A marzo, mentre il virus COVID-19 si diffondeva rapidamente in tutto il mondo, il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha lanciato un forte appello per la pace: “Chiedo un immediato cessate il fuoco globale in tutti gli angoli del mondo. È tempo di mettere i conflitti armati in lockdown e concentrarsi insieme sulla vera lotta della nostra vita… rinunciamo alle ostilità. Mettiamo da parte la diffidenza e l’animosità. Facciamo tacere le armi, fermiamo l’artiglieria e mettiamo fine agli attacchi aerei”.
L’urgenza di questo appello si fonda sull’eccezionalità della sfida posta a livello mondiale da una pandemia senza precedenti che ha il potenziale di peggiorare le crisi umanitarie, aggravando le molteplici forme di insicurezza che già si intersecano nelle zone di conflitto. Il virus non fa distinzioni tra le parti in guerra, né rispetta i confini territoriali e le linee di battaglia. I civili, che già patiscono enormemente l’impatto della guerra e della violenza, dovrebbero fronteggiare questa nuova minaccia con poca o nessuna protezione, senza un adeguato accesso all’assistenza sanitaria o all’informazione. COVID-19 può diffondersi rapidamente tra le popolazioni già devastate dalla guerra per poi attraversare le frontiere insieme al flusso dei rifugiati. La speranza era che un cessate il fuoco globale potesse fornire lo spazio per l’apertura di quei corridoi umanitari e quel coordinamento degli interventi sanitari di cui il mondo ha disperato bisogno. Ancora di più, il Segretario Generale auspicava che esso fornisse opportunità preziose per la diplomazia, consentendo di avviare o rinvigorire processi di pace che potessero ridurre la violenza e l’insicurezza ben oltre la fine della pandemia.
L’appello del Segretario Generale è stato accolto con positività in tutto il mondo. In pochi giorni, le parti in conflitto in Camerun, Colombia, Filippine, Libia, Myanmar, Repubblica Centrafricana, Siria, Sudan, Sud Sudan, Ucraina e Yemen, si sono impegnate pubblicamente a rispettare il cessate il fuoco. Tuttavia, come lo stesso Guterres aveva avvertito, c’è un’enorme distanza tra le parole e i fatti. Nella pratica, questa distanza si è fatta sentire con forza.
La maggior parte dei cessate il fuoco sono stati, nella migliore delle ipotesi, temporanei e si è prontamente tornati allo status quo una volta diventato chiaro che le dichiarazioni pubbliche di impegno per la pace hanno avuto scarso effetto sul comportamento degli stati e dei gruppi armati. In Colombia, ad esempio, l’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale di un mese a partire dal 1° aprile, ma verso la fine del mese il gruppo ribelle ha annunciato la ripresa delle operazioni militari, accusando il Governo colombiano di non essere riuscito a fare ripartire i negoziati di pace. In altri contesti la violenza armata è addirittura aumentata. In Libia gli scontri si sono intensificati e hanno portato all’interruzione dei servizi idrici ed elettrici e al danneggiamento di importanti infrastrutture sanitarie come l’ospedale Al-Khadra General Hospital di Tripoli. In Yemen, paese afflitto secondo le Nazioni Unite dalla peggiore crisi umanitaria al mondo già prima della pandemia, sono proseguiti gli scontri tra le forze del Governo di Accordo Nazionale e l’Esercito Nazionale Libico del Generale Khalifa Haftar, con il sistema sanitario che lotta per far fronte al COVID-19. Un recente studio accademico ha osservato che sebbene COVID-19 non stia causando direttamente la violenza, esso sta “giocando sulle linee di faglia dei conflitti in corso e sulle minacce già esistenti ai processi di pace”.
La natura temporanea dei cessate il fuoco “da COVID-19” e le difficoltà riscontrate nel dominare la violenza nel mondo, confermano alcuni aspetti chiave emersi in decenni di ricerca sui conflitti armati. In primo luogo, dimostrano che la violenza è sottesa da dinamiche complesse, storicamente e strutturalmente radicate e stratificate; le tregue che non forniscono piattaforme per affrontare queste profonde “linee di faglia del conflitto” possono solo – e sempre nella migliore delle ipotesi – interrompere momentaneamente la violenza. Le emergenze sanitarie possono fornire un’opportunità per fermare le ostilità e avviare i negoziati, ma per essere sostenuti, questi sforzi devono essere parte di una strategia a lungo termine che affronti le cause del conflitto.
