L’élite russa che si è coagulata intorno a Vladimir Putin ha giustificato la sua ascesa e, successivamente, il consolidamento del suo potere in funzione di un obiettivo minimo da conseguire: il riconoscimento internazionale dello status di grande potenza della Federazione Russa. Dalla prospettiva del Cremlino, le potenze occidentali avrebbero negato tale ruolo alla Russia a partire dagli anni Novanta, come drammaticamente evidenziato dalla doppia “umiliazione” del 1999 con il primo allargamento a est della NATO e la missione Allied Force contro la Jugoslavia.
La strada da percorrere verso la meta prefissata è stata segnata da almeno due tappe intermedie. La prima è stata la necessità di porre fine al fenomeno della smuta (discordia, agitazione), con cui generalmente vengono definite quelle fasi ricorrenti nella storia russa che risultano contraddistinte dalle “ingerenze straniere”. Oggi l’establishment russo interpreta gli anni di Boris El’cin come un periodo in cui si è materializzata una situazione non dissimile da quella vissuta sotto il giogo dei tataro-mongoli (1237-1480), durante il “periodo dei torbidi” (1598-1613) e, infine, con la prima fase della Rivoluzione d’ottobre (1917-1922). Come già avvenuto in passato, per frenare le derive anarchiche di un territorio sterminato e attraversato da profonde spaccature fra centro e periferia si è scelto di accentrare progressivamente il potere. A partire dal 2004, tuttavia, Freedom House ha giudicato questo processo alla stregua di una vera e propria involuzione autoritaria.
La seconda tappa verso il ritorno della Russia alla “grandezza” è il ripristino, tuttora in corso, di una sua zona d’influenza esclusiva. Questa è stata fatta corrispondere ai territori un tempo appartenuti all’Unione Sovietica, definiti blizhneye zarubezhyesin (“estero vicino”) sin dagli anni Novanta. È qui che la Russia, nell’ambito di un gioco a somma zero, punta ad azzerare – o quanto meno a limitare – l’influenza degli Stati Uniti e dei loro alleati europei. Se, al momento, gli sforzi russi sono risultati inefficaci nell’area baltica, viceversa hanno riscosso un evidente successo in Asia centrale. Il Caucaso meridionale, insieme alla “nuova” Europa orientale (Bielorussia, Moldavia e Ucraina), è invece il quadrante geopolitico dove la competizione tra Mosca e Washington è risultata più intensa, tanto da assumere in alcuni momenti i connotati tipici delle proxy war.
Uno degli indicatori più significativi dell’andamento di questo confronto, nonché una delle maggiori ragioni di frizione tra le due potenze, è stato l’avanzata/arretramento della democrazia in Armenia, Azerbaigian e Georgia (grafico 1). La democratizzazione di un paese, infatti, è generalmente considerata un segnale del suo allineamento internazionale alle posizioni americane e, laddove le condizioni geopolitiche lo permettano, la principale precondizione per la sua integrazione nel sistema di alleanza occidentale. Già all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica, di conseguenza, gli Stati Uniti hanno promosso attivamente il cosiddetto “democratic enlargement” nelle ex repubbliche sovietiche, espandendo così la loro influenza su spazi precedentemente chiusi e soggetti a un dominio di fatto simile a quello coloniale. A tal fine il Congresso americano varò nel 1992 il Freedom for Russia and Emerging Eurasian Democracies and Open Markets Support Act (FSA) con lo scopo di favorire l’affermazione della democrazia e dell’economia di mercato nell’area.
