La presenza cinese in Africa è in continuo aumento. La Via della Seta marittima – che include le coste orientali dell’Africa – sta portando ulteriori investimenti in un continente dove la Cina è riuscita, nel giro di pochi anni, a diventare il primo partner commerciale della stragrande maggioranza dei paesi. L’interscambio Cina-Africa ha raggiunto, infatti, i 220 miliardi di dollari a fine 2014, superando di gran lunga gli Usa e la Francia, tradizionali investitori nel continente nero. Tali e tanti sono gli interessi cinesi nel continente – dall’energia, alle risorse minerarie, al crescente numero di imprese e lavoratori cinesi – che Pechino sta costruendo la sua prima base militare proprio li, a Gibuti – piccolo paese sulla costa orientale dell’Africa dove sono presenti anche truppe francesi e americane – e da dove si controlla il traffico marittimo verso il canale di Suez.
Durante il sesto forum di cooperazione Cina-Africa (Focac) svoltosi a Johannesburg lo scorso 4-5 dicembre, il presidente cinese Xi Jinping – che ha co-presieduto il forum con il suo omologo sudafricano Jacob Zuma – ha annunciato che la Cina stanzierà un piano di finanziamenti pari a 60 miliardi di dollari, incentrato prevalentemente sui seguenti settori: industrializzazione, modernizzazione agricola, implementazione delle infrastrutture, servizi finanziari, tutela ambientale, sviluppo del commercio e degli investimenti, riduzione della povertà, salute pubblica, scambi culturali, e cooperazione in ambito della sicurezza. Di questi 60 miliardi di dollari, 35 saranno destinati a prestiti agevolati, 5 miliardi a prestiti a zero interessi e 5 miliardi a sostegno delle piccole e medie imprese. È prevista inoltre la creazione di un Fondo per lo sviluppo Cina-Africa con una dotazione iniziale di 5 miliardi di dollari e un Fondo di Cooperazione per l’incremento della capacità produttiva con uno stanziamento di 10 miliardi. Pechino ha già stanziato circa 100 milioni di dollari per l’African Standby Force, i caschi blu africani, e ha promesso maggiori fondi – e truppe – per le operazioni di peacekeeping in Africa.
Il rallentamento dell’economia cinese e il crollo delle borse di Shanghai e Shenzhen iniziato la scorsa estate hanno portato a una diversificazione dei finanziamenti cinesi nei paesi africani. Mentre sono aumentati i prestiti bilaterali e i fondi per i progetti di cooperazione, secondo il Financial Times gli investimenti cinesi greenfield – investimenti diretti in strutture fisiche da parte di società estere – sono calati di oltre il 40%. La Cina rappresenta il 7% degli investimenti greenfield in Africa, per un totale di 6,1 miliardi di dollari, cosa che pone Pechino al settimo posto nella lista dei paesi investitori, mentre l’Europa ha rappresentato più della metà di tutti gli investimenti greenfield in Africa nel 2014, con una stima di 47,6 miliardi di dollari investiti.
Secondo AidData, un think-thank americano, dietro ai prestiti bilaterali cinesi che si riversano sul continente africano, sembrerebbero celarsi aiuti “politici”, dati come ricompensa a quei regimi che – sempre secondo la Ong americana – appoggiano certe risoluzioni proposte dalla Cina alle Nazioni unite o in altri forum multilaterali. Non è da escludere, inoltre, che la decisione di alcuni paesi africani negli ultimi anni di recidere i legami diplomatici con Taiwan sia stata agevolata da promesse di investimenti cinesi in tali paesi. Non bisogna poi dimenticare che le banche cinesi forniscono prestiti a basso tasso d’interesse a quei paesi africani ricchi di petrolio e altre risorse naturali. Prestiti che – al contrario di quelli delle istituzioni finanziarie internazionali e della Ue – non sono vincolati a riforme democratiche e alla difesa dei diritti umani.
L’entità e le modalità della penetrazione cinese in Africa hanno, pertanto, messo in crisi il modello occidentale di aiuti allo sviluppo che prevede condizioni di finanziamento legate alla creazione di un ambiente economico e politico di buona governance, la lotta alla corruzione e la promozione della democrazia e dei diritti umani. L’Europa, soprattutto, ha dovuto confrontarsi nell’ultimo decennio con una politica cinese verso l’Africa che ha permesso ad alcuni regimi di prosperare, proprio quando i rubinetti dei finanziamenti occidentali si stavano prosciugando in mancanza di vere riforme democratiche.
La risposta della Ue
Di fronte all’offensiva cinese, la linea ufficiale europea è stata quella dell’accettazione della concorrenza in quanto quest’ultima – così si dice a Bruxelles – fa bene a tutti, ma in particolare all’Africa. In realtà, la Ue ha dovuto trovare una risposta adeguata a un modus operandi cinese in Africa che spesso viene definito in Occidente, con una qualche semplificazione, come troppo “pragmatico” – se non proprio spregiudicato.
La Ue ha, pertanto, ripensato la sua strategia africana. Il cambiamento, avvenuto durante il secondo vertice Ue-Africa tenutosi a Lisbona nel dicembre 2007, prevede un partenariato da pari a pari e una maggiore cooperazione non solo in campo economico e commerciale, ma anche in quello politico e militare. La nuova strategia Ue per l’Africa cerca di andare oltre gli accordi di Cotonou che costituiscono la base per le relazioni tra l’Ue e i 79 paesi del gruppo Acp. In base a questi accordi, il 99,5 % dei prodotti dei paesi Acp può beneficiare del libero accesso al mercato europeo – cosa che ha spinto l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) a dichiararli illegali e la Ue a creare un nuovo strumento, i cosiddetti Epa.
Insieme alla nuova strategia, la Ue ha aumentato la sua dotazione per l’Africa. Per il periodo 2014-2017, questa strategia è incentrata su cinque ambiti prioritari che sostituiscono gli otto partenariati tematici: i) pace e sicurezza; ii) democrazia, buona governance e diritti umani; iii) sviluppo umano; iv) sviluppo sostenibile e inclusivo, crescita e integrazione continentale; v) questioni globali ed emergenti.
La Ue rimane di gran lunga il più importante donatore per l’Africa. Tutti i paesi africani facenti parte dell’accordo di Cotonou hanno accesso al Fondo europeo di sviluppo (Fes), che ha una dotazione di 31,5 miliardi di euro per il periodo 2014-2020. Per il Sudafrica invece – paese dei Brics e considerato un “emergente” – i fondi Ue provengono dallo strumento di cooperazione allo sviluppo (Dci) che per il periodo 2014-2020 stanzia 845 milioni di euro, fondi che servono anche a sostenere il Programma panafricano (Panaf), istituito per finanziare la strategia congiunta Africa-Ue.
Nonostante questi sforzi, la Ue fatica a tenere il passo con la penetrazione cinese in Africa. Il progetto di nuova Via della Seta proposto dal Presidente cinese Xi Jinping a fine 2013 riverserà ancora più risorse – e prestiti bilaterali – ai paesi africani interessati all’iniziativa. Questo da una parte porterà crescita economica, ma non necessariamente buona governance e stato di diritto. La Via della Seta cinese e il partenariato Ue per l’Africa hanno obiettivi diversi. Cosa che permette ai regimi africani di giocare l’uno contro l’altro.
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