Dopo decenni di regimi autoritari e gravi violazioni dei diritti umani, le riforme attuate dal Primo Ministro Abiy Ahmed Ali in Etiopia a partire dal 2018 ambivano a promuovere una svolta liberale e avevano generato speranze di riconciliazione e rinnovamento sociale. Le elezioni generali previste per l’agosto del 2020 – in cui gli Etiopi sarebbero stati chiamati a scegliere i nuovi membri della House of People’s Representatives e i membri dei consigli degli stati regionali e dei consigli locali – avrebbero dovuto sancire una tappa significativa nella transizione democratica nel paese. Tuttavia, come spesso succede, un clima di apertura e le speranze che ne derivano sono facilmente compromessi quando le promesse che li determinano vengono frustrate. La decisione del parlamento etiope di rimandare le elezioni a causa della pandemia di COVID-19 ne è un chiaro esempio.
Il Primo Ministro proviene dall’etnia Oromo, storicamente oppressa, sebbene maggioritaria. Per ventisette anni, l’etnia minoritaria tigrina aveva tenuto le redini del potere centrale con un pugno di ferro, pur costituendo appena il 6% della popolazione nazionale. La transizione politica inaugurata da Abiy ha di fatto esautorato il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai (TPLF), espressione politica della comunità tigrina. Questo cambiamento ai vertici ha provocato una rottura degli equilibri politici e sociali fondati sul controverso federalismo etnico, un sistema che non era riuscito a soddisfare le crescenti richieste di rappresentanza politica a livello nazionale da parte dei vari gruppi etnici nel paese. Non trovando spazi per un confronto democratico, queste tensioni sono sfociate in scontri violenti, in Tigrai e non solo.
Posticipare le elezioni, con l’estensione del mandato del primo ministro, dei legislatori federali e regionali fino a dodici mesi dopo la fine della pandemia è stata percepita dai critici del governo come un tentativo di consolidare il potere di quest’ultimo. L’assenza di consultazioni inclusive su una decisione così strategica per il paese ha rafforzato questa percezione. Le elezioni generali avrebbero offerto l’opportunità di giudicare l’operato del Primo Ministro per la prima volta dalla sua nomina nell’aprile del 2018. Inevitabilmente le tensioni tra il governo federale e quello della regione settentrionale del Tigrai si sono acuite rapidamente. Sfidando il divieto del governo centrale e non riconoscendo il prolungamento del suo mandato, il governo del Tigrai ha tenuto le elezioni regionali il 9 settembre, aprendo una crisi istituzionale in cui la leadership tigrina e quella federale si considerano a vicenda illegittime.
Lo scontro politico è progressivamente degenerato in scontro armato il 4 novembre, quando il Primo Ministro ha accusato il TPLF di aver attaccato installazioni militari federali di stanza nel Tigrai e ha ordinato il lancio di operazioni militari nella regione. Il TPLF ha respinto le accuse e ha fatto appello per una mobilitazione dei Tigrini per difendersi da quello che percepisce come un’aggressione da parte del governo federale. In pochi giorni, la situazione è deteriorata. Le Nazioni Unite hanno parlato di possibili crimini di guerra. Razzi lanciati dal TPLF sarebbero caduti sulla capitale eritrea, Asmara, e migliaia di sfollati etiopi avrebbero varcato la frontiera con il Sudan. L’aumento dei conflitti interetnici negli ultimi due anni, e la svolta violenta delle ultime settimane, fanno temere che l’Etiopia sia sull’orlo di una guerra civile con gravi ripercussioni sulla già instabile regione del Corno d’Africa.
Le riforme liberali di Abiy hanno avuto l’effetto involontario di far emergere pericolose faglie etniche tra fazioni Oromo, tra Oromo e Amahra, tra Amahra e Tigrini, così come tra questi ultimi e il Primo Ministro. Prima dello scoppio delle ostilità nel Tigrai, centinaia di civili erano stati uccisi e più di due milioni erano sfollati internamente a seguito di conflitti interetnici in altre regioni del paese. Conflitti scatenati dalla competizione per risorse naturali, potere e dispute su confini interni. Uno degli episodi più recenti, accaduto il 1° novembre, è il massacro di almeno 54 civili di etnia Amhara, inclusi bambini, in Oromia, presumibilmente per mano di combattenti dell’Oromo Liberation Army.
Il conflitto nel Tigrai e le crescenti tensioni etniche nel resto del paese sono indicativi di un deficit democratico cronico in Etiopia. Sono il sintomo di questioni ancora irrisolte, quali la condivisione del potere tra centro e regioni in un paese che ospita più di 80 etnie e il retaggio di anni di violazioni dei diritti fondamentali. La gestione delle elezioni in questa fase di emergenza sanitaria non poteva che essere percepita come l’ennesimo esempio di una politica autoritaria.
