[facciaAfaccia] Gli orizzonti della politica estera italiana in Asia orientale

“Intendiamo consolidare il momento molto positivo della nostra relazione con Pechino, contribuendo al contempo a rafforzare quella tra Cina e Ue”. E’ un doppio impegno quello che esprime in questa intervista il ministro Andrea Perugini, Vicedirettore per l’Asia e l’Oceania presso la Direzione generale per la Mondializzazione e le questioni globali.

 

Nella rimodulazione della struttura del nostro Ministero degli Esteri l’Asia (e la Cina) sono state collocate sotto la Direzione “Mondializzazione”. Ciò significa che i nostri rapporti con la regione avranno soprattutto un focus economico?

La riforma del Ministero degli Esteri vuole favorire la nostra capacità di interpretare gli orientamenti della politica estera italiana filtrandoli attraverso alcune marco-aree tematiche, che permettono di meglio contestualizzare le prospettive strategiche delle diverse regioni del mondo. Facciamoci una semplice domanda, ad esempio: che cosa sarebbe la globalizzazione oggi senza l’ascesa dell’Asia-Pacifico? E quanto conterebbe il G20 se non comprendesse i 6 membri che provengono da questa regione (Australia, Cina, Corea del Sud, Giappone, India e Indonesia)?

È vero che la dimensione economica è particolarmente importante; essa, però, non esaurisce l’analisi, ma è il punto di partenza per cogliere la proiezione globale dell’Asia-Pacifico e della Cina in particolare, con importanti ripercussioni in campo politico e di sicurezza. Basti pensare alla necessità di comprendere la politica estera cinese verso l’Africa e l’America Latina, o, ancor prima, all’urgenza di lavorare per creare condizioni che consentano a Pechino, oggi la seconda economia al mondo, di partecipare in modo più approfondito alla governance globale.

La Direzione Generale per la Mondializzazione rappresenta in questo senso la presa d’atto che non è più sufficiente osservare i singoli paesi senza raccordarne le peculiarità geografiche, sociopolitiche ed economiche nazionali con la dimensione globale. La maggiore o minore stabilità di un’area ha necessariamente ripercussioni sulle altre. Mi viene in mente un articolato documento di policy che ho appena finito di leggere sui recenti accadimenti in Tunisia ed Egitto: è stato predisposto dal governo australiano, e mi pare costituisca in sé la più chiara testimonianza del livello di interconnessione che ha raggiunto il nostro mondo.

 

Sta riflettendo l’Italia sul proprio ruolo nel G20 e sull’opportunità o meno di armonizzare la propria politica estera verso la Cina con quella dei partner europei, per accrescere il proprio potenziale negoziale?

La Cina è ormai da tempo un paese imprescindibile per la stabilità del sistema internazionale. Questo vale per i flussi commerciali, gli equilibri della finanza transnazionale, la dinamica dei prezzi delle materie prime, la sicurezza energetica e le problematiche ambientali. L’Italia riconosce questa realtà e da tempo è, quindi, impegnata a favorire il riequilibrio dei pesi ponderati dei paesi emergenti negli organismi decisionali delle principali istituzioni internazionali.

Non bisogna però trascurare la dimensione regionale. L’Asia- Pacifico è l’area del mondo dove si registra la maggiore proliferazione di formule associative internazionali di portata regionale, sempre più capaci di interpellare anche attori extra-regionali come gli Stati Uniti, che hanno di recente ottenuto (insieme con la Russia) di essere ammessi all’East Asia Summit (Eas). L’Unione Europea sta aggiornando la sua riflessione sulle politiche da attuare nei confronti di queste associazioni, la cui evoluzione futura è difficile da prevedere. Ad oggi non è chiaro, ad esempio, che relazioni potranno intercorrere tra l’Eas, da un lato, e l’Asean Regional Forum (Arf) e l’Asem, dall’altro; lo scenario è in rapida evoluzione.

