Dopo decenni di scandali e prestazioni socioeconomiche deludenti, certamente inferiori rispetto a quelle degli altri Paesi della regione, le Filippine mostrano ora risultati economici tra i migliori a livello globale. La sostenibilità del modello adottato e il raggiungimento degli obiettivi di riduzione della povertà e della diseguaglianza sono però tutti da verificare. A partire dalla situazione macroeconomica attuale, l’articolo si propone di esaminare i fondamenti della politica economica di Duterte e lo stato dei rapporti politici e commerciali con Cina e Stati Uniti, per arrivare a individuare e discutere le principali sfide da vincere e i rischi che si nascondono dietro la cosiddetta “Dutertenomics”.
Il Fondo Monetario Internazionale ritiene che la situazione congiunturale del Paese nel 2019 continui a essere positiva nonostante una serie di nuove sfide economiche. Il PIL annuo reale è cresciuto del 6,7% nel 2017 e del 6,3% nel periodo luglio 2017 – giugno 2018 rispetto ai 12 mesi precedenti. I forti investimenti infrastrutturali hanno sicuramente favorito l’occupazione e si ritiene che nel breve-medio termine l’economia continuerà a crescere a ritmi sostenuti trainata dalla domanda interna e successivamente, nel lungo termine, grazie alle riforme strutturali in corso. L’inflazione è tuttavia aumentata al di sopra della fascia programmata del 2% – 4% raggiungendo il 4,8% nel 2018 e dando un chiaro segnale di possibile surriscaldamento dell’economia. Il valore del peso contro il dollaro è sceso ai livelli più bassi degli ultimi undici anni e rimane sotto pressione per effetto dell’aumento del prezzo del greggio, del crescente aumento del disavanzo delle partite correnti e dei capitali in uscita dal Paese. Povertà e diseguaglianza rimangono, inoltre, su livelli elevati.
Il quadro congiunturale sostanzialmente positivo precedentemente descritto dipende in buona parte dalla prosecuzione delle riforme macroeconomiche realizzate dalle precedenti amministrazioni, guidate da Gloria Macapagal-Arroyo (2001-2010) e da Benigno Aquino III (2010-2016). Con la Dutertenomics sono state però introdotte alcune importanti novità. Inoltre, la situazione geopolitica e le relative risposte di Duterte sono sicuramente nel segno della discontinuità con il passato.
Reddito Nazionale Lordo Procapite (US$ correnti, Atlas)
Crescita del PIL reale (%)
Il piano di sviluppo proposto da Duterte per il periodo 2017-2022 prevede tre linee strategiche principali: il miglioramento del tessuto sociale (attraverso buon governo e promozione culturale), la riduzione della diseguaglianza e il rafforzamento del potenziale di crescita. Al centro delle politiche economiche del nuovo governo si trovano due importanti iniziative, la Build Build Build (BBB) per la realizzazione delle infrastrutture necessarie al miglioramento del clima degli investimenti e la crescita industriale; e la Tax Reform for Acceleration and Inclusion (TRAIN) per incrementare le entrate fiscali, generare le risorse necessarie agli investimenti pubblici e ridistribuire la ricchezza riducendo povertà e diseguaglianza. Con un impegno complessivo pari a 160 miliardi di dollari per il periodo 2017-2022, la BBB modifica il precedente modello proposto da Aquino basato su partnership pubbliche private. Con la nuova iniziativa, le infrastrutture vengono costruite grazie a finanziamenti del governo e aiuti esteri Official Development Aid (ODA) e non più con fondi privati, mentre la gestione e la manutenzione rimangono in mano a imprenditori del settore privato. La BBB prevede dunque un modello ibrido di investimento pubblico e gestione privata che intende superare i ritardi mostrati dalle PPP sostenute da Aquino. L’adozione di questa nuova modalità ha permesso di iniziare i lavori di ampliamento dell’aeroporto internazionale Clark e quelli per la metropolitana di Manila. Cionondimeno, la rinuncia all’utilizzo di fondi privati potrebbe rapidamente dimostrarsi non sostenibile, in particolare nel caso la riforma fiscale non riuscisse ad aumentare il gettito fiscale come sperato o gli aiuti dall’estero dovessero ridursi in conseguenza delle risposte scomposte di Duterte alle critiche verso la violenta politica di contrasto al narcotraffico.
