Il Sud-est asiatico non fa eccezione in un quadro globale di crisi democratica: populismo e autoritarismo sono in ascesa anche nella gran parte dei Paesi ASEAN. Negli anni ’90 questa regione era sembrata nettamente indirizzata verso una transizione democratica. Nel 1986 una rivolta popolare pacifica aveva costretto il dittatore filippino Marcos ad abbandonare il Paese. La Thailandia sembrava essersi messa alle spalle i continui colpi di stato che avevano caratterizzato la vita politica nazionale: nel 1996 aveva approvato una nuova costituzione che sembrava consolidare la svolta verso una vera democratizzazione. La crisi regionale del 1997/98 aveva posto fine al governo autoritario di Suharto che aveva controllato l’Indonesia sin dal 1965. La Cambogia aveva avviato un processo democratico che, nonostante forti limiti e contraddizioni, rappresentava comunque un grande passo in avanti dopo decenni di guerra e di violenza politica. Il Vietnam era incamminato su un percorso di riforma economica che, pur non mettendo in discussione il regime politico basato su un partito unico, creava spazi inediti per le libertà individuali. A distanza di due decenni il quadro regionale appare, invece, in evidente involuzione.
Più che altre regioni, il Sud-est asiatico è caratterizzato da una forte disomogeneità fra i diversi Paesi per estensione territoriale, popolazione, composizione etnica e religiosa, PIL pro capite, etc. Questa disomogeneità rende difficile formulare un quadro d’insieme per dar conto di una crisi democratica che ha, però, evidentemente una dimensione regionale all’interno di una tendenza globale. Un primo elemento unificante è proprio il carattere sistemico della crisi democratica. Le tendenze autoritarie all’interno dei singoli stati non trovano più argini nella cosiddetta comunità internazionale né persino in quella che era sembrata emergere come un’opinione pubblica transnazionale in grado di assurgere a coscienza morale planetaria su temi come l’ambiente, i diritti umani e, appunto, la democrazia. L’elezione di Trump rappresenta un passaggio fondamentale perché la prima potenza economica e militare globale non solo rinuncia a legare le proprie relazioni con i Paesi stranieri a qualunque considerazione di tipo etico, ma addirittura si fa parte attiva nel contrastare quegli stessi principi che l’Occidente aveva provato (in modo spesso spregiudicato ed opportunistico) a promuovere come valori universali. La stessa elezione di Trump, d’altronde, rivela che il nuovo presidente americano ha saputo trarre vantaggio da una crisi di legittimità dell’ordine politico ed amplificarla, cavalcando un’onda che aveva già preso consistenza nel periodo immediatamente precedente alle elezioni.
Anche un secondo elemento alla base della crisi democratica a livello globale sembra particolarmente significativo nel comprendere gli sviluppi del Sud-est asiatico. La controrivoluzione neoliberista a partire dagli anni ’80 ha prodotto una crescente polarizzazione di reddito, ridotto la mobilità sociale e reso più vulnerabili i ceti popolari e le classi medie. La crisi economica globale ha fortemente accentuato la condizione di insicurezza – non solo per un possibile peggioramento delle proprie condizioni di vita, ma anche per la crescente precarizzazione delle giovani generazioni i cui salari tendono ad essere molto più bassi in termini reali rispetto a quelli dei propri genitori. In questo quadro il populismo diventa un utile strumento per alcuni settori delle élite economiche, consentendo di indirizzare il senso di frustrazione contro capri espiatori (gli immigrati) o contro “i politici”, e di fatto contrastando progetti politici mirati ad un reale cambiamento.
Nel contesto del Sud-est asiatico, la crisi della democrazia si esprime nei diversi casi nazionali in una varietà di forme in cui si combinano in diversa misura populismo e autoritarismo: dal populismo vagamente progressista dell’Indonesia di Jokowi e della Thailandia ai tempi dei governi di Thakisn e poi Yingluck Shinawatra al populismo fortemente autoritario nelle Filippine di Duterte, dalla dittatura militare in Thailandia all’instaurazione di un regime senza possibile opposizione nella Cambogia di Hun Sen; dal permanere di regimi a partito unico in Vietnam e Laos, e a partito unico di fatto a Singapore, alla monarchia assoluta del Sultanato del Brunei; fino alla crisi della transizione democratica in Myanmar. In questo quadro emerge come un’eccezione il caso della Malaysia dove nel 2018 l’opposizione guidata dall’ex premier novantenne Mahathir è riuscita a sconfiggere il governo in carica.
