I giornali dell’epoca riportano che, la sera del 9 marzo 1908, un gruppo di amanti del calcio si ritrovò presso L’Orologio, un ristorante di Milano, per fondare una nuova squadra. Scelsero – su suggerimento di un pittore – il nero e l’azzurro come colori sociali, decidendo di chiamarsi Internazionale. In quella sorta di dichiarazione d’intenti, uomini di diverse nazionalità e classi sociali affermavano di aver scelto quel nome perché si sentivano fratelli del mondo. La vocazione internazionale rimarrà una costante nella storia della società, e solo la parentesi del fascismo, votato a un nazionalismo claustrofobico, costringerà la dirigenza a modificare il nome in Ambrosiana. Mai quegli uomini avrebbero immaginato che questa tensione ideale si sarebbe concretizzata dopo più di cent’anni nell’acquisizione della società da parte di un grande gruppo industriale-finanziario cinese, il gruppo Suning. È un ulteriore segno di come il calcio abbia riflesso – a volte anticipandole – le grandi trasformazioni sociali, economiche e culturali che hanno investito il mondo. Inizialmente l’arrivo di investitori cinesi è stato guardato dai media italiani con curiosità e anche con qualche preoccupazione, una manifestazione di conservatorismo culturale che fatica a vedere nel calcio contemporaneo una delle tante forme assunte dalla globalizzazione e, nello sport un insieme di pratiche che non possono esaurirsi nel gesto e nella tecnica, ma hanno anche importanti ricadute in termini sia di nation building, sia di ibridazione culturale.
All’opposto, l’interesse degli intellettuali e degli studiosi di scienze umane per il calcio non è una novità[1], come non lo è quello di artisti e scrittori. Il potenziale ambivalente dei grandi eventi sportivi, che possono dividere ma anche accomunare individui di diversi gruppi etnici e nazioni, ha avuto e continua ad avere un ruolo di rilievo nello studio dei nazionalismi e delle relazioni internazionali[2]. Anche l’analisi delle pratiche sportive come “rituali” pubblici di appartenenza o differenziazione ha richiamato l’attenzione di filosofi, sociologi e studiosi di scienza politica e di studi culturali. In particolare, un consolidato filone degli studi culturali considera il calcio non solo come pratica di svago e divertimento, ma come insieme di pratiche culturali che prendono forma in manifestazioni affettive, linguistiche, cognitive, sensoriali, motorie e soprattutto relazionali. Il calcio agisce da catalizzatore di snodi affettivi e culturali capaci di riflettere e in qualche modo omologare la condizione e la dialettica globale/locale declinate in congiunture spaziali e temporali specifiche. Inoltre, esso riesce a innescare strategie di resistenza e cambiamento, a creare uno spazio dinamico per la sperimentazione di un “possibile” diverso, in cui l’appagamento, l’appartenenza e la partecipazione emotivi non sono scollati dal concetto di responsabilità civica e civile degli individui[3].
Gli studi culturali cercano di rintracciare nel calcio determinazioni, relazioni e interazioni che lo assimilano a qualsiasi altra pratica culturale. Mappare questa complessità significa collocare il calcio all’interno del contesto storico e sociale in cui si sviluppa caricandosi di significati spesso contraddittori e ambigui. In quest’ottica il calcio è visto anche come un luogo di possibilità, uno spazio dove mettere in pratica forme di resistenza, di autonomia e di agency. Riprendendo le riflessioni di Antonio Gramsci, Stuart Hall scrive – a proposito della categoria del “popolare” – che la dialettica della lotta culturale produce continuamente complesse relazioni di resistenza e accettazione, rifiuto e capitolazione[4]. All’inizio del Novecento Gramsci coglieva nelle diverse modalità sociali di relazione con lo sport e con il tempo libero il riflesso delle differenti condizioni economico-sociali in cui queste pratiche si articolavano nei paesi europei e sosteneva che le nuove pratiche sportive regolate come il calcio si erano affermate con successo proprio in quei paesi dove la cultura dell’individualismo e del fair-play erano costitutive dell’intero modo di vita, quindi anche della way of life delle classi subalterne. Gramsci scriveva che il calcio è una rappresentazione metaforica della divisione del lavoro e del processo di individualizzazione capitalistica, mentre il concetto di fair-play ne costituisce la dimensione ideologica.