L’iniziativa TRAIN riduce e semplifica le aliquote sui redditi personali, semplifica la tassazione sugli immobili, modifica e accresce le accise su auto e carburanti e aumenta la base imponibile per l’IVA. TRAIN è uno dei quattro pacchetti della più generale riforma fiscale “Comprehensive Tax Reform Programme” (CTRP), la prima negli ultimi vent’anni ad ambire seriamente a migliorare il regime fiscale del Paese. A un anno dalla sua entrata in vigore, avvenuta il 1° gennaio 2018, i risultati sono però controversi. Dal punto di vista economico, il gettito fiscale è aumentato e con esso la spesa per investimenti; tuttavia, tra gli effetti non desiderati dell’iniziativa si deve considerare il già citato aumento dell’inflazione al di sopra del livello progammato del 4% annuo. Allargando l’analisi all’impatto sociale della riforma, si può osservare che oltre a generare le risorse necessarie per realizzare le infrastrutture essa dovrebbe ridurre la diseguaglianza, ma le numerose proteste legate all’aumento del costo dei carburanti e all’assenza di dati che evidenzino una riduzione delle disparità nelle condizioni di vita della popolazione stanno sollevando non pochi dubbi sull’efficacia dell’iniziativa e più in generale sulla sostenibilità della Dutertenomics.
Passando a esaminare le scelte di politica industriale dell’attuale governo, si osserva una sostanziale continuità con quelle precedenti orientate a stimolare la ripresa delle attività manifatturiere, favorire la loro integrazione con agricoltura e servizi e facilitarne l’inserimento nelle catene del valore globali. Nel 2017, il nuovo governo ha però maggiormente enfatizzato l’importanza di costruire un ecosistema inclusivo per l’innovazione, dando prova di voler evitare di ritrovarsi in una situazione di “trappola del reddito medio” come accaduto a numerosi Paesi della regione. L’obiettivo è quello di fare crescere la produttività e diversificare l’economia rendendo il Paese competitivo con i concorrenti più avanzati. Le Filippine dovranno presto passare da un’economia basata su capitale e lavoro a un’economia fondata su conoscenza e innovazione. Con la crescita dei redditi, infatti, cresce anche il costo della manodopera, che non può continuare a essere un fattore competitivo in grado di trainare lo sviluppo economico.
La Dutertenomics non ha per il momento risentito della guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina che si è abbattuta sull’economia mondiale nell’ultimo anno. Tuttavia, ben prima che deflagrasse lo scontro, alimentato dalla rinnovata politica protezionista dell’amministrazione Trump, le due superpotenze si erano già affrontate sottotraccia nel corso dell’ultimo decennio per la supremazia commerciale nell’area ASEAN. È importante quindi capire l’evoluzione dei rapporti di Manila con Pechino e Washington e quali possano essere le ricadute della guerra dei dazi per l’economia filippina.
Le Filippine sono state da sempre considerate lo storico alleato degli Stati Uniti nella regione e coltivano un rapporto a dir poco problematico con la Cina a causa dell’annosa disputa territoriale sulle isole del Mar Cinese Meridionale. Tuttavia, l’elezione di Duterte nel 2016 ha, seppur parzialmente, iniziato a mettere in discussione questo paradigma soprattutto per quanto concerne le relazioni con Pechino. L’ex Presidente Aquino aveva condotto una politica di scontro aperto contro la Cina, denunciando ripetutamente gli sconfinamenti cinesi nelle isole rivendicate dalle Filippine. Duterte ha invece avviato, dapprima sottotraccia e poi più apertamente, una politica di riavvicinamento tra i due Paesi, conclusasi con i 29 memorandum d’intesa siglati durante la storica visita di Xi Jinping a Manila nel novembre 2018. Tra i 29 memorandum vi è il MoU in materia di cooperazione energetica, che per la prima volta prevede la possibilità di missioni esplorative congiunte nelle aree contese. Come anticipato, tale risultato rappresenta il culmine di un percorso progressivo, sebbene non sempre lineare, basato innanzitutto sul rafforzamento delle relazioni commerciali.
