Prima ancora di istituire nuovi ed efficaci meccanismi di governance regionale è necessario trovare una risposta condivisa a una domanda fondamentale: qual è esattamente la regione da governare? Il problema può apparire particolarmente rilevante quando non c’è un assetto regionale da cui partire, ovvero quando si inizia da zero senza concetti di regione da modificare, restringere o espandere per far fronte nel modo migliore alla questione più urgente del momento. Ma anche in presenza di un’istituzione regionale – anche relativamente longeva – non vi è certezza che essa coinvolga il giusto gruppo di stati (o altri attori) necessari affinché sia efficace. Una regione, ad esempio, creata per affrontare una sfida comune alla sicurezza garantisce il mix di attori necessario a gestire problemi ambientali o economici transnazionali? E che cosa succede quando transizioni di potere determinano l’emergere di nuovi attori al di fuori dell’istituzione regionale? O quando la minaccia alla sicurezza iniziale cambia? O entrambe le cose?
In buona parte questa è la sfida per la governance regionale nel Sud-est asiatico contemporaneo. O dovrebbe essere Asia orientale? O forse addirittura Indo-Pacifico? Il fatto stesso che non ci sia chiarezza su come chiamare la regione dice molto: non indica solo la confusione su che cosa sia (o dovrebbe essere) la regione, ma anche la competizione per definire la sua ampiezza e natura nei modi che meglio rispondono agli interessi degli stati chiave.
L’istituzione regionale più longeva in quest’area del mondo, l’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), ha vissuto un lungo processo di evoluzione e cambiamento. Ora include tra i propri membri alcuni degli stati comunisti per contrastare i quali, almeno in parte, venne creata. E se le conseguenze della crisi finanziaria del 1997 dimostrarono che lo spazio economico non poteva essere ristretto alla sola area ASEAN, attraverso la collaborazione finanziaria con Cina, Giappone e Corea del Sud, l’ASEAN mantenne un ruolo chiave come fonte di governance regionale.
Successivamente, in effetti, l’idea di una regione definita come ASEAN+3 iniziò a ottenere un credito considerevole e diede vita a forme di collaborazione ASEAN+3 in aree come la sicurezza alimentare, e la costituzione di una riserva comune di riso. Va sottolineato che gran parte di tale collaborazione ebbe natura bilaterale e non multilaterale e, come dimostra lo sviluppo di tre relazioni economiche separate e molto diverse (China-ASEAN Free Trade Area, Japan-ASEAN Comprehensive Economic Partnership Agreement, ASEAN-Korea Free Trade Area), scaturì in processi di ASEAN+1 in competizione tra loro piuttosto che in un’azione collettiva tra gli stati +3. Allo stesso tempo, emersero forme di governance che includevano un sottoinsieme di membri ASEAN, ad esempio per fornire una regolamentazione ambientale lungo il Mekong. Cionondimeno, nonostante non tutti gli stati membri fossero coinvolti in tutti i progetti, l’idea che tale gruppo di Paesi fornisse un buon punto di inizio per cercare di costruire diversi schemi di governance regionale è encomiabile.
Una tale concezione ampia di regione sembrava anche coincidere con gli emergenti interessi cinesi e qui per molti versi risiede un problema cruciale per il regionalismo in Asia, o forse più correttamente i problemi cruciali sono due.
