Il 4 giugno scorso la Commissione europea ha imposto dazi provvisori dell’11,8% sui pannelli solari di fabbricazione cinese, apparentemente senza avere il sostegno della maggioranza degli Stati membri e ufficialmente contro il volere del governo tedesco. Per tutta risposta, Pechino ha immediatamente lanciato un’investigazione sui vini europei, il cui esito potrebbe portare all’adozione di misure antidumping in grado di colpire severamente il settore vitivinicolo in Francia e in Italia, due Paesi che sembra sostengano la Commissione europea nella “linea dura” sui pannelli solari. Queste recenti azioni si aggiungono alle minacce della Commissione, nella primavera scorsa, di iniziare un’indagine antidumping nel settore delle infrastrutture per le telecomunicazioni in cui sono attivi i colossi cinesi Huawei e ZTE, anche in tal caso con gli Stati membri divisi sulla linea da intraprendere. La crescente tensione commerciale tra Bruxelles e Pechino riflette in realtà il deterioramento della sicurezza economica, intesa come sicurezza economica complessiva percepita dai governi e dall’opinione pubblica, in un periodo di recessione globale e di transizioni politiche interne. I nuovi accordi di libero scambio in corso di negoziato contribuiscono a rafforzare il senso di insicurezza delle maggiori potenze commerciali.
Lo stallo dei negoziati commerciali all’interno del Doha Development Round ha spinto molti Stati e raggruppamenti regionali a ricorrere a negoziati alternativi per la creazione, su base bilaterale o mini-laterale, di aree di libero scambio (ALS). Le ALS sono inoltre diventate dei mezzi per perseguire interessi di politica estera, in un processo di “securitizzazione” della politica commerciale. Se il crescente interesse cinese per questo tipo di accordi ha contribuito a ravvivare il regionalismo asiatico con l’ALS Cina-ASEAN, gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno seguito a ruota: i primi, con la Trans-Pacific Partnership (TPP), la seconda con l’ALS UE-USA. Tutti questi accordi hanno creato un senso di esclusione: l’ALS tra Cina, Corea e Giappone lascia fuori gli Stati Uniti; Washington vuole Tokyo nel TPP, ma l’iniziativa è formulata in modo che la Cina attuale non potrebbe sottoscriverla senza mettere in discussione il suo regime politico; e la Regional Economic Comprehensive Partnership (Rcep), includendo Cina, India, Giappone e altre tredici economie della regione, ma non gli Stati Uniti, sollecita l’impegno di Washington per la conclusione dei negoziati del TPP.
Il quadro è ulteriormente complicato dal fatto che queste ALS rappresentano accordi commerciali di nuova generazione, il cui focus è soprattutto sulle barriere non-tariffarie, sui servizi, sugli standard e sulle normative, e sulle architetture istituzionali del commercio. Perciò, le ALS contribuiscono a erodere la distinzione tra politica estera economica e politica interna, e richiedono una visione (finanche una cultura) politica comune, assente tra le democrazie occidentali e la RPC. Non è un caso che Mark Totola, vice-capo missione all’ambasciata americana a Londra, abbia dichiarato: “l’ALS tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti potrebbe diffondere le norme occidentali in tutto il mondo”. Non si tratta più quindi di dazi o altri strumenti tecnici, ma di norme e di sottesi valori: è la prova del passaggio della politica commerciale dalla sfera della low politics a quella dell’high politics.
La politica delle ALS in un periodo di difficile transizione per la Cina e per l’economia politica globale ha creato a Pechino una percezione di “accerchiamento”, ottenendo il risultato che Arvind Subramanian nel suo libro Eclipse già nel 2011 suggeriva ai paesi occidentali di evitare, lasciando perdere qualsiasi progetto di accordo commerciale esclusivo. Subramanian sostiene invece il lancio di un nuovo round del WTO, che dovrebbe chiamarsi “China Round”, avente lo scopo di adeguare la complessa normativa internazionale alla realtà di una Cina ormai grande potenza commerciale globalmente integrata nelle catene di produzione. La securitizzazione della politica commerciale ha accresciuto le percezioni di insicurezza, e ha portato gli Stati ad adottare comportamenti inward-looking che potrebbero portare se non allo smantellamento, certamente almeno alla paralisi dell’ordine liberale globale.
I funzionalisti sostengono che in assenza di un terreno politico comune, gli Stati devono iniziare a co-operare sugli interessi economici comuni, in attesa che la condivisione si manifesti (con un effetto di spillover) anche in altri ambiti e politiche più controversi, portando all’integrazione politica. Tuttavia, proprio la storia dell’UE dimostra i limiti dell’approccio funzionalista: come dimostra la crisi dell’euro, giunge un momento in cui, senza un’adeguata volontà di rafforzare la dimensione politica dell’Unione, anche il processo di integrazione economica comincia a zoppicare. Può anche darsi, come di recente hanno sostenuto Marta Dassù e Charles Kupchan, che iniziative come l’ALS tra Europa e Stati Uniti siano la risposta realista dell’Occidente all’impossibilità di progredire in sede WTO, ma è dubbio che nell’era globale essa possa rappresentare la nuova architettura condivisa del regime commerciale internazionale.
Per la Cina, gli Stati Uniti e l’UE, è ora di riconoscere che le grandi potenze commerciali sono oggi intrappolate nel dilemma della sicurezza economica, e che liberarsi da questa trappola richiede la formulazione e la condivisione di nuove regole comuni per gestire il futuro. In assenza di questo sforzo, i processi di creazione di fiducia reciproca rischiano di restare confinati alla retorica delle celebrazioni delle partnership strategiche (ricorre quest’anno ad esempio il decimo anniversario della partnership UE-Cina). Per l’UE ciò significa innanzitutto porre rimedio alle divisioni interne e presentarsi sulla scena globale come attore unitario. Il rilancio del WTO potrebbe davvero rappresentare un’occasione migliore e più efficiente per raggiungere un consenso multilaterale, rispetto alle discussioni segrete sui nuovi ALS, che stanno solamente aggiungendo insicurezza a un ordine economico liberale che, con tutti i suoi limiti, ha finora servito degnamente, in termini di crescita, Washington, Bruxelles e Pechino.
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