L’esperienza politica contemporanea in Etiopia non ha offerto opportunità di dialogo inclusivo per affrontare queste sfide. I regimi che si sono susseguiti negli ultimi decenni hanno cercato di controllare le forze centrifughe del nazionalismo su base etnica impedendo con la forza il confronto democratico. Dopo tre anni di proteste di massa contro il regime repressivo del TPLF, l’azione riformatrice del Primo Ministro Abiy ha introdotto cambiamenti significativi nel paese. Migliaia di oppositori politici sono stati scarcerati; centri segreti di tortura sono stati chiusi; alcuni funzionari responsabili di violazioni dei diritti umani sono stati processati; riforme legislative hanno sancito la libertà di associazione e notevoli progressi sono stati fatti per la partecipazione delle donne in politica. Tuttavia, il cambiamento introdotto da Abiy risente dei limiti intrinsechi di un’iniziativa imposta dall’alto, i cui obiettivi non sono ampiamente condivisi. Lo spazio esiguo riservato alla partecipazione democratica nella presa di decisioni priva la sua leadership di contributi fondamentali e tiene scarso conto dei bisogni di chi lo sostiene e di quelli che non si riconoscono in lui, erodendone la legittimità. Gli arresti di massa di migliaia di civili nel mese di luglio hanno ulteriormente compromesso la portata storica delle sue riforme, sollevando lo spettro di un ritorno alle pratiche repressive del passato. Come dimostra l’esperienza di altri paesi, una transizione democratica che non rispetta i diritti umani, che non promuove una cultura della pace e che non dà sufficiente spazio alle voci dissenzienti e a coloro che hanno subito abusi e violenze ha scarse possibilità di riuscita.
In questo contesto, la gestione unilaterale delle elezioni nazionali e regionali (le prime, rimandate senza ampia consultazione; le seconde, tenute nonostante il divieto di Addis Abeba) ha aggravato le tensioni politiche già esistenti. Invece di contribuire alla democratizzazione del paese e consolidare la fiducia collettiva nelle istituzioni, le elezioni hanno esposto traumi individuali e collettivi, frizioni interetniche e ambizioni personali che non hanno trovato lo spazio per esprimersi pacificamente attraverso il dialogo.
Quale modello di transizione è quindi possibile immaginare per l’Etiopia? I contesti di cambiamento politico verso la democrazia devono essere accompagnati da processi che analizzano collettivamente le cause di divisione, conflitto e autoritarismo. Questi processi, conosciuti con il nome di giustizia transizionale, promuovono la discussione delle narrazioni storiche dei diversi gruppi politici e sociali, dando particolare attenzione alle vittime degli abusi e sono finalizzati a concordare e promulgare programmi di riparazione e riabilitazione per le vittime, nonché le riforme legislative e istituzionali necessarie per garantire la non ripetizione di quegli stessi abusi. In Etiopia, oppressi e oppressori – distinzione spesso controversa in situazioni di confronto politico armato – non hanno avuto modo di confrontarsi riguardo ai torti subiti e commessi, e gettare le fondamenta per una convivenza pacifica.
Tra le varie riforme liberali sopra menzionante, il governo Abiy ha anche creato nel febbraio 2019 una commissione di riconciliazione il cui mandato è di mantenere la pace, garantire la giustizia, la democrazia, l’unità nazionale, il consenso e la riconciliazione tra Etiopi. L’atto costitutivo della Commissione Etiope per la Riconciliazione (ERC), la Proclamazione No.1102/2018, sembra enfatizzare il ristabilire la verità circa le violazioni commesse e la loro analisi nel contesto storico, politico e socio-economico rilevante, piuttosto che delle forme di rimedio e riparazione per le vittime. Lo stesso atto, tuttavia, sancisce il diritto di queste ultime ad essere ascoltate e prevede un riconoscimento pubblico della loro sofferenza, offrendo, perlomeno, uno degli elementi essenziali della giustizia di transizione, ovvero il riconoscimento delle vittime. La sua creazione purtroppo non è però stata il risultato di accordi politici o di pace inclusivi. Piuttosto, come nel caso delle altre riforme, è il prodotto della visione di una leadership che non ha tenuto sufficientemente in conto il contributo delle vittime e di attori chiave nel mondo politico e nella società civile. Una tale strategia è particolarmente problematica in un paese come l’Etiopia che già stenta a gestire la propria diversità etnica, culturale e politica in modo più costruttivo. Il mandato della ERC è stato concepito da una cerchia limitata di attori. Allo stesso modo, la nomina dei suoi 41 commissari non è stata il frutto di consultazioni con le parti in causa e ha portato alla selezione di candidati che non sono generalmente percepiti come idonei dal punto di vista delle competenze, della diversità geografica e dell’imparzialità. È importante sottolineare che la giustizia transizionale non è né riconosciuta pubblicamente dal governo (che, nei documenti costitutivi della ERC, si riferisce solo alla riconciliazione) né ampiamente discussa in Etiopia. Questo approccio limita fortemente la partecipazione di un pubblico vasto al processo e mina la credibilità del suo operato.