In seconda battuta, un cessate il fuoco può portare a una qualche forma di pace solo se c’è la volontà politica e un livello di fiducia reciproca tale per farlo. Gli studi sul conflitto hanno già da tempo dimostrato che i processi di pace hanno scarse possibilità di successo senza questi elementi e che, in molti casi, il ruolo di attori terzi può essere cruciale. Laddove i gruppi credono di poter (o di dover) vincere la guerra, o percepiscono che continuare con l’azione armata è più vantaggioso di sedersi al tavolo negoziale, i cessate il fuoco possono essere addirittura visti come una minaccia. Un cessate il fuoco può infatti permettere ai nemici di riorganizzarsi e riarmarsi oppure offrire loro un grado di legittimità internazionale che renderebbe politicamente più costoso continuare le azioni contro di essi. Questa criticità è ben documentata in numerosi studi sui processi di pace che sono stati sistematicamente bloccati o rapidamente compromessi dai conflitti in corso.
In base a quanto appena affermato, è da notare che il rispetto di un cessate il fuoco non indica di per sé intenti pacifici da parte degli attori armati. Di fatto, i cessate il fuoco possono talvolta essere direttamente collegati al raggiungimento di obiettivi di guerra e possono rappresentare una strategia utile tanto per le forze statali che per i gruppi non-statali. I cessate il fuoco possono far guadagnare tempo, dando la possibilità per riorganizzarsi e riarmarsi, o possono avere un valore propagandistico, promuovendo un’immagine pubblica “pro-pace”, senza che vi sia l’intenzione o l’aspettativa di far seguire i fatti alle parole. Questa è stata un’accusa spesso rivolta contro più parti nella guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), quando gli iniziali sforzi di pace sono stati ostacolati dai continui combattimenti, dal reclutamento e dal riarmo delle milizie.
In modo simile, nei contesti in cui i gruppi non-statali hanno fornito assistenza sanitaria o altri servizi durante la pandemia, le loro azioni potrebbero de facto non rappresentare un segno di pace, ma avere un notevole ritorno in termini propagandistici a livello locale e internazionale. Le misure anti-COVID-19 messe in atto dai gruppi armati non-statali sono state ampiamente documentate in tutto il mondo, spesso in contrapposizione con i fallimenti – reali o percepiti – delle autorità statali. In Afghanistan i Talebani hanno portato avanti un proprio programma di sanità pubblica per sensibilizzare la popolazione e controllare la temperatura corporea, condividendo i video delle loro iniziative attraverso i social media. Molti gruppi criminali ne hanno seguito l’esempio. Nelle favelas di Rio de Janeiro, gruppi di trafficanti e milizie hanno iniziato a far rispettare il coprifuoco e le pratiche di igiene come il lavaggio delle mani nelle aree sotto il loro controllo, mentre il Governo brasiliano è stato criticato per la sua inerzia. In Messico, i cartelli hanno dato copertura fotografica alle loro attività di consegna di aiuti – debitamente “brandizzati” – ai civili. A Città del Capo, gang rivali hanno concordato una e avviato un programma congiunto per consegnare pacchi alimentari nelle loro comunità. Anche in Italia e in Giappone le mafie e il crimine organizzato hanno fornito cibo, prestiti e altri tipi di assistenza sociale a chi ne aveva disperato bisogno. Tutte queste attività, però, sono ben lontane dall’essere gesti puramente altruistici.
