Anche la Cina sta facendo i conti con le ripercussioni del conflitto in Libia. Al di là del modesto volume di investimenti che risulta dai dati ufficiali, la presenza commerciale cinese in Libia è consistente, come evidenziato dai 36.000 lavoratori cinesi evacuati a tempo di record nelle scorse settimane. Ma l’alt imposto dalle autorità cinesi a ulteriori investimenti in Libia potrebbe andare ben oltre i confini libici, comportando un complessivo riesame della strategia di penetrazione economica nei paesi a rischio e dei meccanismi per la protezione degli investimenti all’estero.
Gli investimenti diretti esteri (Ide) cinesi stanno per molti aspetti seguendo un’evoluzione simile a quella delle economie asiatiche di più antico sviluppo, come Giappone, Corea del Sud, Hong Kong o Singapore. Nel caso cinese però la soglia di accettazione del rischio politico è particolarmente bassa. Se è vero che il Giappone negli anni ’80 investiva in paesi politicamente non del tutto stabili, come il Vietnam o la Cina stessa, quest’ultima sembra essere andata ben oltre, investendo in pressoché tutti i primi 20 paesi della classifica dei paesi più politicamente instabili stilata dall’Economist Intelligence Unit.
Da un lato, l’assenza di vincoli di tipo politico, come un’opinione pubblica e dei media realmente liberi, e la fermezza con la quale le autorità cinesi ribadiscono costantemente il principio di “non interferenza negli affari interni” degli stati rappresentano un vantaggio, poiché consentono alle imprese cinesi di concludere contratti in paesi e settori off-limits per i loro concorrenti occidentali. D’altra parte, però, è forte il rischio dell’“effetto boomerang”: la “garanzia sovrana” fornita dal governo cinese alle proprie imprese che investono all’estero appare più debole di quella fornita dai governi occidentali e, almeno da un punto di vista formale, Pechino non ha grandi spazi di manovra in caso di sconvolgimenti politici (come quelli in Libia) che danneggino gli interessi commerciali cinesi.
Occorre osservare come, paradossalmente, le autorità e le imprese cinesi non abbiano ritenuto opportuno dotarsi di adeguati strumenti legali per la protezione degli investimenti. La Cina ha aderito, ad esempio, alla Convenzione di Washington sulla risoluzione delle controversie in materia di investimenti esteri (Icsid) nel 1993, ma solo per certe tipologie di dispute, dal momento che nei primi anni ’90 riceveva massicci investimenti esteri, ma ne effettuava in misura pressoché insignificante; non aveva pertanto interesse ad una piena adesione che avrebbe comportato un maggiore rischio di essere chiamata in giudizio da investitori esteri.
Almeno nel primo decennio della cosiddetta “go-out strategy”, le imprese cinesi hanno investito sulla base di analisi spesso approssimative dei rischi politici e legali nei paesi terzi, stipulando accordi commerciali poco sofisticati che prevedeva no tutele inferiori rispetto agli standard occidentali. Sono stati sottovalutati i rischi legali e commerciali degli investimenti e sopravvalutati i meccanismi di protezione politico-diplomatica (una gamma di strumenti che vanno dal lobbying presso autorità locali e nazionali fino alla difesa armata degli interessi commerciali). Questi ultimi, come si è detto, spesso non possono essere attivati (almeno non apertamente) proprio in nome del principio di non interferenza di cui Pechino è da sempre alfiere.
In paesi come la Guinea Equatoriale o l’Iran, ad esempio, la Cina ha effettuato enormi investimenti, prevalentemente colmando i vuoti lasciati da società straniere (Rio Tinto e Bhp Billiton in Guinea, Eni in Iran) costrette ad abbandonare il paese per costrizioni di tipo politico. Ha però chiaramente sottovalutato i rischi politici insiti in questa strategia.
Nonostante la crescita degli Ide cinesi sembri continuare ad un ritmo sempre più sostenuto e una parte rilevante di questi flussi di capitali continuino ad avere come destinazione finale paesi altamente instabili come la Nigeria, il Sudan, lo Zimbabwe o il Pakistan, le autorità e le imprese cinesi sembrano aver cominciato a prendere coscienza dei rischi a cui sono esposte.
Un ampliamento dell’adesione della Cina all’Icsid al momento non è all’ordine del giorno, ma gli accordi di libero scambio sottoscritti dalla Cina negli scorsi anni (come ad esempio l’accordo con il Pakistan) contengono diverse clausole a tutela degli interessi commerciali cinesi, come ad esempio il ricorso a un collegio arbitrale internazionale in caso di controversie commerciali. Le imprese sembrano ora prestare maggiore attenzione ai meccanismi di protezione di investimenti in aree o settori particolarmente a rischio, sia nella fase di pianificazione dell’investimento che in quella della sua attuazione. Nel settembre 2009 un collegio arbitrale ha emesso il primo lodo relativo ad una controversia promossa da un’impresa cinese ai sensi di un trattato bilaterale di investimento (nel caso specifico con il Perù).
I rischi cui sono esposti gli investimenti cinesi continueranno ad essere sensibilmente più alti di quelli dei maggiori concorrenti, in particolare Stati Uniti, Unione Europea e, tra i paesi emergenti, Brasile e India, che non solo adottano un approccio più prudente nelle zone più problematiche e instabili, ma appaiono anche più propensi ad anteporre i propri interessi commerciali a obiettivi di natura politica.
Situazioni come quella libica potrebbero verificarsi in altri paesi con una forte presenza di Ide cinesi. Come reagirebbero le autorità di Pechino al ripetersi di crisi, come quella libica, che mettono a repentaglio cospicui interessi economici? Continuerebbero ad attenersi al principio di non interferenza a scapito degli interessi commerciali delle proprie imprese o si allineerebbero alle altre potenze mondiali? E’ un interrogativo importante anche per il dibattito interno cinese perché riguarda il modo in cui verrà configurandosi nei prossimi anni il ruolo globale del paese non solo sul piano economico, ma anche su quello politico.
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