In questo momento così critico per il paese, gli Etiopi sono chiamati a scegliere il modello di transizione che meglio risponda al loro contesto e alle varie forme di violenza, esclusione ed oppressione che devono essere corrette per immaginare un nuovo, solido contratto sociale tra la base e le istituzioni. Determinare le priorità dei vari gruppi etnici, le violazioni e forme di esclusione subite da ciascuno, e la narrazione storico-politica adottata da ognuno di loro, è quindi fondamentale. Solo un legittimo processo di giustizia di transizione che sia profondamene rappresentativo può rivelare e analizzare le cause e le conseguenze del conflitto politico, orientando le scelte necessarie per rimediare e creare le basi per uno stato democratico. Un tale processo è spesso doloroso, richiede tempo e risorse e costituisce solo la linea di partenza. La fase successiva – o parallela – implica ulteriori decisioni ugualmente difficili su cosa fare, come e quando. Decisioni circa dare priorità al perseguimento penale dei reati commessi (e in tal contesto quali reati perseguire e quali amnistiare) o favorire politiche sociali e di riparazione e preservazione della memoria, o concentrarsi inizialmente sul risanamento democratico delle istituzioni. Si potrà optare per una combinazione di questi ed altri strumenti al fine di riparare le conseguenze delle violazioni dei diritti umani commesse su larga scala negli ultimi decenni, ristabilire la coesione sociale e rafforzare lo stato di diritto. L’essenziale è che la centralità dell’interesse delle vittime sia rispettata e la loro partecipazione al processo assicurata. I torti subiti devono essere riconosciuti e giustizia deve essere fatta per offrire maggiori garanzie di non ripetizione. Per fare una scelta informata e favorire un dialogo costruttivo, è fondamentale che le capacità della società civile e delle istituzioni siano rafforzate e si avvalgano dell’esperienza acquisita in altri paesi che hanno attraversato sfide simili.
Le dinamiche della transizione etiope dovranno essere tenute in conto per elaborare un modello di giustizia transizionale che massimizzi le opportunità e minimizzi i rischi. La transizione in Etiopia non è il risultato di un completo cambiamento di regime o della fine del totalitarismo nel paese. Non segue una vittoria militare o elettorale. Piuttosto, è un modello ibrido, concepito e diretto da un governo spinto da fattori interni e pressioni internazionali. Forze ostili al cambiamento conservano una discreta influenza all’interno del sistema e hanno la capacità di ostacolare le riforme. In questo contesto, un modello esclusivamente incentrato sulla giustizia penale rischia di essere boicottato dall’interno almeno nell’immediato e per i prossimi anni. Inoltre, una giustizia selettiva che tocca solo alcuni gruppi etnici potrebbe esacerbare i conflitti attuali o alimentarne di nuovi in futuro. Alla luce delle rinnovate tensioni, una persecuzione penale dei rappresentanti Tigrini senza un processo di rivalutazione globale delle radici del conflitto, per esempio, potrebbe risultare disastroso.
I prossimi mesi saranno decisivi per la transizione democratica in Etiopia. La pacificazione del paese presuppone un dialogo sulle cause profonde dei conflitti tra istituzioni e cittadini da un lato, e tra gruppi etnici dall’altro. Sanare le ferite individuali e collettive degli ultimi decenni è la necessaria premessa per affrontare le sfide attuali e per creare le condizioni migliori per delle elezioni veramente libere e credibili.
Per saperne di più
ISPI (2020) Etiopia: sull’orlo del baratro. ISPI Daily Focus. Disponibile su: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/etiopia-sullorlo-del-baratro-28237
UN (2010) Guidance Note of the Secretary-General: United Nations Approach to Transitional Justice. Disponibile su: https://www.un.org/ruleoflaw/files/TJ_Guidance_Note_March_2010FINAL.pdf
Zupi, M. (2020) Il nuovo corso politico in Etiopia e i suoi riflessi sulle dinamiche interne e regionali. Approfondimento a cura del Centro Studi di Politica Internazionale (CeSPI) per l’Osservatorio di Politica Internazionale. Disponibile su: http://www.parlamento.it/application/xmanager/projects/parlamento/file/repository/affariinternazionali/osservatorio/approfondimenti/PI0160.pdf
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