In primo luogo, la coincidenza stessa con gli interessi cinesi rende gli altri attori nervosi perché percepiscono, in parte a ragione, che tale concezione di regione è favorita e promossa dalla Cina nella convinzione di poter esercitare influenza, in qualche modo dominare, e forse un giorno addirittura guidare. In risposta, gli attori preoccupati dal dominio cinese (soprattutto, ma non solo, in Giappone), hanno promosso una visione alternativa di come dovrebbe essere la regione: più ampia e comprendente Paesi in Australasia e nel subcontinente indiano che non condividono necessariamente le ambizioni cinesi e possono fungere da bastione contro la diffusione del dominio di Pechino. Tale idea di regione definita “Indo-Pacifica” risponde anche agli interessi di chi in Australia non vuole rimanere escluso dal dinamismo economico che caratterizza i propri “vicini” settentrionali, estendendo il significato stesso di vicinato. Le proposte originarie per il Trans-Pacific Partnership (TPP) furono anche (almeno in parte) un tentativo di creare uno spazio economico alternativo che escludesse la Cina anziché limitarsi a diluirne il potere potenziale. Di conseguenza, non si tratta tanto di una lotta per l’influenza nella regione, quanto di influenza e potere per definire quale deve o può essere lo spazio regionale.
In secondo luogo, l’evoluzione del regionalismo europeo fu caratterizzata da una stretta corrispondenza tra spazio regionale economico e di sicurezza. I membri di istituzioni regionali economiche e di sicurezza non coincidono mai perfettamente, e Paesi come l’Albania possono occasionalmente disallinearsi dal proprio blocco. Tuttavia, il bipolarismo della Guerra fredda creò una concezione ben definita di chi fosse “noi” e chi invece “loro”. Quantomeno, uno stato allineato con la NATO e l’Occidente in materia di sicurezza, non avrebbe potuto allearsi con l’Unione Sovietica a livello economico. Significativamente, tale correlazione tra identificazioni comuni e condivise e alleanze economiche e di sicurezza è assente nell’Asia contemporanea. Se la Cina una volta era un “altro” economico, certamente non lo è più: la sua crescita si basa sull’integrazione con l’economia globale capitalista, inclusa la partecipazione a catene di produzione che la rendono un partner importante per molti attori. Con l’istituzione della Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIB), la crescita di investimenti cinesi all’estero e la promessa di investimenti ancora maggiori in futuro lungo le nuove vie della seta, i leader cinesi stanno proiettando il Paese in posizione centrale per il futuro economico della regione (a prescindere da come quest’ultima venga definita). E a differenza del periodo della Guerra fredda, nulla impedisce a un Paese di far parte contemporaneamente di meccanismi regionali sia con la Cina sia con l’Occidente: il bipolarismo può aver richiesto relazioni (economiche) esclusive, ma la globalizzazione non solo consente, ma richiede promiscuità (economica). Tuttavia, mentre la Cina può essere un partner economico indispensabile (un “noi” economico) per molti rappresenta contestualmente la maggior sfida alla sicurezza. È esagerato dire che la Cina rivesta il ruolo economico della Germania e quello della Russia a livello di sicurezza in Europa. Ma si tratta di un’esagerazione che ha un debole fondo di verità.
Tutto ciò suggerisce che il regionalismo in Asia continuerà probabilmente a essere caratterizzato sia dalla promozione di idee diverse su ciò che tale “Asia” è o dovrebbe essere, sia dalla tensione tra logiche economiche e di sicurezza in competizione fra loro. Ciò però non significa la fine della governance regionale: tutt’altro. Invece che andare alla ricerca di un singolo luogo e/o una singola istituzione, essa può essere prodotta in modi funzionali. Gruppi di attori possono unirsi per creare meccanismi atti ad affrontare problemi specifici in un settore ben delineato, mentre un altro gruppo può operare con regole diverse per gestire altre sfide transnazionali. E questo è ciò che sta già avvenendo, come dimostrano, ad esempio, i meccanismi su misura con membri diversi creati tra i Paesi ASEAN per regolare l’industria dell’olio di palma, il settore minerario, la sicurezza marittima, le migrazioni e la finanza islamica.[1] Qui c’è accordo non su un singolo, ma su multipli spazi regionali.
Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini
[1] Tali casi sono trattati in Shaun Breslin and Helen Nesadurai (eds) Who Governs and How? Non-State Actors and Transnational Governance in Southeast Asia, Special Issue of the Journal of Contemporary Asia, 48 (2), 2018.
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