La transizione di regime nel Caucaso meridionale. Fonte: Freedom in the World 2017
Come conseguenza delle criticità legate alla transizione economica, alla crisi finanziaria del 1998 e alla Prima guerra cecena (1994-1996), la Russia fu obbligata a una politica di parziale disimpegno nel Caucaso meridionale. Tale scelta generò due conseguenze principali. Da un lato, il Cremlino adottò un atteggiamento di sostanziale indifferenza rispetto alle scelte compiute dai tre stati nella definizione delle loro strutture interne di potere, anche perché la Russia stessa sembrava intenzionata ad adottare il modello politico occidentale. Dall’altro lato, sostenne i leader che mostravano un orientamento filorusso o non ostile alla Russia (Levon Ter-Petrosyan, Heydar Aliyev ed Eduard Shevardnadze) e che, a dispetto delle appartenenze politiche, erano disposti a garantire al Cremlino l’utilizzo di alcune ex basi militari sovietiche nei rispettivi paesi. Tuttavia, la mancata risoluzione delle guerre in Nagorno-Karabakh, Abcasia e Ossezia del Sud (noti come “conflitti congelati”), la cui responsabilità era stata sostanzialmente delegata a Mosca dalla comunità internazionale, favorì il sorgere di alcune condizioni ostative al radicamento della democrazia nei paesi caucasici: l’insicurezza generata da una situazione di instabilità permanente, l’appiattimento del dibattito sul tema della sovranità incompiuta, la scarsa agibilità politica delle opposizioni in nome dell’unità “intorno alla bandiera” e, infine, la presenza di leader carismatici legittimati dal ruolo avuto nei conflitti.
Dopo la breve stagione di cooperazione tra Russia e Stati Uniti nella “guerra globale al terrore”, tuttavia, il Cremlino ha assunto una posizione di aperto contrasto nei confronti dell’ipotesi di democratizzazione dello spazio post-sovietico. La Rivoluzione arancione in Ucraina (2004) e la successiva Rivoluzione dei tulipani in Kirghizistan (2005), infatti, hanno fatto reinterpretare ex post la Rivoluzione delle rose in Georgia (2003) come il primo tassello di un mosaico che la Casa Bianca andava gradualmente componendo. Dietro la Freedom Agenda di George W. Bush, infatti, si sarebbe celata la volontà di accerchiare la Russia per consolidare la leadership americana anche nell’estero vicino. Tale rappresentazione degli eventi è stata ufficializzata nei più importanti documenti strategici prodotti in Russia. Il Concetto di politica estera del 2008 ribadiva l’importanza della sovranità degli stati per il mantenimento dell’ordine internazionale e denunciava i pericoli legati ai tentativi di ingerenza esterna. Ancor più esplicitamente, la Dottrina militare del 2010 inseriva tra le minacce militari alla Federazione sia l’allargamento della NATO verso i confini russi che i tentativi di destabilizzazione dell’ordine interno degli stati post-sovietici.
Il progressivo miglioramento delle condizioni economiche della Russia, così come i successi conseguiti sul fronte ceceno, hanno permesso al Cremlino di ricorrere a un più ampio ventaglio di strumenti per affermare il suo primato sul Caucaso meridionale. In questa fase, a differenza di quanto accaduto con i “conflitti congelati”, le sue politiche hanno cominciato a essere intenzionalmente volte ad arrestare i processi di democratizzazione in corso che, se avessero preso realmente piede, avrebbero potuto favorire l’allineamento internazionale di un paese agli Stati Uniti.
Il ricorso all’hard power è stato fatto valere soprattutto nei confronti della Georgia, che a metà degli anni Duemila sembrava prossima a raggiungere il traguardo della transizione alla democrazia. Nel 2006 la scelta del Cremlino di bandire i vini e le acque georgiane a causa di ragioni sanitarie contribuì a delegittimare l’élite democratica e filoccidentale che era salita al potere dopo la Rivoluzione delle rose. Nel 2008, invece, la rapida vittoria russa sull’esercito georgiano in Ossezia del Sud e il successivo riconoscimento russo dell’indipendenza abcasa e osseta non solo hanno assestato un ulteriore colpo all’immagine del presidente georgiano Mikhail Saakashvili, ma hanno portato anche a una stretta del controllo dell’esecutivo sui media e a una nuova limitazione del dibattito politico in presenza di una minaccia esterna incombente. L’esito della guerra e il mancato sostegno americano a Tbilisi, inoltre, rivelando l’asimmetria di interessi e capacità derivanti dalla prossimità geografica, hanno agito da monito per Yerevan e Baku sui rischi legati all’ipotesi di un loro effettivo avvicinamento a Washington.
