tra il sud e il nord del paese causò la sospensione del calendario elettorale tra il 2000 e il 2010. Il Presidente in carica Alassane Ouattara è stato confermato con il 94% dei voti e un’affluenza pari al 54%. Una vittoria schiacciante riportata contro tre avversari: Henri Konan Bédié del Partito Democratico della Costa d’Avorio (PDCI) – già Presidente dal 1993 al 1999, quando fu deposto da un colpo di stato militare – Pascal Affi N’Guessan del Fronte Popolare Ivoriano (FPI) fondato da Laurent Gbagbo – anche quest’ultimo Presidente dal 2000 al 2010 e oggi ancora in stato di semi-libertà a Bruxelles dopo essere stato processato e assolto dalla Corte Penale Internazionale per i crimini commessi durante la guerra civile – e Kouadio Konan Bertin, candidato indipendente e “dissidente” del PDCI di Bédié.
Il consolidarsi della pratica elettorale in un paese che ha affrontato una guerra civile è senz’altro una buona notizia. Non si può tuttavia ignorare che tale vittoria sia figlia non solo dei meriti di Ouattara, a cui va comunque accreditata la ripartenza dell’economia ivoriana, ma anche dell’incapacità dell’opposizione di coalizzarsi intorno a un unico candidato, e dell’invito da parte dei suoi leader a boicottare le urne.
Il tentativo dell’opposizione di delegittimare il voto è principalmente dovuto al fatto che Ouattara, già vincitore nelle elezioni del 2015 e del 2010, non avrebbe potuto candidarsi una terza volta, stando al limite di due mandati presidenziali previsto dalla costituzione del suo paese. La possibilità di una sua candidatura a un terzo mandato aleggiava almeno dal 2016, quando un referendum popolare approvò una nuova costituzione che, tra le varie riforme, rimosse la clausola che escludeva dalle elezioni presidenziali i candidati di età superiore a 75 anni. Pur rimanendo i limiti di mandato intatti, l’entrata in vigore di una nuova costituzione aprì la possibilità per l’ormai settantottenne Ouattara di ricandidarsi appellandosi alla non-retroattività della nuova carta costituzionale. Negli anni scorsi, il Presidente si è sempre dimostrato ambiguo rispetto alla possibilità di concorrere nuovamente per la presidenza. Da un lato, dichiarava apertamente la sua volontà di ritirarsi a vita privata, arrivando persino a investire il Primo Ministro Amadou Gon Coulibaly come suo candidato successore. Dall’altro, mostrava preoccupazione per il futuro del paese in caso di ricomparsa nell’arena politica di vecchi avversari politici – su tutti, Bédié e Gbagbo, che nel 2018 fu nominato leader del FPI, nonostante la sua assenza forzata dal paese.
I dubbi sono stati sciolti nel corso dell’estate, con due eventi che hanno agito da catalizzatore. Il primo di questi eventi fu la morte improvvisa di Coulibaly a inizio luglio in seguito a un malore, alcune settimane dopo un intervento chirurgico. Nell’arco di pochi giorni, alla scomparsa di colui che avrebbe dovuto proseguire il lavoro del Presidente uscente si aggiunse l’annuncio da parte di Bédié della sua intenzione di correre alle presidenziali. Il 6 agosto, Ouattara sciolse dunque le riserve e avanzò la sua ricandidatura – un “sacrificio” per il bene dei suoi concittadini, come lui stesso dichiarò.
Purtroppo, la decisione del Presidente ivoriano di ricandidarsi nonostante i limiti di mandato è solo l’ultimo esempio di una pratica che si è andata diffondendo nel continente sub-sahariano. Queste norme costituzionali si erano diffuse nella regione durante gli anni Novanta, in concomitanza con la cosiddetta “ondata” di riforme democratiche che aveva portato all’introduzione di elezioni e multipartitismo nella maggior parte dei regimi africani. La loro adozione fu accolta come uno strumento essenziale per il consolidamento delle nuove istituzioni democratiche. Stabilire che un presidente possa servire un numero massimo di mandati (solitamente fissato a due, sul modello degli Stati Uniti d’America) avrebbe infatti dovuto rappresentare un efficace deterrente contro la personalizzazione del potere e la permanenza prolungata di uno stesso individuo all’apice del potere esecutivo di un paese, uno dei “mali” storici dell’Africa sub-sahariana post-coloniale.
Uno sguardo agli ultimi tre decenni, tuttavia, dimostra quanto fragili tali norme si siano finora rivelate, quando messe alla prova. Tra il 1991 e il 2020, possiamo contare 49 occasioni in cui un presidente africano ha raggiunto i limiti di mandato prescritti dalla costituzione in vigore nel suo paese, e si è quindi trovato di fronte a un importante dilemma per il futuro suo e del suo paese: stare alle regole del gioco (legittimandole e rafforzandole, implicitamente) e cedere il potere, o provare a manipolarle a proprio favore? La Figura 1 evidenzia che la risposta a tale quesito non è scontata. In 26 casi, i limiti di mandato presidenziali sono stati rispettati. Nei restanti 23 casi – poco meno della metà, quindi – si è invece cercato di violarli.
