La Repubblica di Cina, meglio nota come Taiwan, rappresenta oggi una delle più solide e vibranti realtà democratiche dell’Estremo Oriente. Questa giovane repubblica semi-presidenziale, nata da uno dei regimi autoritari più opprimenti della seconda metà del Novecento, è riuscita a trasformarsi in una liberal-democrazia grazie a una veloce transizione democratica, sospinta da una crescente pressione sociale e governata dal partito dominante del precedente regime, divenuto poi parte integrante del nuovo sistema politico dell’isola. In questo articolo viene presentata una breve ricostruzione dello sviluppo del sistema politico di Taiwan, delle sue principali dimensioni di conflitto e dell’evoluzione del suo sistema di partito durante e dopo la transizione democratica, maturata con le elezioni presidenziali del 1996.
Negli ultimi decenni, Taiwan ha rappresentato per le scienze sociali un caso in grado di suscitare estremo interesse. A partire dagli anni Cinquanta, fiumi d’inchiostro sono stati dedicati alle dinamiche che hanno caratterizzato i rapporti tra la Repubblica di Cina (Taiwan), la Repubblica popolare cinese e gli Stati Uniti d’America, argomenti che continuano a rimanere dei temi chiave per comprendere la geopolitica e le relazioni internazionali del quadrante Asia-Pacifico e, indirettamente, del globo. All’interesse di internazionalisti e studiosi di geopolitica, negli anni Sessanta si è aggiunto poi quello di economisti e sociologi impegnati a capire come questa piccola isola verdeggiante fosse diventata nell’arco di pochi decenni una delle cosiddette “Quattro tigri asiatiche”[1], vivendo un miracolo economico in grado di trasformare un paese povero e prevalentemente agricolo in un paese industrializzato, tecnologicamente avanzato e abbiente[2] — si pensi che il tasso di crescita medio del Prodotto interno lordo taiwanese tra il 1950 e il 1990 è stato dell’8,9%. Infine, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, con il completamento del processo di democratizzazione del paese, iniziato a metà degli anni Ottanta e maturato del tutto con le prime elezioni presidenziali a suffragio universale del 1996, agli studi citati poco sopra si è poi aggiunto un numero crescente di analisi dedicate specificatamente al sistema politico taiwanese, in ottica comparata e non.
I motivi che hanno spinto negli ultimi anni un numero sempre maggiore di scienziati sociali a indagare le dinamiche politiche dell’isola sono molteplici. Prima di tutto, Taiwan rappresenta una giovane democrazia, nata sul finire della cosiddetta “terza ondata di democratizzazione”[3]. Un paese che ha vissuto una effettiva e progressiva transizione democratica caratterizzata, da una parte, da una crescente richiesta di maggiori libertà e diritti politici da parte della popolazione taiwanese[4] e, dall’altra, da un percorso di riforma guidato dallo stesso partito che aveva dominato il paese fino a quel momento[5] — unico caso tra i regimi nati durante la terza ondata di democratizzazione iniziata nel 1974[6]. In seconda battuta, Taiwan rappresenta una democrazia orientale e la prima democrazia “cinese” della storia contemporanea[7], caratteristiche che hanno ispirato numerosi studi dedicati alle possibili implicazioni derivanti dallo specifico retroterra culturale del paese per lo sviluppo e la stabilità del proprio regime democratico, solitamente analizzate in studi comparati dedicati al rapporto tra confucianesimo, sviluppo socioeconomico e democrazia in Estremo Oriente[8]. Tuttavia, Taiwan rappresenta un caso di notevole interesse anche da un punto di vista prettamente politologico, per la peculiarità delle sue dinamiche elettorali e come queste, insieme agli incentivi determinati dal sistema istituzionale, abbiano contribuito a plasmare il sistema di partito dell’isola nell’ultimo quarto di secolo.
Le origini del sistema partitico taiwanese: la transizione democratica e il “fattore Cina”
Il sistema di partito taiwanese nasce dall’intersezione di vari processi che hanno ben poco di comparabile con quanto avvenuto in Occidente, ma che differiscono profondamente anche da quanto avvenuto in altri paesi dell’Estremo Oriente[9]. Infatti, tra i vari fenomeni che hanno contribuito ad articolare il sistema partitico dell’isola se ne possono identificare due di fondamentale importanza: la transizione democratica e i rapporti storici tra il governo di Taipei e quello di Pechino.