Difatti, sebbene gli Stati Uniti rimangano il primo investitore nel Paese, già nel 2014 Pechino aveva scalzato Washington divenendo il secondo partner commerciale delle Filippine con scambi complessivi per un valore di 18,3 miliardi di dollari a fronte dei 14,3 miliardi statunitensi. La forbice è andata allargandosi, tanto che la Cina nel 2016 è divenuta il primo partner commerciale delle Filippine staccando il Giappone e lasciando gli Stati Uniti in terza posizione. Gli ultimi dati del primo semestre 2018 confermano questo trend: gli scambi tra la Cina e le Filippine rappresentano il 16,6% del totale per un valore di 14,08 miliardi di dollari, mentre gli Stati Uniti restano fermi appena sopra il 10% per un valore di 8,7 miliardi di dollari. Questo dato dell’Istituto Nazionale di Statistica filippino (PSA) è ancora più notevole se si considera che gli scambi verso Hong Kong, che da soli rappresentano il 7,4% delle esportazioni filippine, sono scorporati dal sub-totale cinese.
I dati soprariportati suggeriscono che il primato commerciale cinese sia iniziato ben prima dell’elezione di Duterte e che quindi, più che come effetto del disgelo delle relazioni politiche con Pechino, possa e debba essere letto come risultato di quello scontro per la supremazia nell’area ASEAN a cui si faceva riferimento precedentemente. L’invasione di prodotti cinesi sul mercato filippino ha fatto sì che il valore delle importazioni cinesi triplicasse rispetto a quelle statunitensi in appena cinque anni. Enorme è stato l’effetto sul comparto dell’elettronica. Se nel 2013 le importazioni dagli Stati Uniti, con un valore di 3,4 miliardi di dollari, doppiavano quelle cinesi, il dato del primo semestre 2018 mostra impietosamente come il rapporto si sia pressoché invertito: l’import di prodotti elettronici cinesi ha ora un valore di 2 miliardi di dollari, mentre quello statunitense è fermo a 1,3.
Ciò che invece può essere interpretato come frutto del dialogo tra Manila e Pechino è la crescita degli IDE cinesi nelle Filippine. Questo discorso vale sicuramente sul versante privato, in primis nel settore immobiliare, con un flusso in grado di sfruttare il grande programma infrastrutturale lanciato da Duterte e in triangolazione ideale con le sempre crescenti importazioni di acciaio e ferro dalla Cina. Inoltre, è probabile che il dialogo abbia influito significativamente sugli investimenti nel settore pubblico: gli accordi siglati durante la visita del Presidente Xi lo scorso anno nel quadro della Belt and Road Initaitive prevedono importanti progetti infrastrutturali nell’isola di Mindanao, compreso il controverso appalto all’impresa statale cinese PowerChina per la ricostruzione della città di Marawi.[1]
Ciononostante, le dinamiche sopra descritte sono lungi dal raccontare una definitiva alterazione dei rapporti di Manila con le due superpotenze. Al di là della colorita retorica a cui Duterte periodicamente ricorre nei suoi discorsi e alle invettive contro la CIA, accusata neanche troppo velatamente di progettare il suo assassinio, gli Stati Uniti rimangono un partner strategico per le Filippine sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista economico. Allo stesso modo, diversi osservatori avvisano che è troppo presto per stabilire se i rapporti tra Cina e Filippine si siano definitivamente normalizzati, considerando il sentimento anticinese che circola ancora nell’opinione pubblica dell’arcipelago.
