L’interpretazione della Legge sul matrimonio fornita di recente dalla Corte suprema del Popolo ha provocato in Cina un acceso dibattito. La Corte ha infatti deciso che in caso di divorzio, contrariamente a quanto stabilito e attuato in precedenza, la casa rimane a chi ne possiede formalmente il titolo di proprietà, mentre l’altro coniuge riceve una compensazione nel caso abbia contribuito parzialmente alla sua acquisizione. In Cina, nella stragrande maggioranza dei casi, sono gli uomini ad essere proprietari dell’alloggio. Come da tradizione, vige infatti ancora l’antico rito che vuole che sia la donna a “uscire da casa” per stabilirsi in quella del marito. Anche nei casi in cui è la famiglia della sposa o lei stessa ad aver investito risorse finanziarie per l’acquisto, si preferisce mantenere una posizione di preminenza maschile intestando all’uomo la proprietà.
L’interpretazione della Corte ha suscitato grande clamore non solo perché è fortemente avvertita la necessità di salvaguardare la componente della coppia più debole, ma anche perché, con la crescita vertiginosa dei prezzi del mercato immobiliare degli ultimi anni si è diffuso in ampi strati di popolazione il timore che il sogno di una casa di proprietà per sé e/o per i propri figli divenga irrealizzabile. Secondo alcuni, la forte domanda del mercato immobiliare sarebbe stata in parte determinata dalla volontà dei genitori di figli maschi di aiutarli a trovare moglie in un mercato matrimoniale difficile a causa dello squilibrio tra i due sessi a favore degli uomini. È più probabile, però, che per la maggioranza delle persone l’acquisto della casa possa essere realizzato solamente unendo le forze. La Corte suprema del popolo, a fronte di un numero elevatissimo di divorzi (quasi due milioni nel 2010) e dei numerosi problemi connessi, ha deciso di puntare più sulla protezione della proprietà che sulla tutela delle donne.
A distanza di trenta e più anni dall’inizio della riforma, la condizione delle donne in Cina, presa nel suo complesso, rimane problematica nonostante l’attenzione che Partito e Stato professano di prestare all’argomento. Le fortissime disparità e diseguaglianze tra mondo urbano e rurale si sommano a quelle generazionali, di classe, ed etniche, complicando ulteriormente la situazione. A fronte delle molte opportunità che la riforma della fine degli anni Settanta ha offerto ad alcune categorie di donne, soprattutto nel mondo urbano, nel complesso il quadro preserva più ombre che luci. Inoltre, se nei decenni scorsi il tema era centrale nel dibattito pubblico, oggi suscita minore interesse con l’eccezione di gruppi e organizzazioni che lavorano su aspetti diversi delle tematiche di genere (violenza domestica, lavoro, diritti). Secondo alcuni studi demografici effettuati su dati degli ultimi censimenti, le casalinghe, ossia le donne che per periodi lunghi sono fuori dal circuito lavorativo, sono in costante aumento. Quando negli anni Novanta, con lo smantellamento delle fabbriche di stato, si ebbe un’ondata di licenziamenti, a farne le spese furono in gran parte le donne.
Anche la partecipazione politica delle donne è limitata e scarsa è la presenza di personale femminile ai livelli governo e nella direzione delle imprese di stato. Dei 35 membri del Consiglio di Stato (il governo cinese) solo quattro sono donne. E soltanto il 6% dei membri del Comitato centrale del Partito sono donne, contro il 10% di quattro decenni fa. La consigliere di stato Liu Yandong è l’unica rappresentante del genere femminile nel Politburo del Partito comunista cinese (Pcc) e Xing Wei è l’unica donna al posto di comando di una delle maggiori 120 imprese statali, la Potevio Co. Ltd. di Shanghai. Secondo ricerche effettuate dalla Federazione delle donne cinesi, l’organismo ufficiale che si occupa della questione femminile per conto del Partito, il 92% delle donne laureate si dichiara discriminato nella ricerca del lavoro e nella carriera. L’unica eccezione in questo quadro piuttosto fosco è la presenza nel mondo delle imprese private di molte donne imprenditrici, grazie alle tante opportunità create da tre decenni di riforme. Anche politiche come quella familiare si sono rivelate utili. In particolare il limite di un figlio per coppia nelle zone urbane ha spinto a dedicare attenzione e risorse al’unico erede, sia esso maschio o femmina. In taluni ceti sociali si sta ormai facendo largo l’idea, contraria alla tradizione, che avere una figlia femmina sia auspicabile perché si prenderà cura dei genitori anziani più e meglio di un figlio maschio.
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