Possiamo distinguere tre principali forme di manipolazione dei limiti di mandato presidenziali. La più diffusa è anche la più radicale, e implica la rimozione di tali prescrizioni dalla costituzione. Non sorprende che la rimozione dei limiti di mandato sia la scelta preferita di quei presidenti africani che intendono prolungare la loro permanenza al potere. Essa infatti spiana la strada a una possibile presidenza “a vita”. Negli anni scorsi, hanno rimosso i limiti di mandato i presidenti di Chad, Djibouti, Gabon, Togo e Uganda, tra gli altri.
Altre due forme di manipolazione, con effetti almeno formalmente meno dirompenti sull’ordine costituito, consistono rispettivamente nell’estensione e nell’elusione dei limiti di mandato. L’estensione dei limiti di mandato comporta una modifica costituzionale. Per esempio, nel 2015 Denis Sassou Nguesso della Repubblica del Congo ha fatto approvare tramite referendum una riforma che spostava da due a tre il limite di mandati che un presidente può servire consecutivamente, mentre nel 1999 in Namibia la costituzione fu modificata “ad hoc”, per specificare che il primo Presidente della nazione Sam Nujoma avrebbe potuto servire tre mandati e non due.
In alternativa, un presidente può ricorrere a uno stratagemma per eludere l’applicazione dei limiti di mandato. Il caso della Costa d’Avorio rientra proprio in questa categoria e ne descrive bene la modalità operativa tipica: si promuove una qualche riforma costituzionale, in virtù della quale si invoca poi l’azzeramento del conteggio dei mandati presidenziali serviti dal presidente in carica, pur non essendo la clausola costituzionale relativa ai limiti di mandato intaccata direttamente dalla riforma. Oltre a Ouattara, altri recenti casi di elusione dei limiti di mandato riguardano Paul Kagame in Ruanda (rieletto per la terza volta consecutiva nel 2017) e, proprio quest’anno, Alpha Condé in Guinea, anch’egli confermato al potere nel mese di ottobre.
Fortunatamente, la semplice volontà di un leader di manipolare i limiti di mandato non garantisce il successo di tale impresa. Se da un lato la Figura 2 mostra come una larga maggioranza dei tentativi di manipolazione si sono conclusi positivamente, dall’altro lato si evidenziano tre possibili esiti fallimentari. In alcuni casi, i presidenti manipolatori hanno ricevuto un rifiuto. Tra il 2001 e il 2006, per esempio, Frederick Chiluba in Zambia, Bakili Muluzi in Malawi e Olusegun Obasanjo in Nigeria dovettero accettare di farsi da parte, in seguito a un voto sfavorevole del parlamento su una modifica dei limiti di mandato. In altri casi, fu l’esercito a intervenire in difesa della costituzione, rovesciando il presidente in carica. È quanto avvenne in Niger nel 2009 e in Burkina Faso nel 2014. Infine, in Senegal, per ben due volte i cittadini hanno punito i tentativi di manipolazione dei limiti di mandato dei loro presidenti (rispettivamente, Abdou Diouf nel 2000 e Abdoulaye Wade nel 2012) votando per l’opposizione.
Nel complesso, il caso del Senegal rappresenta purtroppo un’eccezione. È raro che un leader riesca a manipolare i limiti di mandato ma non sia poi in grado di ottenere, più o meno lecitamente, una riconferma alle urne. La rielezione di Ouattara in Costa d’Avorio e il margine di vantaggio ottenuto lo dimostrano vividamente. L’eccezione del Senegal, tuttavia, ci ricorda che l’ultima parola nei tentativi dei presidenti africani di restare al potere oltre i limiti di mandato spetta agli elettori, e che il futuro e il progresso della democrazia nel continente africano passano in gran parte proprio dalla difesa della libertà di espressione e dal rafforzamento della società civile.
Per saperne di più
Piccolino, G. (2018) “Peacebuilding and statebuilding in post-2011 Côte d’Ivoire: A victor’s peace?” African Affairs, Volume 117, Issue 468, pp. 485–508. Disponibile su: https://academic.oup.com/afraf/article/117/468/485/5040444.
Cassani, A. (2020) “Law-abiders, lame ducks, and over-stayers: the Africa Executive Term Limits (AETL) dataset.” European Political Science, pp. 1–13. Disponibile su: https://link.springer.com/article/10.1057/s41304-020-00291-w.
Carbone, G. e Pellegata, A. (2020) Political Leadership in Africa: Leaders and Development South of the Sahara. Cambridge University Press.
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