Com’è noto, nei primi decenni della Repubblica di Cina il sistema politico è stato dominato dal Partito nazionalista cinese (Zhōngguó guómíndǎng, 中國國民黨, solitamente traslitterato Kuomintang e abbreviato KMT) guidato da Chiang Kai-shek, che, dopo la sconfitta subita sul continente contro i comunisti di Mao Zedong, si ritirò sull’isola nel 1949, instaurando un regime autoritario tra i più oppressivi della seconda metà del Novecento[10]. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, con la morte di Chiang Kai-shek e la salita al potere del figlio, Chiang Ching-kuo, il sistema politico taiwanese ha vissuto un’epoca di progressive aperture, generate dalle crescenti pressioni provenienti principalmente dalla maggioranza etnica del paese, ossia gli hokkienesi (fúlǎo, 福佬) o hoklo[11], divenuta negli anni del miracolo economico taiwanese sempre più benestante, istruita ed esigente nei confronti di un sistema in mano alla minoranza etnica dei mainlander (wàishěngrén, 外省人), ossia, coloro i quali erano arrivati sull’isola con la ritirata delle forze nazionaliste cinesi nel 1949. Le (altalenanti) aperture del regime hanno, così, consentito la formazione e aggregazione delle prime forze di opposizione sotto il nome di Tangwai (dǎngwài, 黨外, letteralmente “fuori dal partito”), un gruppo ideologicamente — e in parte anche etnicamente — eterogeneo il cui minimo comun denominatore consisteva nella richiesta di una effettiva democratizzazione del sistema politico. Tuttavia, è solo nel 1986, a un anno dalla formale abolizione della legge marziale, che le opposizioni politiche taiwanesi diedero origine al Partito democratico progressista (mínzhǔ jìnbù dǎng, 民主進步黨, solitamente abbreviato Minjintang e DPP, dall’inglese Democratic Progressive Party), una formazione che da lì in pochi anni sarebbe diventata uno dei due assi portanti del sistema partitico taiwanese proponendosi agli elettori come rappresentante delle richieste di riforma del sistema politico. Il processo di transizione democratica e il posizionamento del DPP, tra la seconda metà degli anni Ottanta e la prima metà dei Novanta, hanno quindi fatto sì che il confronto politico dell’isola fosse in larga parte determinato dal tema delle riforme democratiche e della stabilità politica, con il DPP schierato su posizioni “riformatrici” o “pro-riforme” e il KMT schierato su posizioni “conservatrici” o “pro-stabilità”[12].
Tuttavia, nonostante l’asse di confronto “riforme-stabilità” abbia consentito al sistema partitico taiwanese di articolarsi in un primo momento, il progressivo consolidamento della transizione democratica ha fatto sì che il tema delle riforme perdesse velocemente rilevanza e che emergessero nuovi assi di confronto tra le parti in campo[13]. Questo processo ha così determinato l’affermazione della seconda dimensione di confronto menzionata poco sopra, ossia quella basata sul “fattore Cina”, rappresentabile sotto forma di un asse che vede a un estremo il perseguimento di un’indipendenza formale di Taiwan dalla Cina popolare — e la richiesta di riconoscimento formale del governo dell’isola da parte delle istituzioni del sistema internazionale — e all’altro il perseguimento di un’unificazione politica tra il governo di Taipei e quello di Pechino. Agli inizi degli anni Novanta il Kuomintang, il Minjintang e le coalizioni ad essi collegate[14] — la coalizione “Pan-blu” guidata dal KMT e quella “Pan-verde” dominata dal DPP — si erano confrontati a partire da posizioni estreme, con un KMT esplicitamente pro-unificazione e un DPP smaccatamente pro-indipendenza. Tuttavia, nell’arco di un decennio, a fronte di una stragrande maggioranza degli elettori fortemente “centrista”[15], i partiti hanno progressivamente assunto posizioni più moderate, mantenendo differenze identificabili da parte degli elettori[16]. Raggiungendo, di fatto, un accordo implicito sulla natura del rapporto tra Taiwan e Cina popolare[17], oggi il confronto tra le due formazioni politiche riguarda il grado di cooperazione tra le due sponde dello stretto, un confronto che risente, come spiegato nel prossimo paragrafo, sempre più delle dinamiche politiche contingenti generate dal rapporto tra i due Stati e dalla politicizzazione di queste da parte dei partiti in campo.
