“La gente alla radio parla costantemente di diritti delle donne, ma la verità è che le donne possono far valere i propri diritti solamente se hanno anche una voce a livello socioeconomico. Se non hanno fonti di reddito, come possono distinguersi, come possono sentirsi forti? Loro sono tipicamente più povere degli uomini. È molto importante quindi che noi difensori dei diritti umani lavoriamo duramente per dare potere a queste donne socialmente ed economicamente, dotandole di competenze che possano aiutarle a difendersi da sole. In una situazione in cui riescono a malapena a sopravvivere, dare loro competenze e formazione può renderle meno vulnerabili. Le donne che non hanno potere economico, non hanno via di fuga”.
La guerra civile, o guerra del nord, che ha avuto luogo per oltre un ventennio nel nord dell’Uganda a partire dal 1986, ha dato vita a ripetute e violente violazioni dei diritti umani della popolazione di etnia Acholi, per mano soprattutto di soldati ribelli appartenenti alle fila del Lord’s Resistance Army (LRA). Tra le altre, la violenza ha preso forma di assalti di natura sessuale ai danni della popolazione femminile locale: secondo lo studio condotto da Kinyanda et al. su 573 ragazze e donne, quasi il 30% di esse ha subito una o più forme di violenza sessuale durante il conflitto, tra cui rapimenti seguiti da matrimoni forzati, incesti forzati e prestazioni di natura sessuale in cambio di benefici materiali come cibo o coperte. Durante oltre un ventennio, dunque, una parte significativa della popolazione femminile nordugandese, e soprattutto Acholi, è stata sottoposta a rapimenti, torture e violenze di natura fisica, psicologica e sessuale; inoltre, difficilmente ha avuto accesso a servizi di istruzione ed è stata a lungo costretta a vivere in campi profughi.
Spinta dalla constatazione delle condizioni emorragiche in cui la società si trovava durante il conflitto e dall’urgenza di intervento percepita, la popolazione civile ha nel tempo dato vita autonomamente e spontaneamente ad organizzazioni locali che si sono dedicate, e si dedicano tuttora, a garantire supporto alle donne che durante il conflitto hanno subito violenza sessuale. Tra le tipologie di attività a cui la società civile ha dato la priorità al fine di sostenere attivamente tali donne, sono presenti attività di advocacy e sensibilizzazione dell’opinione pubblica; distribuzione di beni di prima necessità; prestazioni medico-sanitarie e supporto psicologico; supporto ed empowerment economico tramite l’avviamento di attività generatrici di reddito e l’aiuto nell’ottenimento di mutui ipotecari garantiti.
Dall’analisi di un campione di dodici organizzazioni nordugandesi emerge che, durante il conflitto, le organizzazioni che si occupavano di female economic empowerment nella sub-regione Acholi erano meno della metà del totale. In seguito al termine del conflitto (da stabilirsi nel 2008), invece, undici organizzazioni su dodici risultano coinvolte in questa tipologia di attività, che comprende per lo più workshop di cucina, cucito e giardinaggio. Il motivo per cui l’empowerment economico delle donne – soprattutto se hanno subito violenza – è considerato cruciale dalla maggior parte delle organizzazioni intervistate, emerge chiaramente dalle affermazioni dei loro rappresentanti: “Se le donne non hanno un reddito, sono legate agli uomini, e non possono lottare per la loro indipendenza e per i loro diritti”; “Forniamo competenze in ciò che le donne amano e vogliono veramente fare, fornendo loro conoscenze di base in ambito economico e di gestione finanziaria. È un modo per aiutarle ad essere parte attiva della società e ad essere accettate, e questo le aiuta ad affrontare meglio lo stigma, dal momento che i progetti sono dedicati sia alle donne rapite e violentate dai ribelli durante la guerra che alle donne che non hanno mai subito violenza. Senza un’occupazione o delle competenze, è più difficile per loro essere accettate nella società”.
L’obiettivo di spingere le donne a rendersi indipendenti dal punto di vista economico si intreccia strettamente con il terreno culturale Acholi, e con un più generale sistema patriarcale dominante che le organizzazioni intervistate sembrano individuare all’unanimità nella società nordugandese contemporanea. La predominanza della componente maschile della popolazione sulla controparte femminile, sotto molteplici punti di vista, viene percepita come un ostacolo all’emancipazione delle donne. Se vincolate economicamente (ma non solo) agli uomini da cui dipendono, esse non sono in grado di lottare pienamente per i loro diritti: “La violenza di genere aumenta ogni giorno di più. Questo è molto dettato dal patriarcato, è ancora molto radicato, nella famiglia, nella comunità e nella regione”; “La violenza di genere è ancora alta, alcune donne pensano ancora che alcune decisioni debbano essere prese dagli uomini, e noi stiamo cercando di formarle affinché capiscano che non è così. La nostra cultura è forte, soprattutto la nostra società patriarcale”; “Il sistema patriarcale è culturalmente radicato nella società ugandese. Le donne sono ancora viste come custodi della casa, ma parlare non basta. Se le donne continuano a stare in casa senza lavorare, e non hanno soldi per andarsene, non possono essere indipendenti dai loro uomini”.
Ciascuna delle dodici organizzazioni conferma che nella società Acholi nello specifico, e nordugandese in generale, è ancora presente un ampio divario tra uomini e donne, a causa del quale quest’ultime non sono poste sullo stesso piano dei primi: “La questione è culturale: gli uomini in Africa dai loro antenati sanno che il padre è il capofamiglia. Pertanto, le donne sono viste come inferiori agli uomini. Le donne sono inferiori agli uomini, e questo è un problema che porta alla violenza di genere, che colpisce tutto il paese”; “A causa della cultura e delle norme, le donne sono ancora sottovalutate e c’è un divario tra loro e i loro omologhi maschili”. Per questa ragione, la società civile ritiene necessario intervenire, tra gli altri, sul piano economico, affinché all’empowerment economico segua e sia legato un processo di empowerment individuale e sociale: “Tutto parte da una collana di perline. Sembra un piccolo oggetto di scarso valore, ma nelle mani di chi la crea e poi la vende, c’è grande speranza”.
Per saperne di più:
Porter, H. (2018) “Rape Without Bodies?: Reimagining the Phenomenon we Call ‘Rape’”, Social Politics, 25(4). Disponibile su: https://doi.org/10.1093/sp/jxy029
Kinyanda, E., Musisi, S., Biryabarema, C., Ezati, I., Grosskurth, H., Levin, J., Oboke, H., Ojiambo-Ochieng, R., Walugembe J e Were-Oguttu, J. (2010) “War Related Sexual Violence and It’s Medical and Psychological Consequences as Seen in Kitgum, Northern Uganda: A Cross-Sectional Study”, BMC International Health and Human Rights, 10(28). Disponibile su: https://researchonline.lshtm.ac.uk/18672/1/1472-698X-10-28.pdf
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