Nell’ambito delle riforme promosse lo scorso autunno dal Comitato centrale del Partito comunista cinese (Pcc), il governo della Rpc ha annunciato un ammorbidimento della regola che impone alle imprese di versare un capitale minimo come precondizione per l’inizio delle attività. Il capitale richiesto varia a seconda della tipologia di impresa, da 30.000 yuan (3.500 euro) per le società a responsabilità limitata fino a un massimo di 5 milioni (585.000 euro) per le tipologie societarie più complesse. La deroga non si applica alle imprese del settore finanziario. Nel complesso si tratta di una misura volta a semplificare le procedure legate alla creazione di nuove imprese e, più in generale, di un contributo verso la creazione di un mercato maggiormente concorrenziale, con un maggior accesso per le imprese, specialmente quelle di piccola dimensione. In parte anche grazie a questa riforma, il numero di nuove imprese nel paese è cresciuto nel 2013 del 27,6% rispetto all’anno precedente, per un valore di 2,5 milioni di unità.
Ma stimolare l’ingresso di nuove imprese in un mercato già densamente popolato attraverso la semplificazione delle procedure di accesso non è – da solo – condizione sufficiente a garantire il migliore funzionamento del mercato medesimo. Secondo le più recenti analisi della Banca mondiale, infatti, la Rpc risulta solamente al novantaseiesimo posto nella graduatoria dei “Doing Business Indicators”, con un leggero miglioramento rispetto al novantanovesimo posto del 2013. Il “Doing Business” è un indicatore sintetico, basato sulle valutazioni di esperti sul campo, che traccia l’evoluzione di un insieme di misure di regolamentazione che incidono sull’attività d’impresa.
La relativa arretratezza della Rpc risalta ancor di più se si osserva che paesi a livelli simili di ricchezza pro-capite, tra cui i paesi del Sudest asiatico, ma anche il Sud Africa o la Russia, si trovano tutti nelle posizioni più alte della graduatoria. D’altra parte, bisogna anche registrare i progressi che la Rpc ha compiuto nell’ultimo decennio, con il divario medio rispetto ai paesi ai primi posti della graduatoria che si è comunque ridotto in modo sostanziale e con l’attuazione di numerose riforme nella direzione di un miglioramento delle condizioni di mercato (Tabella 1).
Scendendo più nello specifico, i dati messi a disposizione dalla Banca mondiale ci mostrano come vi siano degli ambiti di regolamentazione e procedure in cui il ritardo del paese è ancora preoccupante. La Tabella 2 mostra il posizionamento della Rpc nelle graduatorie per le singole dimensioni prese in considerazione per la costruzione finale dell’indice. I dati mostrano forti barriere all’ingresso per la nascita di nuove imprese, nonché problemi legati all’accesso alle infrastrutture e al peso della tassazione. D’altra parte, in ambiti di regolamentazione pura, inclusa la tutela della proprietà e l’applicazione delle misure contrattuali, la posizione della Cina è relativamente soddisfacente.
Qui ci limiteremo a commentare solo alcuni tra i vari dati disponibili (Tabella 3). La prima dimensione dà una misura delle difficoltà che si incontrano per iniziare una nuova attività. Nel caso cinese, è possibile osservare che queste difficoltà si manifestano più in termini di peso complessivo degli adempimenti burocratici che in termini di costo. Se confrontiamo sia i tempi che il numero di procedure necessari per far partire una nuova attività si nota che in Cina ciò vuol dire attendere circa tre volte il numero di giorni e adempiere il triplo delle pratiche necessarie rispetto alla media dei paesi Ocse. Oltre a un processo decisamente più laborioso in termini di numero di procedure da seguire, vi sono pratiche – tra cui la richiesta della licenza all’Amministrazione statale per l’industria e il commercio (Saic) e la richiesta del permesso per emettere fatture – particolarmente onerose nei tempi, dato che richiedono rispettivamente 11 e 10 giorni ciascuna per essere espletate. Va rimarcato tuttavia che il costo complessivo di queste procedure – anche alla luce delle nuove riforme sul capitale iniziale – è poco rilevante se confrontato con quello di paesi a simili livelli di reddito e che, per la maggior parte delle procedure, vi sono delle esenzioni per le micro e le piccole imprese.
Altre barriere procedurali e amministrative si riscontrano nei tempi lunghi e nei costi elevati che le imprese cinesi devono affrontare per ottenere i permessi per costruire (o rinnovare) gli stabilimenti produttivi e aver accesso alla rete elettrica. Ancora, si riscontra una tassazione complessiva superiore in media a quella dei paesi Ocse, specialmente sul lavoro. D’altra parte – e non potrebbe essere altrimenti data la scala dei volumi di beni che attraversano i confini cinesi – si osserva come le restrizioni al commercio con l’estero siano contenute, così come lo sono i costi associati alle attività di export e import.
Nel complesso, ci pare che questi indicatori sintetici, pur con dei limiti nei metodi di rilevazione, offrano un quadro ancora poco confortante sulle possibilità di estendere i vantaggi di un mercato dall’enorme potenziale qual è quello cinese a un numero ancora maggiore di imprese, specialmente quelle meno strutturate o non direttamente legate al settore pubblico. Sono però prevedibili nuove riforme verso un mercato più libero, meno regolamentato e con minori vincoli burocratici e infrastrutturali per le nuove iniziative imprenditoriali.
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