La frattura politica che attraversa Taiwan
Il fatto che il sistema partitico e lo scontro politico dell’isola si siano ancorati e articolati intorno a questa dimensione deriva da diverse questioni, sovrapposte l’una all’altra, in parte persistenti e in parte evolutesi nel tempo, distinguibili a livello analitico ma fortemente connesse l’una all’altra. Banalmente, è evidente come la centralità dell’asse “unificazione-indipendenza” sia una conseguenza del peculiare rapporto tra Taiwan e la Cina popolare. Per quanto Taiwan abbia mantenuto una condizione di sovranità de facto, è chiaro che l’esistenza di un gigante come la Cina popolare a poche centinaia di chilometri dalle coste dell’isola, apertamente ostile a prospettive di indipendenza, intenzionato ad ottenere — forse anche con la forza — l’unificazione politica tra i due governi, rappresenti di per sé un elemento in grado di definire l’agenda politica di un’isola di 23 milioni di abitanti circa — peraltro legata a doppio filo al continente da un punto di vista economico e finanziario.
A questo fattore di carattere internazionale, tuttavia, si uniscono altri fattori interni di carattere sociodemografico e politico. Per quanto riguarda i primi, la crescente rilevanza dell’asse in questione deriva dal fatto che esso si fonda su due fratture sociali fondamentali in parte legate l’una all’altra: quella già menzionata di natura etnica, in particolare basata sulla frattura hokkienesi-mainlander e quella più prettamente legata all’identità nazionale dei cittadini taiwanesi. La prima frattura, quella etnica, si può riassumere nel fatto che gli individui arrivati sull’isola nel 1949 al seguito delle forze nazionaliste si sono sempre mostrati più favorevoli a un’unificazione politica tra le due entità statali rispetto alla maggioranza degli hokkienesi — una posizione che, come mostra la figura qui in basso (Fig. 2), continua a caratterizzare questa minoranza, fatta eccezione per il dato del 2020.
In aggiunta alla frattura etnica, poi, va considerata la questione più schiettamente legata all’identità nazionale. Col tempo, grazie alla combinazione di processi sociali di commistione e integrazione dei gruppi etnici taiwanesi nei vari settori della società[18], al ricambio generazionale e al processo di transizione democratica che ha posto Taiwan lungo una linea di sviluppo politico qualitativamente diversa rispetto a quella del regime di Pechino, sempre più taiwanesi hanno abbandonato l’idea di appartenere ad un’unica nazione cinese, imbracciando quella di rappresentare una nazionalità distinta o, al massimo, di essere detentori di una doppia identità nazionale — una situazione raffigurata dal grafico più in basso (Fig. 3).
A questi fattori interni di carattere sociodemografico, come menzionato in precedenza, vanno poi aggiunti fattori prettamente politici. Difatti, come dimostrato da uno studio recente dedicato all’evoluzione dell’identità degli elettori taiwanesi[19], la questione etnica e quella legata all’identità nazionale hanno progressivamente perso la loro importanza, a favore invece di un legame sempre più stretto dell’asse “unificazione-indipendenza” con le simpatie o fedeltà partitiche dei taiwanesi. In altre parole, l’asse “unificazione-indipendenza” è stato sempre più influenzato —a livello di rilevanza e contenuti— da logiche “partigiane”, ossia legate, da un lato, alle strategie politico-elettorali dei partiti e, dall’altro, a valutazioni degli elettori non necessariamente in linea con le fratture sociodemografiche a cui si è accennato nelle righe precedenti. Proprio per questa intricata commistione di fattori politici — internazionali e nazionali — e fattori sociodemografici, il caso taiwanese è stato definito un caso di studio comparabile col caso israeliano[20], ossia un caso ideale per indagare le dinamiche di un sistema politico fondato principalmente su una persistente — per quanto mutevole — frattura politica[21] in cui le varie componenti si rinforzano l’un l’altra.