Ottenere il supporto della popolazione civile è di vitale importanza per molti gruppi armati: le azioni che vanno in questa direzione possono aiutare a proteggere le operazioni di un gruppo scoraggiando la cooperazione con i nemici, fornendo intelligence civile e, più in generale, rafforzando il sostegno popolare. Diversi studi su quella che è stata definita “rebel governance” hanno dimostrato come la fornitura di beni pubblici e benessere possa portare grandi benefici ai gruppi armati non-statali. Le azioni dei Talebani o di al-Shabaab possono essere interpretate a partire da queste considerazioni, il che suggerirebbe che, lungi dall’essere una mossa verso la pace, le risposte di questi attori alla pandemia sono un modo per rafforzare la loro posizione poiché essi operano strategicamente con una prospettiva post-pandemia di lungo termine. La ricerca ci ha inoltre mostrato che anche i gruppi criminali si impegnano in forme di governance alternative, cercando di fare leva sulla fornitura di servizi e sul controllo della violenza per ottenere il sostegno della popolazione civile, o quantomeno l’obbedienza. Per i cartelli in Messico, i gruppi di trafficanti in Brasile e le gang nelle strade del Sudafrica, mantenere i civili “dalla parte giusta” è strategicamente vantaggioso. In questo senso, la pandemia offre a questi gruppi un’opportunità unica per rafforzare i rapporti con le comunità locali.
Per alcuni gruppi la pandemia ha anche rappresentato un’opportunità economica. Mentre alcuni hanno dovuto adattare le loro operazioni al nuovo contesto e potrebbero essere stati ostacolati dalle strette misure di lockdown, altri hanno tratto vantaggio dall’aumento della domanda di prodotti sanitari, cibo e prodotti illegali. A Città del Capo, per esempio, il valore del tabacco e dell’alcol sul mercato nero è aumentato drasticamente dopo che il Governo ne ha vietato la vendita. Le gang hanno approfittato di questo mercato lucrativo e potrebbero uscire dalla pandemia in una posizione molto più forte. Di fatto, non appena le misure del lockdown sono state allentate, le tregue locali a Città del Capo hanno ceduto e sono riprese le sparatorie per strada e le sanguinose faide. In definitiva, sebbene le dispute e la violenza che accompagnano il mercato globale dei narcotici possano essere state temporaneamente fermate dalla pandemia in alcuni luoghi, la logica di base del mercato è rimasta intatta: le droghe sono redditizie e, per molti, vale la pena combattere per ottenerle e venderle.
Man mano che i paesi allenteranno le misure contro la pandemia, l’impatto che questa ha avuto su pace e sicurezza diventerà più chiaro. Si tratta infatti di un impatto che non può essere valutato con precisione dall’effetto a breve termine dei cessate il fuoco né dai programmi di aiuto gestiti dai gruppi non-statali in modo apparentemente altruistico. Come sostiene Lesley-Ann Daniels, la questione principale rimane capire se il virus può cambiare le dinamiche del conflitto e rendere la pace più probabile. Le prime indicazioni non sono molto promettenti, ma si spera che in alcuni casi la pandemia possa aver fornito un punto di partenza per nuovi processi di pace e abbia ridato slancio agli sforzi pre-esistenti. Tuttavia, dato che i cessate il fuoco temporanei non hanno affrontato le cause profonde della violenza né le sue logiche politiche ed economiche, è improbabile che da soli questi possano rappresentare un perno verso la pace nelle zone di conflitto. La costruzione della pace nel mondo post-COVID-19 continuerà a richiedere sforzi a lungo termine, sostenuti a livello locale, nazionale e internazionale. Sforzi che, in alcuni casi, potrebbero essere ulteriormente complicati dal modo in cui i gruppi armati sono riusciti a rafforzare la loro posizione durante la pandemia.
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Per saperne di più
Arjona, A., Kasfir, N. e Mampilly, Z. (ed.) (2015) Rebel Governance in Civil War. Cambridge University Press.
Barnes, N. (2017) Criminal Politics: An integrated approach to the study of organized crime, politics, and violence. Perspectives on Politics, 15(4), pp. 967-987. Disponibile su: https://doi.org/10.1017/S1537592717002110
Bell, C., Epple, T. e Pospisil, J. (2020) The Impact of COVID-19 on Peace and Transition Processes: Tracking the trends (PSRP Research Report: Covid-19 Series). Disponibile su: https://www.politicalsettlements.org/publications-database/the-impact-of-covid-19-on-peace-and-transition-processes-tracking-the-trends/
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