La partita di Manila prosegue su un doppio tavolo e in equilibrio quanto mai precario. Proprio per questo diviene indispensabile comprendere quali possano essere gli effetti della guerra dei dazi sull’economia filippina. Il governo per il momento ostenta sicurezza ricordando che la crescita degli ultimi anni si è basata sulla domanda interna e anzi annunciando che il risultato si tradurrà in un aumento delle esportazioni. Tuttavia, la richiamata spinta inflattiva del 2018, combinata al deprezzamento del peso filippino, pone anche dei rischi sulla sostenibilità della BBB e sulla politica industriale tout court di Duterte. Inoltre, le Filippine hanno acquisito un ruolo crescente all’interno della filiera integrata globale come punto di passaggio per merci e prodotti diretti in Cina o verso gli Stati Uniti. Le compagnie statunitensi del comparto dell’elettronica che producono nelle Filippine, che alimentano la catena di valore cinese e che esportano negli USA o altrove potrebbero essere seriamente danneggiate dalla guerra dei dazi. Più in generale vi è la preoccupazione che l’aggravarsi di tale scenario potrebbe indurre sempre più Paesi a sperimentare spazi di autosufficienza rallentando l’economia globale a danno soprattutto dei Paesi come le Filippine che hanno un ruolo intermedio nella filiera produttiva.
Indubbiamente, il quadro internazionale apre anche a delle opportunità, soprattutto per quanto attiene la diversificazione commerciale in quanto forma di mitigazione del rischio, come notato recentemente dal ricercatore Lucio Blanco, esperto di relazioni sino-filippine. Il Paese ha senz’altro la capacità di attrarre imprese statunitensi e cinesi interessate a spostare i loro centri di produzione nell’arcipelago, soprattutto in ragione del crescente costo del lavoro cinese e della prossimità delle Filippine con alcuni dei mercati più lucrativi della regione. D’altro canto, vi è la possibilità di proporsi nei confronti di Cina e Stati Uniti come fornitore alternativo per alcuni beni sia nella filiera dell’agroalimentare sia del tecnologico.
L’importanza della domanda interna per il successo della Dutertenomics è stata più volte rammentata dagli esponenti dell’attuale governo, sia come chiave del successo sia come rete di protezione dagli effetti della guerra dei dazi. Contestualmente, è stata alimentata una narrazione di una rinnovata identità nazionale filippina. La BBB diviene il collante che ricompone e riconnette le diverse istanze di questa identità nazionale, promuovendo un nuovo periodo di coesione sociale. In realtà questo racconto stride con le politiche più controverse della gestione Duterte. Il sud del Paese non è ancora pacificato e continua a vigere il coprifuoco su tutta l’isola di Mindanao. La brutale campagna di repressione contro il consumo di sostanze stupefacenti potrebbe aver lasciato sul terreno quasi 20.000 morti. Ancora, destano preoccupazione le recenti disposizioni restrittive e le sempre più numerose operazioni di polizia nei confronti di gruppi indigeni e senzatetto. I gruppi più marginali sono vieppiù isolati da una società nella quale convivono sacche di sperequazione sociale tra le varie regioni del Paese che la Dutertenomics non è ancora riuscita ad intaccare. La crescita meno che proporzionale delle aree rurali rispetto a quelle urbane aumenta poi la distanza tra centro e periferia e lacera il tessuto sociale del Paese. Se la persistenza di aree di sperequazione può intuitivamente incidere sulla tenuta della domanda interna, un più generale disfacimento della coesione sociale rischia di avere ricadute economiche ancora più importanti.
La sensazione è che al netto della crescita degli ultimi anni, il cui trend dovrebbe proseguire nel breve periodo, lo sviluppo delle Filippine e il futuro della Dutertenomics si trovino a un bivio. L’esposizione agli shock esterni è un fattore di rischio ma anche un’opportunità che Manila dovrà riuscire a cavalcare. Tuttavia, ancor più della partita sui mercati internazionali, il futuro del Paese dipenderà dall’evoluzione del contesto nazionale e dalla capacità di diversificare l’economia coinvolgendo le fasce di popolazione che continuano a rimanere ai margini della politica economica avviata dal Presidente.
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[1] La città di Marawi è stata distrutta da un conflitto durato cinque mesi, dal maggio all’ottobre 2017.
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