A conclusione di questa sezione, va tuttavia sottolineato che per quanto il sistema politico e partitico taiwanese si siano articolati intorno a questa frattura, essa non ha rappresentato e non rappresenta l’unico asse di scontro della politica taiwanese. Ad esempio, nei primi anni Novanta, il problema della corruzione e dei legami tra criminalità organizzata e politica — com’è facile immaginare, particolarmente problematici per l’ex dominus del sistema politico taiwanese, ossia il Kuomintang — ha rappresentato una questione d’importanza tale da generare scissioni[22] e scontri politici che avrebbero potuto incidere sostanzialmente sull’evoluzione del sistema politico taiwanese. Solo l’azione decisa dei governi e più in generale delle élite politiche taiwanesi, in aggiunta a fattori più strettamente legati agli incentivi del sistema istituzionale ed elettorale, ha fatto sì che queste problematiche venissero marginalizzate e che il sistema politico taiwanese rimanesse sostanzialmente dominato dal Partito nazionalista e dal Partito progressista.
Le cause istituzionali del “bipartitismo imperfetto” taiwanese
Le ragioni per cui il sistema di partito di Taiwan, dopo la transizione democratica, sia rimasto guidato da due partiti, senza sfociare in un sistema a partito dominante o in un sistema altamente frammentato, deriva in parte dai fattori menzionati nelle righe precedenti. L’articolazione del confronto politico intorno a un unico asse e la capacità delle leadership del Kuomintang e del Minjintang di posizionarsi su questa frattura, andare incontro alle posizioni della maggioranza degli elettori taiwanesi e offrire alternative di governo credibili hanno giocato un ruolo fondamentale nel definire il sistema partitico taiwanese. Tuttavia, è altrettanto evidente che il “bipartitismo imperfetto” taiwanese — ossia, un sistema partitico di fatto dominato da due partiti politici e caratterizzato da terze forze di piccole o insignificanti dimensioni — sia anche il frutto del sistema istituzionale e, nello specifico, delle istituzioni elettorali del paese.
Taiwan è una repubblica semi-presidenziale. Il potere esecutivo è suddiviso tra il Presidente della repubblica e il Premier, con il primo in una posizione di netta preminenza sul secondo[23]. Il potere legislativo è in mano a un’unica assemblea, ossia lo Yuan legislativo. L’architettura costituzionale poi si articola in altri rami e organi, in parte differenti rispetto ai sistemi costituzionali occidentali. L’arena elettorale principale è chiaramente quella per la Presidenza della repubblica, per cui vige un sistema plurality, ossia un sistema a turno unico dove risulta eletto il candidato con il maggior numero di voti. Le elezioni per lo Yuan legislativo sono state regolate fino al 2005 da un sistema voto singolo non trasferibile (VSNT)[24] e negli anni successivi da un sistema misto maggioritario-proporzionale che ha di fatto spezzato le elezioni legislative in due arene scollegate: una prima arena regolata da un sistema maggioritario plurality — risulta eletto il candidato con la maggioranza relativa dei voti validi, ossia con il maggior numero di voti — basato su 73 collegi uninominali, e una seconda arena proporzionale regolata da un sistema a voto di lista, basato su un unico collegio nazionale, con soglia di sbarramento al 5%, in cui la ripartizione dei voti viene definita sulla base del sistema dei resti più alti — anche conosciuto come metodo Hare.
La somma di questi fattori ha di fatto garantito al sistema di partito taiwanese di rimanere un sistema bipartitico. Prima di tutto, numerosi studi comparativi hanno dimostrato come l’esistenza di un’arena presidenziale —per di più concomitante con le elezioni legislative e caratterizzata da un numero limitato di candidati— tenda a produrre un duplice effetto. Il primo sui partiti, coordinando l’azione politica tra i candidati presidenti e i propri partiti di riferimento nei collegi elettorali. Il secondo sugli elettori, concentrando i voti sui partiti che esprimono i candidati presidenti, diminuendo quindi il numero di partiti elettoralmente competitivi e, di conseguenza, il numero delle formazioni all’interno delle assemblee legislative[25]. In seconda battuta, la riforma elettorale del 2005 ha ulteriormente contribuito a mantenere il numero di partiti limitato, per i noti effetti riduttivi delle leggi elettorali maggioritarie sul numero di partiti a livello elettorale e all’interno delle istituzioni[26]. Questi due fattori, sommati a quelli menzionati all’inizio del paragrafo, spiegano l’andamento dei due indici presentati nella figura in basso (Fig. 4), ossia l’indice sul numero effettivo di partiti elettorali (ENEP) e l’indice riguardante il numero di partiti parlamentari (ENPP).
