Durante la Seconda guerra mondiale, il Giappone tentò di giustificare la sua politica aggressiva presentandola come finalizzata alla liberazione dei popoli asiatici dal giogo coloniale e dall’imperialismo “euro-americano”. Secondo la propaganda, sotto la guida nipponica sarebbe iniziata la costruzione di una comunità regionale fondata su uno spirito di fratellanza e sostegno reciproco. Questo progetto divenne noto come “Sfera di coprosperità della Grande Asia Orientale”, secondo l’espressione lanciata dal Ministro degli Esteri Matsuoka Yosuke nell’agosto 1940. Si trattava di un’elaborazione, in chiave più ambiziosa, di un obiettivo geopolitico dichiarato due anni prima dal Governo di Tokyo per dare legittimità alla guerra contro la Repubblica cinese. In quella forma iniziale, la prospettiva era ancora limitata alla cooperazione politica ed economica tra Giappone, Cina e Stato fantoccio della Manciuria; quest’ultimo era stato creato dall’Esercito imperiale nel 1932, dopo aver occupato il Nord-Est cinese.
In una logica di contrapposizione tra grandi blocchi regionali, i fautori dell’espansionismo si convinsero presto della necessità di inglobare il Sud-Est asiatico nella sfera egemonica giapponese, nonostante il rischio elevato di provocare uno scontro con l’Impero britannico e gli Stati Uniti. L’Asia Sud-orientale era infatti ricca di materie prime che apparivano indispensabili per il raggiungimento dell’autosufficienza economica, senza la quale sarebbe stata compromessa la sicurezza nazionale. Nell’immediato, bisognava reperire mezzi adeguati a sostenere una guerra di logoramento in Cina. Le Indie Orientali olandesi, in particolare, rappresentavano per il Giappone l’unica fonte di petrolio alternativa agli Stati Uniti, all’epoca principali fornitori di questa risorsa strategica.
Oltre al protrarsi del conflitto in Cina, la decisione di procedere con l’“avanzata a Sud” ebbe quali fattori determinanti: il fallimento del tentativo di espansione a danno dell’Unione Sovietica, con la disfatta giapponese a Nomonhan nel 1939; la denuncia del trattato bilaterale di commercio decisa da Washington nello stesso anno, cui seguirono sanzioni economiche di crescente gravità; nonché i successi militari della Germania nazista nella prima fase del conflitto mondiale, che inibirono la capacità di reazione delle potenze coloniali in Asia. L’esercito nipponico penetrò dapprima nel Tonchino, in modo da tagliare la principale via di rifornimento rimasta ai nazionalisti cinesi. Nell’estate del 1941, il Governo di Vichy non potè che consentire a un ulteriore stanziamento di truppe giapponesi nell’Indocina meridionale. Come ritorsione, il 1° agosto gli Stati Uniti posero l’embargo petrolifero al Giappone, seguiti in breve da Gran Bretagna e Paesi Bassi (il cui Governo era nel frattempo riparato a Londra). Lo stallo dei successivi negoziati nippo-statunitensi spinse Tokyo ad aprire le ostilità il 7-8 dicembre, con una vasta offensiva a sorpresa sia contro le colonie britanniche di Hong Kong, Singapore e Malaya, sia contro le basi statunitensi nelle Filippine e nel Pacifico, a cominciare da Pearl Harbor. Entro la prima metà del 1942, l’intera Asia Sud-orientale cadde sotto il controllo giapponese.
Benché la “Sfera di coprosperità” fosse un concetto centrale nell’ideologia promossa dalle autorità imperiali durante la guerra, fin dall’inizio il suo potenziale di persuasione tra gli abitanti dei territori occupati fu intaccato dalla mancanza di coerenza logica. Nel discorso ufficiale, gli ideali di fratellanza pan-asiatica erano contraddetti da una visione gerarchica dei rapporti tra nazioni, che riservava ai giapponesi il posto più elevato anche in virtù di una loro presunta superiorità razziale. Nei confronti delle popolazioni locali, gli occupanti riprodussero i meccanismi discriminatori tipici del colonialismo “bianco”, peraltro già applicati dal Giappone a Taiwan e in Corea. Soprattutto, però, la rappresentazione a parole del nuovo ordine strideva con una realtà di continue vessazioni e violenze.