Negli stessi anni, tuttavia, prima Putin e poi il suo – momentaneo – successore alla presidenza Dmitrij Medvedev visitarono più volte i loro omologhi nei due paesi, scegliendo sempre fasi “calde” per la politica locale. Particolarmente significativo fu l’incontro tra Putin e Ilham Aliyev a Baku nel 2006, che andò in scena solo pochi mesi dopo le contestazioni dei risultati elettorali del novembre 2005, quando l’Azerbaigian era sembrato sul punto di diventare il secondo teatro di una rivoluzione colorata nel Caucaso meridionale. Ugualmente importante fu la visita di Medvedev a Serzh Sargsyan nel 2008, organizzata subito dopo le violente contestazioni contro la prima elezione del presidente che avrebbe dominato la scena politica armena per un decennio. Queste visite hanno contribuito a legittimare i presidenti in carica di fronte all’opinione pubblica interna e internazionale. Al tempo stesso, hanno anche costituito una prova tangibile della loro vicinanza alla Russia, nel caso avessero dovuto fronteggiare la minaccia di un mutamento di regime.
Nel Concetto di politica estera del 2008, tuttavia, il Cremlino sottolineava anche che per realizzare una politica estera più efficace avrebbe dovuto lavorare alla diffusione di una percezione positiva dell’immagine, della cultura e dei principi politici della Russia all’estero. Questi sono stati proposti sempre più esplicitamente in antagonismo alla democrazia liberale. All’interno di tale cornice ha così preso vita l’esperienza della Fondazione Russkiy Mir, creata per operare in tutto il mondo con l’obiettivo di diffondere la lingua e la cultura russa, che ha aperto una sede sia a Yerevan che a Baku.
Il ritorno alla presidenza di Putin nel 2012 è corrisposto a un nuovo peggioramento dei rapporti tra Russia e Stati Uniti. La natura prevalentemente competitiva di questa relazione è stata ammessa apertamente nella National Security Strategy firmata da Donald Trump a fine 2017, dove il Presidente statunitense ha definito la Federazione Russa come una “potenza revisionista”. Il Caucaso meridionale ha fornito numerose prove a conforto di questa rappresentazione. Anzitutto la Russia ha fatto desistere l’Armenia dall’andare avanti con l’Accordo di associazione all’Unione Europea, ottenendone l’adesione all’Unione Economica Eurasiatica nel 2014. Inoltre, le azioni di public diplomacy sono state ulteriormente intensificate. Il progetto più importante lanciato in questa fase è stato quello dell’agenzia di stampa Sputnik, che nel Caucaso meridionale offre un’ampia copertura in tutte le lingue locali, compresi l’abcaso e l’osseto. Anche le politiche di legittimazione dei governanti non democratici e filorussi è continuata. Tra le visite effettuate da Putin in Armenia, particolarmente rilevante è stata quella a Sargsyan in prossimità del referendum costituzionale promosso dal governo nel 2015, che avrebbe trasformato l’Armenia in una repubblica parlamentare. Similmente, l’incontro con Aliyev in occasione della cerimonia inaugurale dei Giochi europei di Baku 2015 è giunto a consacrare la più importante vetrina internazionale avuta dall’Azerbaigian dalla sua indipendenza. Putin, inoltre, ha visitato sia nel 2013 che nel 2017 l’Abcasia, assestando nuovi colpi alla legittimità del governo georgiano.
Un’immagine recente, legata ai Mondiali di Russia 2018, può essere considerata iconica dei risultati delle transizioni nel Caucaso meridionale, immortalando la natura dei regimi locali con maggiore efficacia di quanto possano fare i dati riportati nel grafico 1. Lo spettacolo di inaugurazione dello stadio Luzhniki di Mosca è stato disertato da tutti i capi di stato o di governo occidentali. Ad assistervi insieme a Putin, al contrario, è stato un gruppo ben nutrito di leader autoritari, tra cui il principe saudita Mohammed Bin Salman Al Saud, il presidente del parlamento nordcoreano Kim Yong-nam, il presidente kazako Nursultan Nazarbaev, quello bielorusso Aleksandr Lukašenko e quello venezuelano Nicolás Maduro. Tra i leader caucasici hanno partecipato il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Aliyev, mentre nessuno è venuto in rappresentanza della Georgia. Tuttavia, sul palco delle autorità spiccava la presenza dei presidenti delle regioni indipendentiste riconosciute dalla Russia: Raul Khajimba per l’Abcasia e Anatoliy Bibilov per l’Ossezia del Sud.
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