Com’è possibile notare dal grafico proposto, la riforma del 2005 ha avuto un effetto riduttivo su entrambi gli indici, effetto tra l’altro determinato dalla riduzione dei seggi in palio da 225 (pre-2005) a 113 (post-2004) e dalla concomitanza tra elezioni presidenziali e legislative — prima della riforma del 2005 le elezioni legislative si tenevano ogni tre anni, mentre quelle presidenziali ogni quattro. Tuttavia, va sottolineato come l’arena proporzionale — che nel nuovo sistema assegna solamente 34 seggi sul totale di 113 — abbia consentito progressivamente agli elettori taiwanesi di esplorare alternative al sistema bipartitico taiwanese, al di là delle dinamiche elettorali a livello presidenziale, determinate dallo scontro DPP-KMT[27].
Scenari futuri per il sistema politico taiwanese
Per quanto la politica sia il regno del possibile, le prospettive di sviluppo per il sistema politico taiwanese e del suo sistema di partito possono considerarsi in parte segnate dalle caratteristiche presentate brevemente nelle pagine precedenti. Per quanto nelle ultime elezioni del gennaio 2020 nuovi soggetti politici si siano affacciati sulla scena, ottenendo percentuali importanti di voti nelle arene elettorali secondarie —ossia, nell’arena proporzionale per le elezioni dello Yuan legislativo— il sistema partitico del paese è rimasto sostanzialmente solido. In parte, come spiegato nel paragrafo precedente, questo risultato è stato il prodotto di un sistema istituzionale ed elettorale che ha scoraggiato l’ingresso di terze forze in grado di scalfire il duopolio KMT-DPP, e, ad oggi, nessuno dei due partiti sembra intenzionato a voler modificare questo sistema. In parte, il “bipartitismo imperfetto” taiwanese deve la sua esistenza alla persistente rilevanza di un’unica frattura politica che probabilmente continuerà a determinare l’andamento delle elezioni, vista la rilevanza oggettiva, quasi esistenziale, del rapporto tra Taiwan e la Cina popolare. Tuttavia, questo non vuol dire che il sistema politico e partitico taiwanese per come li conosciamo oggi siano da considerarsi al riparo da cambiamenti, anche radicali. Da una parte, la “variabile Cina” potrebbe smuovere il confronto politico verso scenari non ancora del tutto prevedibili. Dall’altra parte, il progressivo disancoramento della questione “unificazione-indipendenza” da variabili di carattere prettamente sociodemografico — leggasi “etnia” e “identità nazionale” —, un crescente consenso interno sia a livello partitico che a livello sociale su queste questioni identitarie, e quindi la crescente dipendenza di questa dimensione di confronto politico dalle strategie politiche dei partiti, potrebbe in qualche modo offrire ad altre forze la possibilità di inserirsi all’interno del gioco a due che oggi domina la politica taiwanese.
[1] Conosciute anche come i “Quattro dragoni asiatici” (yàzhōu sì xiǎolóng, 亞洲四小龍) o i “Quattro piccoli dragoni” (sì xiǎolóng, 四小龍), soprattutto in paesi a maggioranza linguistica cinese.
[2] Per una ricostruzione dello sviluppo socioeconomico di Taiwan si vedano: Shirley W.Y. Kuo et al., The Taiwan success story: rapid growth with improved distribution in the Republic of China, 1952-1979 (Boulder: Westview Press, 1981); Peter Chen-main Wang, “A Bastion Created, A Regime Reformed, An Economy Reengineered, 1949-1970”, e Murray A. Rubinstein, “Taiwan’s Socioeconomic Modernization”, in Taiwan: A New History, a cura di Murray A. Rubinstein (Armonk.: M. E. Sharpe, 1999).
[3] Samuel P. Huntington, “Democracy’s third wave”, Journal of Democracy 2 (1991) 2: 12-34.
[4] Tra gli altri: ibid., 25; Denny Roy, Taiwan. A political history (New York: Cornell University Press, 2003), 152-182.
[5] Steven J. Hood, The Kuomintang and the democratization of Taiwan (Boulder: Westview Press, 1997).
[6] Yun-han Chu e Larry Diamond, “Taiwan’s 1998 Elections: implications for democratic consolidation”, Asian Survey 39 (1999) 5: 808.
