L’evoluzione della postura militare cinese, incluse le revisioni dottrinali che si sono susseguite negli ultimi decenni, è oggetto di attenta osservazione da parte di Washington e dei suoi alleati asiatici. L’Europa, seppur distante e non coinvolta direttamente nel mantenimento della sicurezza in Asia orientale, ha comunque prestato una certa attenzione a tali dinamiche. Già alla fine degli anni Settanta, infatti, un rapporto dell’Unione dell’Europa occidentale (Ueo), aveva messo in luce le implicazioni dell’evoluzione economico-politica e militare della Cina per la sicurezza europea.
Nel giugno del 1978, l’Assemblea della Ueo approvò una risoluzione che raccomandava ai paesi membri di considerare in maniera favorevole le crescenti richieste cinesi di ottenere tecnologie occidentali, anche quelle dual-use e dall’evidente potenziale militare. Questo perché dopo il viaggio di Nixon in Cina nel 1972, la Repubblica popolare era diventata parte della strategia americana di contenimento dell’Unione Sovietica. In un tale contesto, alcuni alleati europei degli Stati Uniti erano stati autorizzati a vendere tecnologia militare alla Cina, cosa che Washington non poteva fare per questioni di politica interna. Durante gli anni Ottanta, a varie delegazioni cinesi in visita in Europa era stato inoltre concesso di visitare fabbriche di armamenti e istallazioni militari della Nato. Il tutto fu reso possibile da due fattori: il beneplacito degli Stati Uniti e l’esistenza di un comune nemico.
In seguito al crollo dell’Unione Sovietica e dopo la repressione degli studenti da parte dell’esercito cinese in piazza Tian’anmen avvenuta nel giugno del 1989, le relazioni militari tra Europa e Cina subirono un congelamento. Il simbolo più forte di questo nuovo corso nelle relazioni sino-europee fu l’adozione dell’embargo sulla vendita di armi – tuttora in vigore. Dal 1989 e fno all’ottobre 2003, quando Bruxelles e Pechino siglarono il partenariato strategico, le relazioni tra le due parti furono soprattutto incentrate sulle questioni economiche e commerciali. Nel 2003 avvenne, però, una svolta dalle importanti ripercussioni internazionali.
Sull’onda del partenariato strategico, i grandi paesi della Ue – con in testa Francia e Germania, ma anche Regno Unito e Italia – decisero di aprire la discussione sul superamento dell’embargo sulla vendita di armi. Con una Cina in profonda trasformazione e un interscambio commerciale Ue-Cina in continua crescita, le leadership europee pensarono fosse giunto il momento di mandare un messaggio politico chiaro a Pechino, eliminando quello che il presidente francese dell’epoca, Jacques Chirac, aveva definito un anacronismo del passato. Nell’autunno del 2003, un’intesa di massima su questo tema fu raggiunta in seno alla Ue-15. Anche i paesi del Nord Europa più sensibili alla questione dei diritti umani e con Parlamenti dove è tradizionalmente forte la lobby proTaiwan – come Svezia e Danimarca – avevano comunque deciso di allinearsi alla maggioranza degli altri paesi, anche per paura di eventuali rappresaglie commerciali da parte di Pechino, nel caso fossero stati additati come coloro che avevano impedito l’avvio di una tale discussione. Nonostante ciò, la forte opposizione degli Stati Uniti3 e dei loro alleati asiatici – in primis il Giappone – insieme all’intervento nel dibattito di alcuni parlamenti nazionali e del Parlamento europeo contrari alla revoca dell’embargo a causa delle continue violazioni dei diritti umani da parte del regime cinese, convinsero nel giugno 2005 un Consiglio europeo a 25 – in seguito all’allargamento della Ue ai paesi dell’Europa centrale e orientale – a sospendere sine die ogni discussione sul punto. Con questa decisione, la Ue metteva fine alle sue aspirazioni di riconoscere politicamente la Cina.
Una ripresa della cooperazione sino-europea negli ambiti militari, di sicurezza e difesa si è avuta solo negli ultimi anni, in seguito alla creazione del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae). Dal 2011 è stato infatti avviato un dialogo annuale tra l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e il ministro della Difesa nazionale cinese. Da notare che la Cina è l’unica tra le grandi potenze con la quale esiste un tale dialogo annuale, il quale permette all’Alto rappresentante Ue di parlare a nome dei 28 paesi membri anche su questioni militari. Nonostante i temi discussi siano alquanto generici, l’Unione trae comunque un buon vantaggio di immagine da questo dialogo, al quale si affianca il dialogo annuale politico-strategico Ue-Cina. Sull’onda di questi dialoghi, la delegazione Ue a Pechino è stata la prima tra tutte le rappresentanze dell’Unione all’estero ad aprire un ufficio dedicato esclusivamente alle questioni sicurezza e difesa e ad avere un attaché militare. A questo ha indubbiamente contribuito la creazione, dal 2012, di un dialogo ad hoc tra il presidente del Comitato militare della Ue – attualmente il generale greco Mikhail Kostarakos – e il suo corrispettivo dell’Esercito popolare di liberazione.
Il dialogo militare tra Ue e Cina trova una sua ragion d’essere anche nei dati relativi ai rispettivi bilanci della difesa. La spesa militare totale dei paesi Ue è seconda solo a quella del Pentagono e ammontava nel 2014, secondo i dati Sipri, a 278 miliardi di dollari (equivalente all’1,5% del Pil europeo). Ovviamente questi dati celano profonde differenze tra i paesi membri, che impediscono all’Unione di diventare una efettiva potenza militare. Eppure, non può non colpire come il bilancio della difesa cinese, che a fine 2014 ammontava a 216 miliardi di dollari (sempre secondo il Sipri, mentre le cifre ufficiali del governo indicano una somma totale di 131 miliardi di dollari, equivalente all’1,2% del Pil cinese) resti inferiore al dato aggregato della Ue. Questi dati ci permettono di concludere che la Ue sarebbe in grado di dialogare – e cooperare – con Pechino su un piano di vera parità, se solo i paesi membri trovassero la necessaria volontà politica e coesione interna. In mancanza di ciò – e nonostante i vari dialoghi sopra elencati – la Ue continua a essere percepita a Pechino come una grande potenza economica, ma un nano politico e militare.
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