La Rivoluzione culturale è stata uno degli elementi salienti del maoismo e sicuramente l’aspetto che più ha affascinato gli intellettuali europei di sinistra (ma non solo) dell’epoca. Lanciata nel 1966, la Grande rivoluzione culturale proletaria aveva l’obiettivo di eliminare i “borghesi” infiltrati nel Partito e nello Stato. Le Guardie rosse si mobilitarono contro il cosiddetto revisionismo di destra (identificato, tra gli altri, in persone quali Deng Xiaoping) e il revisionismo di sinistra. Mentre il libretto rosso di Mao veniva brandito durante le manifestazioni studentesche del Sessantotto europeo, pensatori quali Jean-Paul Sartre, Samir Amin e Frantz Fanon – tutti vicini al Partito comunista francese e cantori della cosiddetta “contestazione” ai valori occidentali borghesi – guardavano con simpatia, se non con vera e propria ammirazione in alcuni casi, a ciò che ritenevano accadesse in Cina sotto l’egida di Mao.
L’Europa degli anni Sessanta non era soltanto il luogo dove le idee del Grande timoniere venivano discusse nelle università e i suoi slogan gridati nei cortei degli studenti, ma anche il luogo dove il processo di integrazione europea confermava la sua concezione delle relazioni internazionali dell’epoca, ovvero di un mondo diviso in tre: gli Stati Uniti e l’Unione sovietica nel primo mondo, l’Europa nel secondo mondo e la Cina nel terzo. Per Mao, una più stretta collaborazione con gli europei del secondo mondo in funzione anti-egemonica (ovvero contro le due superpotenze) era non solo possibile, ma auspicabile. Fu infatti con Mao ancora vivo (anche se già malato) che Zhou Enlai, allora primo ministro, e Christopher Soames, all’epoca vice presidente della Commissione europea, stabilirono nel maggio del 1975 le relazioni diplomatiche tra la Repubblica popolare cinese e la Comunità europea.
La morte di Mao nel 1976 mise fine alla Rivoluzione culturale, ma non al maoismo. Se da una parte l’uscita di scena di Mao permise al suo successore, Hua Guofeng, di dichiarare conclusa l’esperienza della Rivoluzione culturale, dall’altra il ruolo del Partito comunista e il suo controllo sulla società – le vere eredità di Mao – non furono mai messi in discussione, nemmeno da Deng Xiaoping e dagli altri riformatori succedutisi alla testa del Partito nei decenni seguenti. Il maoismo non solo sopravvive oggi, ma con Xi Jinping sembra godere di una nuova vita.
Maoismo 2.0
Il cinquantenario dell’inizio della Rivoluzione culturale ha riaperto il dibattito sull’eredità del maoismo all’epoca di Xi Jinping. Xu Youyu, filosofo e intellettuale cinese di stampo liberista, ha scritto sulle pagine di Foreign Affairs – l’influente rivista del Council on Foreign Relations – che a livello dell’élite politica, la Cina è ancora sotto l’influenza degli eventi di mezzo secolo fa. Xu ritiene, infatti, che alcuni aspetti della campagna anti-corruzione di Xi Jinping siano molto simili – se non identici – ai metodi utilizzati da Mao durante la Grande rivoluzione culturale (1).
Gli ha fatto eco Suisheng Zhao, professore alla Josef Korbel School of International Studies dell’Università di Denver. In un articolo pubblicato nell’ultimo numero del Journal of Democracy, l’accademico cinese (naturalizzato americano) spiega come ci sia un filo rosso che lega gli eventi di mezzo secolo fa alla politica di Xi Jinping. Per Zhao, il presidente cinese ha lanciato la più grande campagna ideologica che la Cina abbia visto dai tempi di Mao. L’ideologia di Xi Jinping sarebbe un misto di comunismo, nazionalismo e leninismo che ha lo scopo di rafforzare e disciplinare il Partito, mantenerlo al potere, garantire la stabilità interna e costruire il “sogno cinese” di rinascita nazionale. Il risultato è il soffocamento di ogni serio tentativo da parte della società civile cinese di crearsi spazi autonomi dal controllo del Partito, inibendo in tal modo quelle aperture democratiche che, seppur limitate – come le elezioni a livello di villaggio – erano state iniziate dai suoi predecessori negli ultimi anni, sotto la spinta della crescita economica e dell’apertura del paese alle forze della globalizzazione (2) .
Dal libretto rosso al libretto degli assegni
La perdurante vitalità del maoismo in Cina solleva opinioni contrastanti in Europa. Da una parte, il ruolo centrale del Partito comunista cinese e il suo controllo sulla società continuano a essere visti con favore da alcuni settori economici, in particolare le grandi multinazionali che hanno investito massicciamente nel paese negli ultimi decenni, in quanto il regime cinese a partito unico garantisce stabilità, un elemento tradizionalmente ben visto dal mondo degli affari. Inoltre, il progetto di Xi Jinping di nuova Via della seta e la sua capacità di mobilitare le risorse del paese al fine di esportare prodotti e capitali in grande quantità – cosa resa possibile dal ferreo controllo del Partito sulle attività produttive e finanziarie della Cina – rappresenta una grande opportunità per le élite politiche ed economiche dei paesi attraversati da questo grandioso progetto, che sperano di attirare investimenti cinesi sul loro territorio.
Allo stesso tempo, però, il maoismo di ritorno “stile Xi Jinping” sta mettendo in crisi la politica di apertura costruttiva (constructive engagement) che ha caratterizzato l’Occidente – e soprattutto l’Europa – dalla metà degli anni Novanta. Questa politica era basata sulla speranza che la crescita economica e l’incremento degli scambi a tutto campo con il resto del mondo avrebbero via via facilitato l’apertura della Cina e la sua democratizzazione, creando spazi per la nascente società civile. Questo non è avvenuto e a Bruxelles si sta assistendo a un ripensamento della politica da adottare nei confronti di una Cina che in campo politico e riguardo alle libertà, invece di evolvere, appare regredire. Il cambio di marcia si è cominciato a vedere questa estate, con la pubblicazione dell’ultimo documento dell’Ue sulla Cina, dove sono chiaramente indicate le preoccupazioni dell’Europa per la lentezza – se non il vero e proprio arresto – del processo di apertura democratica del paese. Non è ancora un cambio di politica, ma semplicemente un primo avvertimento. Il maoismo di ritorno non favorisce certo le relazioni politiche tra Bruxelles e Pechino, anche se sul piano economico e culturale le opinioni sono più sfaccettate.
I giovani europei di oggi non brandiscono più il libretto rosso di Mao, ma vogliono piuttosto andare in Cina a trovare quelle opportunità che troppo spesso mancano nel vecchio continente. Senza dimenticare che la Cina è ormai diventata un investitore importantissimo per un’Europa che stenta a uscire dalla crisi economica. Nel vecchio continente non si sventola più il libretto rosso, ma il libretto degli assegni.
(1) Xu Youyu, “The Cultural Revolution, Fifty Years Later”, Foreign Affairs, 15 maggio 2016, https://www.foreignaffairs.com/node/1117491.
(2) Suisheng Zhao, “Xi Jinping’s Maoist Revival”, Journal of Democracy 27 (2016) 3: 83-97, http://www.journalofdemocracy.org/sites/default/files/Zhao-27-3.pdf. Vedi anche: Jamil Anderlini, “The Return of Mao: A New Threat to China’s Politics”, Financial Times (supplemento Life & Arts), 1-2 ottobre 2016, pp. 1-2, https://www. ft.com/content/63a5a9b2-85cd-11e6-8897-2359a58ac7a5.
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