[7] Linda Chao e Ramon Myers, The first Chinese democracy: political life in the Republic of China on Taiwan (Baltimore: John Hopkins Press, 1998).
[8] La discussione è parzialmente riconducibile al dibattito sui cosiddetti “valori asiatici”, la cui origine viene spesso ricondotta all’intervista di Fareed Zakaria al fondatore della Singapore moderna, Lee Kuan Yew, del 1994, nella quale tuttavia riferimenti alla dottrina morale confuciana vengono per lo più lasciati all’intervistatore. A partire dagli anni Novanta sono stati poi sviluppati studi dedicati in maniera più specifica al rapporto tra sviluppo socioeconomico, dottrina confuciana e democrazia. Sul dibattito sui “valori asiatici” si vedano: Fareed Zakaria, “Culture is destiny – A conversation with Lee Kuan Yew”, Foreign Affairs 73 (1994) 2: 109-126; Leigh Jenco, “Revisiting Asian values”, Journal of the History of Ideas 74 (2013) 2: 237-258. Per studi dedicati al rapporto tra sviluppo socioeconomico, dottrina morale confuciana e democrazia si vedano tra gli altri: Russell J. Dalton e Doh Chull Shin (a cura di), Citizens, democracy, and markets around the Pacific Rim (New York: Oxford University Press, 2006); Doh Chull Shin, Confucianism and democratization in East Asia (New York: Cambridge University Press, 2012); John Fuh-sheng Hsieh (a cura di), Confucian culture and democracy (Singapore: World Scientific, 2015); Tianjian Shi, The cultural logic of politics in Mainland China and Taiwan (New York: Cambridge University Press, 2015).
[9] In uno studio dedicato a indagare l’impatto dei quattro cleavage considerati all’origine dei sistemi di partito occidentali — centro-periferia, Stato-Chiesa, urbano-rurale e capitale-lavoro —, Ian McAllister ha infatti mostrato come ancor più rispetto al resto dei sistemi di partito asiatici, nessuna di queste fratture sia applicabile al sistema politico di Taiwan. Sulle fratture menzionate poco sopra, si veda il classico Seymour Martin Lipset e Stein Rokkan, “Cleavage Structures, Party Systems, and Voter Alignments: An Introduction.”, in Party Systems and Voter Alignments: Cross-National Perspectives, a cura di Seymour Martin Lipset e Stein Rokkan (New York: Free Press, 1967). Per quanto riguarda lo studio sull’applicabilità della teoria di Lipset e Rokkan ai sistemi politici asiatici precedentemente citato si veda Ian McAllister, “Social Structure and Party Support in the East Asian Democracies”, Journal of East Asian Studies 7 (2007) 2: 225-249.
[10] Denny Roy, Taiwan. A Political History (New York: Cornell University Press, 2003), 152.
[11] L’etnia hokkienese consiste nel gruppo etnico più numeroso dell’isola, pari all’incirca al 70% della popolazione taiwanese, ed è composto da individui i cui antenati migrarono sull’isola tra il XIV e il XVII secolo, prevalentemente dalla Provincia cinese del Fujian.
[12] Shing-yuan Sheng e Hsiao-chuan Liao, “Issues, Political Cleavages, and Party Competition in Taiwan”, in The Taiwan Voter, a cura di Christopher H. Achen e T. Y. Wang (Ann Arbor: University of Michigan Press, 2017).
[13] Un’esigenza, per ovvie ragioni, particolarmente rilevante per il DPP, che una volta consolidato il processo di transizione democratica, nella prima metà degli anni Novanta, si era trovato nella condizione di dover trovare nuove tematiche sulle quali fondare la propria ragion d’essere, essendo rimasto all’opposizione. Sull’argomento si vedano: Shing-yuan Sheng e Hsiao-chuan Liao, “Issues, Political Cleavages, and Party Competition in Taiwan”, in The Taiwan Voter, a cura di Christopher H. Achen e T. Y. Wang (Ann Arbor: University of Michigan Press, 2017), 98; Dafydd Fell, Party politics in Taiwan: Party change and the democratic evolution of Taiwan, 1991–2004 (New York: Routledge, 2005).
[14] Per “coalizioni” si intendono forme di collaborazione più o meno articolate tra alcuni partiti politici, non alleanze stabili e strutturali tra formazioni, come nel caso italiano durante la seconda metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila.