Seguendo e sviluppando la prospettiva gramsciana, si può sostenere che oggi il calcio costituisce ancora uno spazio di articolazione di una “whole way of life”, secondo l’idea di Raymond Williams, in grado di significare l’esistenza degli individui, ma è anche – forse soprattutto – un insieme di pratiche materiali che permettono di cogliere la complessità di dinamiche e processi ideologici, economici e sociali non più isolabili in un contesto specifico. Il calcio contemporaneo si presenta come un fenomeno di dimensioni globali e una delle industrie più floride del pianeta, in grado di alimentare altri comparti economici (moda, media, pubblicità) e il circuito di produzione e consumo delle merci più varie attraverso sponsorizzazioni di squadre e singoli giocatori.
Nella prospettiva dei cultural studies si può affermare che il calcio rappresenta contemporaneamente un’esperienza significativa per centinaia di milioni di persone (praticanti e non), una fonte di profitto per il capitale e un veicolo di costruzione del consenso politico. Tuttavia, osservandone le complessità e articolazioni accumulatesi sino a oggi, non lo si può ridurre a semplice sovrastruttura o strumento ideologico di conferma delle relazioni sociali di potere. Come altre attività che intersecano il sociale, lo sport non è solo un prodotto di enorme successo dell’industria culturale, mediatica e finanziaria, che genera profitti e alimenta a livello globale il circuito del consumo di altre merci ad esso legate. Nonostante l’evidente predominio del modello iper-competitivo e commerciale, lo sport mostra ancora la possibilità di conservare spazi di autonomia in cui si generano significati dissenzienti e concorrenziali. Nello sport si riproduce la complessità connaturata a ogni pratica culturale di cui va colta la funzione nel contribuire ad articolare l’insieme delle relazioni sociali. Per i cultural studies, mappando la complessità di tali determinazioni, relazioni e interazioni, si mette in lucel’autonomia e la capacità di iniziativa degli individui.
Il calcio è quindi il prodotto di molteplici relazioni e interazioni che attraversano e determinano il contesto sociale: lo sport è nel medesimo tempo cultura di massa, commodity, cultura popolare, industria capitalistica, investimento simbolico ed emotivo. Oggi quasi tutti gli sport – sicuramente il calcio – sono inseriti in una dinamica economica che ne incentiva la competizione, la burocratizzazione e l’istituzionalizzazione, ma, a dispetto delle narrazioni dominanti, restano degli spazi politicamente e culturalmente sensibili al cui interno si riproducono – in forme originali e distinte – le stesse contraddizioni e tensioni riscontrabili a livello sociale.
In questa prospettiva il calcio rappresenta un caso esemplare di pratica e spazio culturale che nel corso della sua evoluzione ha riflesso contraddizioni e tensioni legate a specifiche congiunture che ha, di volta in volta, cercato di nascondere, superare o risolvere.
Vale la pena ricordare che – secondo Scott Waalkes – il “linguaggio del calcio” è compreso su scala globale, il che lo rende il più diffuso e importante al mondo. Waalkes scrive che “il calcio è una cultura globale, un linguaggio globale e una comunità globale di gioco. […] È molto di più di uno spettacolo mediatico. Crea partecipazione in una comunità transnazionale. E questa comunità di gioco crea uno spazio di accoglienza sia per la diversità, sia per l’uniformità”[5].
È in questo contesto che va letto lo sforzo economico, finanziario e di soft power dell’élite politica cinese nel settore del calcio. L’abbandono di un approccio che si limitava al trapianto del modello europeo e le nuove strategie globali perseguite da Pechino mirano a sfruttare le innumerevoli opportunità che il “meraviglioso gioco” offre per conseguire successi ad ampio raggio: non solo sportivi, ma anche diplomatici e politici.
[1] Sport and Modern Social Theorists, a cura di Richard Giulianotti (New York and London: Palgrave Macmillan, 2004).
[2] Paul Dietschy, David Ranc e Albrecht Sonntag, “Parallel Myths, Popular Maps: The Europe of Soccer”, Journal of Educational Media, Memory and Society 1 (2009) 2: 125-144.
[3] Roberto Pedretti, “Stelle nere, calcio bianco. Calcio, capitale e razzismo nell’Italia contemporanea”, Africa e Mediterraneo 84 (2016) 1: 23-27.
[4] Stuart Hall, “Notes on Deconstructing ‘the Popular’”, in People’s History and Socialist Theory, a cura di Raphael Samuel (London: Routledge and Kegan Paul, 1981), 227-240.
[5] Scott Waalkes, “Does soccer explain the world or does the world explain soccer? Soccer and globalization”, Soccer & Society 18 (2017) 2-3: 166-180.
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