Se populismo e autoritarismo possono essere letti come conseguenze del relativo impoverimento e della crescente condizione di incertezza vissuta dai ceti popolari e dalle classi medie, ci si potrebbe chiedere perché tali tendenze abbiano preso piede anche nel Sud-est asiatico. Dopotutto questa è una regione che negli ultimi quarant’anni ha conosciuto tassi di crescita molto superiori alla media globale e che è riuscita a sottrarre alla povertà assoluta la grande maggioranza della sua popolazione. Una possibile risposta a questa domanda sta nella qualità della crescita in diversi Paesi della regione. Alcuni, come Thailandia, Indonesia e Malaysia, negli anni ’90 erano stati sedotti dall’idea di essere parte di un “miracolo economico”, usando l’espressione di un famoso rapporto della Banca Mondiale del 1993 che enfatizzava il successo proprio di queste tre nazioni e lasciava intravedere una loro rapida convergenza con i livelli di reddito del Nord industrializzato o delle “tigri asiatiche”. Il miraggio del “miracolo” si era tradotto nella speranza di una parte consistente dei ceti bassi e medi di poter raggiungere stili di vita e livelli di consumo tipici delle società affluenti. In altra forma un simile miraggio era stato proposto alle Filippine, specialmente dopo la rivoluzione democratica del 1986. Questo miraggio si è, però, infranto inesorabilmente con la crisi economica del 1997/98. Dopo quella crisi le economie sono tornate a crescere in modo relativamente veloce, ma non tanto da consentire di chiudere il forte gap con i Paesi più ricchi. La polarizzazione di reddito anche qui si è accentuata, frustrando le aspirazioni di settori della popolazione che avevano sperato in un futuro migliore, se non per sé almeno per i propri figli.
Nella retorica della Banca Mondiale molti dei Paesi della regione stanno ora fronteggiando la cosiddetta “trappola del medio reddito”: da un lato subendo la pressione competitiva di stati con costi della manodopera più bassi, dall’altro essendosi rivelati incapaci di progredire verso lavorazioni a più alto contenuto di tecnologia e a più alto valore aggiunto. Per quanto questa interpretazione sia stata (giustamente) contestata perché basata su argomentazioni scientifiche lacunose, essa ha messo in risalto lo stato di impasse di gran parte della regione. Nel contempo, altri Paesi stanno emergendo come attori importanti nella divisione regionale del lavoro – il Vietnam nell’elettronica, la Cambogia nell’abbigliamento –, ma anche qui è possibile cogliere i segni premonitori di un modello di sviluppo incapace di rompere i vincoli di una forte dipendenza dal capitale internazionale attratto da bassissimi costi di manodopera. Non solo: la dipendenza dagli investimenti esteri espone a una grande vulnerabilità e a shock potenzialmente drammatici. Una crisi della Samsung avrebbe contraccolpi devastanti sull’economia del Vietnam, così come una crisi della Toyota avrebbe un impatto durissimo sull’economia della Thailandia.
L’impasse economica del Sud-est asiatico ha aperto la strada a svolte autoritarie mirate a reprimere l’opposizione popolare e a derive populiste-autoritarie che costruiscono il consenso mobilitando i settori più poveri della popolazione con speranze aleatorie. Particolarmente gravi appaiono i casi di Filippine e Thailandia. In entrambi Paesi la democratizzazione si era basata su strutture fragili, ma aveva trovato linfa in una società civile articolata e fortemente radicata nel sociale. Nelle Filippine la presidenza di Duterte assume ogni giorno di più caratteri autoritari, trovando consenso proprio per quelle azioni – come le esecuzioni extra-giudiziali di spacciatori di droga – che minano lo stato di diritto. La forte popolarità di questo presidente e una recente modifica costituzionale potrebbero garantire a Duterte di rimanere a lungo al potere, riportando il Paese indietro di trenta anni. La crisi thailandese non appare del resto meno grave. Il colpo di stato militare del 2014 non è servito a ricomporre le spaccature che dal 2001 dividono il Paese fra sostenitori e detrattori di Thaksin Shinawatra. La costituzione proclamata nel 2017 ha imbrigliato il Regno in un quadro giuridico autoritario che lascia all’esercito e alla monarchia il potere di controllare governo e parlamento. Non è chiaro, però, quanto tale quadro possa garantire la stabilità dopo le elezioni politiche previste per il 2019. È realistico immaginare che i militari continueranno a esercitare il potere reale facendosi schermo di un governo civile, giustificandosi con la necessità di evitare che il Paese precipiti nel disordine. Se nel passato era parso che il Myanmar si fosse ispirato alla Thailandia nell’avviare una complessa transizione democratica la situazione odierna sembra essersi ribaltata. Da un lato la transizione democratica birmana sembra essere naufragata sulla questione dei Rohingya, con la stessa Aung San Suu Kyi subalterna ai militari nell’appoggiare le gravi violazioni dei diritti umani contro la minoranza musulmana. Dall’altro i militari thailandesi sembrano essersi ispirati al modello birmano per poter garantirsi un controllo duraturo sulla vita politica del loro Paese anche una volta tenutesi libere elezioni.
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