[15] L’uso del termine “centrista” non è, evidentemente, paragonabile all’uso del termine nel dibattito politico italiano o, più in generale, nel dibattito europeo. D’altronde, come dimostrato da alcuni studi menzionati in precedenza, si ricordi che nel caso taiwanese le classiche fratture politiche occidentali e l’asse “sinistra-destra” si sono rivelate pressoché inutili nello spiegare, da una parte, il posizionamento politico dei taiwanesi e, dall’altra, il posizionamento dei partiti politici dell’isola. Sull’argomento si veda ad esempio Russell J. Dalton e Aiji Tanaka, “The patterns of party polarization in East Asia”, Journal of East Asian Studies 7 (2007) 2: 203-223.
[16] Dafydd Fell, Taiwan. A political history (New York: Cornell University Press, 2003), 1-5.
[17] Ossia, l’inesistenza di condizioni tali, al momento, da poter perseguire un’unificazione politica con o un’indipendenza formale dalla Cina popolare, e la necessità di mantenere un rapporto pacifico con il governo di Pechino.
[18] Denny Roy, Taiwan. A political history (New York: Cornell University Press, 2003), 162.
[19] Si veda T. Y. Wang, “Changing Boundaries: The Development of the Taiwan Voters’ Identity”, in The Taiwan Voter, a cura di Christopher H. Achen e T. Y. Wang (Ann Arbor: University of Michigan Press, 2017).
[20] Christopher H. Achen e T. Y. Wang, “The Taiwan Voter: An Introduction”, in The Taiwan Voter, a cura di Christopher H. Achen e T. Y. Wang (Ann Arbor: University of Michigan Press, 2017).
[21] Stefano Bartolini, “La formation des clivages”, Revue Internationale De Politique Comparée 12 (2005) 1: 9-34.
[22] John Fuh-sheng Hsieh e Emerson M. S. Niou, “Salient issues in Taiwan’s electoral politics”, Electoral Studies 15 (1996) 2: 219-235
[23] Il Presidente della repubblica nomina il Premier, che non ha alcun vincolo di fiducia con altri organi costituzionali della repubblica. Per una spiegazione sintetica del sistema di governo taiwanese si veda lo schema disponibile all’Url https://www.taiwan.gov.tw/content_4.php.
[24] Sistema che permette all’elettore di esprimere un solo voto per un candidato, all’interno di un collegio plurinominale in cui risultano eletti i candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti.
[25] Sugli effetti dell’arena presidenziale sul sistema partitico, a livello elettorale e in termini di seggi a livello legislativo, si vedano: William Roberts Clark e Matt Golder, “Rehabilitating Duverger’s theory: testing the mechanical and strategic modifying effects of electoral laws”, Comparative Political Studies 29 (2006) 6: 679-708; Matt Golder, “Presidential coattails and legislative fragmentation”, American Journal of Political Science 50 (2006) 1: 34-48; Allen Hicken e Heather Stoll, “Presidents and parties: how presidential elections shape coordination in legislative elections”, Comparative Political Studies 44 (2011) 7: 854–883.
[26] Il riferimento è alle famose “leggi” proposte dal politologo francese Maurice Duverger, che in estrema sintesi teorizzano che un sistema di tipo maggioritario, basato su collegi uninominali, tende a favorire un sistema bipartitico, mentre altri sistemi, in particolare proporzionali, tendono a favorire il multipartitismo. Tra le varie repliche alla tesi di Duverger, Giovanni Sartori ha poi proposto una modifica a questa teoria, sostenendo che l’esistente struttura del sistema partitico — ossia, il numero di partiti esistenti nel sistema politico prima di una determinata elezione — influenza l’effetto del sistema elettorale sul numero dei partiti. Riferimenti bibliografici: Maurice Duverger, Political parties: their organization and activity in the modern state (New York: John Wiley, 1963); Giovanni Sartori, Comparative constitutional engineering: an inquiry into structures, incentives and outcomes (New York: New York University Press, 1994). Per una rivisitazione della teoria di Duverger si veda il lavoro di William Roberts Clark e Matt Golder citato nella nota precedente.
[27]A partire dal 2004, nelle elezioni con più di due candidati — quelle del 2012, 2016 e 2020 —, i candidati con più voti, ossia i candidati del KMT e del DPP, hanno sempre raccolto, sommati, il 90% dei consensi.
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