Sul piano economico, l’integrazione regionale rimase sulla carta. L’azione dei giapponesi ebbe ovunque carattere predatorio, essendo volta all’estrazione di materie prime e altre risorse da destinare allo sforzo bellico. A tal fine la popolazione civile fu sottoposta a lavori forzati e costretta a comprimere i consumi tramite razionamenti, requisizioni e risparmio obbligato. In pratica, quindi, ciascun Paese fu trattato alla stregua di una unità autosufficiente, da cui ottenere approvvigionamenti per le Forze armate e per le industrie strategiche. Ne risultò una drammatica carenza di cibo e di beni d’uso quotidiano, con la conseguente rapida crescita dell’inflazione. Nonostante tale sfruttamento del Sud-Est, il Giappone non riuscì a raggiungere quegli obiettivi di produzione che avrebbero dovuto portarlo alla vittoria. Oltre a difettare di mezzi adeguati a gestire una regione così vasta, sotto i colpi del nemico gli invasori persero progressivamente la capacità di difendere i convogli marittimi, sostegno vitale dell’Impero. Di conseguenza, buona parte delle risorse inviate ai centri industriali non giunse mai a destinazione.
Il dominio giapponese assunse forme diverse nei vari Paesi costituenti la cosiddetta “Sfera di coprosperità”, secondo le condizioni politiche locali e l’importanza strategica di ciascun territorio. Nel Sud-Est, le colonie britanniche e olandesi furono poste sotto un’amministrazione militare diretta. Alla Birmania fu poi concesso nel 1943 di formare un proprio Governo quale Stato indipendente; tale cambiamento formale restò tuttavia privo di sostanza. L’anno seguente anche i nazionalisti indonesiani ottennero una vaga promessa di indipendenza, che però rimase sospesa fino alla sconfitta giapponese. Nelle Filippine, gli invasori formarono un esecutivo provvisorio usando esponenti dell’élite nazionale, già da anni impegnata nel Governo dell’arcipelago sotto il protettorato statunitense. La Repubblica proclamata su queste basi nel 1943 fu soltanto un altro Stato fantoccio. Con tali concessioni politiche, per lo più di facciata, le autorità giapponesi cercarono di ottenere dai popoli asiatici una maggiore cooperazione in un contesto di guerra sempre più favorevole al nemico.
In Indocina si ebbe invece per quasi l’intera durata del conflitto una peculiare coabitazione tra forze imperiali e amministratori coloniali francesi. Questi ultimi, ormai in contatto con il Governo provvisorio della Francia liberata, furono infine rimossi con la forza nel marzo 1945. I giapponesi diedero quindi una parvenza di legittimità al loro dominio creando tre Stati nominalmente autonomi: Viet Nam, Cambogia e Laos. A capo di ciascuno posero i regnanti degli ex protettorati francesi. Diverso è ancora il caso della Thailandia, unico Stato indipendente in tutto il Sud-Est asiatico alla vigilia del conflitto mondiale. Sotto minaccia armata, nel dicembre 1941 il regno strinse alleanza con il Giappone, riuscendo così a mantenere intatta la sua struttura di Governo.
Le risposte locali al forzato ingresso di ciascun Paese nella “Sfera di coprosperità” abbracciarono l’intero spettro tra i due estremi dell’attiva collaborazione e della resistenza armata. I giapponesi trovarono migliore accoglienza laddove il loro arrivo apparve ai movimenti indipendentisti come un’opportunità per realizzare le aspirazioni nazionali. Ciò spiega in parte perché nelle Filippine il regime del presidente José P. Laurel godesse di scarso sostegno popolare: l’occupazione, oltre a caratterizzarsi subito per la sua durezza, rappresentò un regresso rispetto al sistema di autogoverno avviato nel 1935, con l’impegno di Washington a concedere la piena indipendenza all’arcipelago dopo un decennio. La resistenza filippina, molto numerosa, condusse un’estesa ed efficace guerriglia fin dal 1942, ricevendo sostegno materiale dalle Forze armate statunitensi.
Assai meno significativa fu l’opposizione agli invasori nelle colonie britanniche e olandesi del Sud-Est. Nelle Indie Orientali, in particolare, parte della popolazione manifestò inizialmente entusiasmo per la caduta dei dominatori europei. Le autorità giapponesi cercarono di sfruttare i preesistenti contrasti tra etnie, favorendo i gruppi maggioritari indonesiani per trarne utili collaboratori. Riservarono invece un duro trattamento ai cinesi, considerandoli infidi. Leader nazionalisti quali Sukarno e Mohammad Hatta approfittarono delle circostanze per gettare le basi organizzative della futura indipendenza indonesiana. Si sarebbero in seguito giustificati dei rapporti stretti con gli occupanti affermando che tale comportamento fosse stato necessario per far avanzare la causa nazionale.