L’accrescimento del nostro potenziale negoziale con la Rpc passa, a mio avviso, per un rafforzamento non solo delle relazioni bilaterali Italia-Cina, ma anche di quelle Cina-Unione Europea. Il dialogo tra Pechino e Bruxelles deve essere rilanciato e riequilibrato, non solo intorno ai temi-cardine delle relazioni economiche e commerciali, ma anche della governance globale, dei cambiamenti climatici, dei diritti umani e delle libertà di espressione. Credo che l’Italia possa dare un contributo significativo affinché l’Unione Europea e la Cina collaborino in modo più proficuo alla governance globale.

Sul piano dei nostri rapporti bilaterali, dopo le visite istituzionali di alto livello del 2010, noi come Farnesina intendiamo consolidare il momento molto positivo della nostra relazione con Pechino rilanciando il Comitato Intergovernativo Italia-Cina presieduto dai due Ministri degli Esteri, in modo da poter contare su un forum sempre più strutturato e onnicomprensivo in cui discutere con una certa costanza dei principali temi dell’agenda bilaterale oltre che di quella globale.

 

A suo giudizio, quali sono i principali punti di forza dell’Italia nelle relazioni bilaterali con la Cina, e quali invece quelli di maggior debolezza?

In termini di prospettive, tra i punti di forza segnalo senz’altro il partenariato strategico siglato nel 2004 e l’esistenza appunto del Comitato Intergovernativo bilaterale, che ci offre uno spazio di confronto che è importante valorizzare. C’è poi il bagaglio storico, di cui i cinesi sono sempre molto avvertiti: l’Italia giocò un ruolo non secondario nel superamento della fase acuta di isolamento internazionale che Pechino patì dopo gli eventi di Tienanmen. La Cina vede l’Italia come un interlocutore privilegiato, buon punto di raccordo tra paesi sviluppati e emergenti per il ruolo che possiamo svolgere nel G8, nel G20 e all’interno dei principali organismi internazionali. Qui vale la pena sottolineare la nostra forte sintonia circa la riforma del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. In termini prettamente economici, poi, l’Italia è il 15° partner commerciale della Rpc e durante le celebrazioni per il 40° anniversario dello stabilimento delle relazioni diplomatiche bilaterali nel 2010 abbiamo concordato di puntare a raggiungere gli 80 miliardi di dollari Usa di interscambio entro il 2015.

Le debolezze sono collegate alla capacità di proiezione all’estero in particolare delle nostre Pmi in un ambiente che rende ancora difficile cogliere tutte le opportunità offerte dallo sviluppo cinese: esse si insediano con difficoltà in quel territorio, mentre il loro potenziale di trasferimento di tecnologie e formazione, di design ed innovazione è ancora poco sfruttato, anche perché in Cina si tende ancora a dare priorità ai grandi volumi e alle grandi cifre, a non capire che “piccolo è bello”, che la qualità è meglio della quantità. Questo è motivo di frustrazione soprattutto perché sia i nostri produttori, sia il mercato cinese avrebbero tutto da guadagnare da una relazione più stretta: noi, attraverso il tessuto delle nostre Pmi, in abbinamento alle imprese più grandi, siamo in grado di generare strumenti e servizi che possono dare sostenibilità alla crescita cinese, oggi il valore aggiunto più importante per Pechino.

Sono fiducioso che, grazie anche all’instancabile impegno della nostra Ambasciata e della rete consolare italiana in Cina, si arrivi a consolidare non solo i nostri legami economici e commerciali, ma anche e soprattutto quelli politici e culturali con la Cina, anche attraverso iniziative concrete come quelle sul fronte del rilascio dei visti, dell’attrazione dei flussi turistici e degli incentivi ai molti studenti cinesi che desiderano studiare in Italia. Voglio infine citare un esempio di eccellenza che deve ispirare i nostri sforzi: il fatto che dopo la conclusione dell’Expo di Shanghai, il Padiglione dell’Italia sia stato uno dei pochi che il Governo cinese ha chiesto di mantenere in funzione, permettendoci così di avvalerci di un’ eccezionale vetrina permanente delle nostre eccellenze nel paese.

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