In Birmania, i nazionalisti guidati da Aung San cambiarono fronte nel corso della guerra. Addestrati e armati dai giapponesi, così da appoggiarli nella campagna contro i britannici, compresero ben presto che l’indipendenza loro concessa era fittizia. Dopo aver costituito un’alleanza politica clandestina con altri gruppi, nel marzo 1945 Aung San lanciò l’insurrezione contro gli occupanti, affrettandone il ritiro dalla Birmania. In Indocina, come si è detto, il Giappone giocò tardivamente la carta del nazionalismo asiatico. Il Viet Minh trasse vantaggio dallo smantellamento dell’amministrazione francese, intensificando le sue attività negli ultimi mesi di guerra.
Resta da considerare la Thailandia, dove il Primo Ministro Phibun Songkhram aveva instaurato nel 1938 un regime di stampo fascista. In questo caso, il Governo fornì al Giappone non solo sostegno logistico ma anche un attivo contributo militare, allettato dalla prospettiva di acquisti territoriali. La Thailandia riottenne in effetti i territori di frontiera in precedenza sottratti al regno da francesi e britannici. o, l’alleanza con i giapponesi divenne impopolare a causa delle crescenti privazioni materiali imposte in nome della guerra. Il movimento clandestino di resistenza, coordinato dal reggente del re e sostenuto dagli Stati Uniti, riuscì a provocare la caduta di Phibun nel 1944. Il piano di insurrezione a Bangkok rimase inattuato a causa del sopraggiungere della resa del Giappone alle potenze alleate.
Il Giappone imperiale perseguì una politica di aggressione con il pretesto di restituire “l’Asia agli asiatici”. Ironicamente, nel Sud-Est la guerra diede davvero una spinta al processo di decolonizzazione, sebbene con esiti del tutto diversi da quelli attesi dagli invasori. Debilitate dal lungo conflitto, al loro rientro nella regione le Potenze coloniali non riuscirono a sopire i vari movimenti indipendentisti, che si erano rafforzati sia collaborando con i giapponesi sia opponendosi agli stessi. I rapporti tra il nuovo Giappone democratico e i Paesi del Sud-Est rimasero a lungo segnati dai traumi del periodo bellico. Le riparazioni di guerra, stabilite tramite accordi bilaterali e versate tra gli anni Cinquanta e Settanta, rappresentarono un importante fattore di riavvicinamento internazionale. Il Giappone ottenne di fornire parte dei risarcimenti sotto forma di beni industriali e servizi, cogliendo in tal modo l’occasione per reinserirsi nei mercati asiatici. Le relazioni si mantennero tuttavia piuttosto fredde, nonostante gli Stati Uniti incoraggiassero Tokyo a contribuire allo sviluppo economico del Sud-Est in un’ottica di sicurezza regionale. Uno dei più significativi risultati di tale politica è stata l’istituzione della Banca asiatica di Sviluppo (Asian Development Bank – ADB), avvenuta nel 1966. Da allora, benché la ADB abbia sede a Manila, tutti i suoi presidenti sono stati giapponesi.
Per alcuni decenni, l’approccio mercantilista del Giappone al commercio internazionale non mancò di suscitare reazioni ostili tra i suoi partner economici in Asia. I rapporti migliorarono però gradualmente dopo la fine della guerra in Viet Nam, in un contesto geopolitico favorevole a un’intensificazione degli scambi tra Giappone e Paesi dell’Association of South-East Asian Nations (ASEAN). Momento emblematico di questa svolta fu il discorso pronunciato a Manila nel 1977 dal premier giapponese Fukuda Takeo, oggi ricordato come manifesto della “dottrina Fukuda” per una cooperazione pacifica. Dagli anni Novanta, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 1997, le relazioni tra Giappone e ASEAN hanno costituito un aspetto chiave di un processo di integrazione regionale esteso all’Asia Orientale e al Pacifico. La contemporanea ascesa della Cina a grande Potenza economica ha innescato nuove dinamiche, nonché motivi di tensione, in questo intreccio di crescente complessità.
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