Per la diplomazia di Washington il 2011 si è aperto all’insegna di un rendez-vous con il paese che è ormai – psicologicamente oltre che politicamente – il principale partner e insieme rivale globale degli Stati Uniti. Tra il 18 e il 21 gennaio, infatti, il presidente Hu Jintao si è recato alla Casa Bianca per la sua ultima visita di Stato in qualità di Presidente della Repubblica popolare cinese (Rpc).
Settori diversi dell’establishment e della società statunitense hanno tratto dalla due giorni di dialogo tra Hu e Obama lo spunto per ridiscutere i fattori che limitano la capacità del paese di reagire a quello che viene percepito come un declino, quantomeno relativo. Dopo aver torreggiato per vent’anni, gli Stati Uniti trovano ora nella Cina un interlocutore con il quale non possono “misurarsi” da una posizione di manifesta superiorità. Nello stesso discorso sullo stato dell’Unione Obama ha fatto cenno alla necessità per gli Usa di attrezzarsi per la sfida tecnologica con la Cina.
Definita dalla Casa Bianca come l’occasione per impostare i prossimi trent’anni di relazioni bilaterali Usa-Rpc, dopo le alterne vicende che hanno caratterizzato gli ultimi trenta – a partire dal disgelo della diplomazia del ping-pong nei primi anni ’70 del secolo scorso -, la visita di Hu ha avuto come sfondo 18 mesi difficili nei rapporti tra i due paesi. Washington ha dovuto fare i conti con una politica cinese meno accomodante che in passato, a tratti intransigente, ma per certi versi anche più incerta e oscillante.
La nervosa cacofonia di voci con cui Pechino ha affrontato il tema spinoso dei “core interests” nazionali, sovente richiamato su OrizzonteCina, è l’esempio più calzante.
Come illustrato a margine dei lavori del Dialogo Strategico ed Economico Usa-Rpc del luglio 2009 da Dai Bingguo, membro del Consiglio di Stato e Direttore dell’Ufficio per gli affari internazionali presso i vertici del Partito comunista cinese (Pcc), sono tre gli “interessi fondamentali” di Pechino. Nell’ordine: il mantenimento e la protezione del sistema politico attualmente vigente in Cina, la tutela della sovranità dello stato cinese su tutto il territorio nazionale e il permanere delle condizioni per uno stabile sviluppo dell’economia e della società cinese. Nel corso del 2010, tuttavia, diversi esponenti dell’intellighenzia cinese hanno accennato anche a rivendicazioni territoriali nel Mar cinese meridionale e orientale, creando tensioni con vari paesi Asean e con il Giappone.
La dottrina di politica estera cinese elaborata da Deng Xiaoping aveva per decenni postulato che le sfide internazionali dovevano essere affrontate dalla Rpc con una mentalità da stato “debole”, mantenendo un basso profilo (tao guang yang hui, “si nasconda la propria forza”), ma senza per questo trascurare di “essere attivi in modo selettivo e fare qualcosa” (you suo zuo wei). Dopo la grande recessione del 2008-2009 – da cui la Cina è uscita con un’economia apparentemente solida – questo approccio cauto basato sull’understatement è diventato meno sostenibile, ma la dirigenza cinese non pare aver maturato una nuova prospettiva strategica capace di rassicurare i propri vicini e soprattutto gli Stati Uniti.
La visita di Hu a Washington non ha prodotto alcuna svolta su dossier-chiave, come l’apprezzamento del renmimbi e l’intensificazione delle relazioni militari bilaterali, ma è servita a cementare una certa fiducia reciproca e ad oliare una serie di meccanismi di dialogo che possono ridurre il rischio di pericolosi errori di valutazione in situazioni di emergenza.
In secondo luogo, i colloqui dei due presidenti con la stampa hanno consentito di affrontare nuovamente il tema dei diritti umani: superando la tipica ritrosia dei massimi dirigenti cinesi, i giornalisti hanno ottenuto da Hu Jintao un’affermazione pubblica inusuale sulla persistente arretratezza di Pechino in quest’ambito. Secondo la traduzione ufficiale, il presidente cinese avrebbe esordito con il caveat canonico secondo cui “la Cina è un paese con un’enorme popolazione e che sta attraversando una delicata fase di riforme”, ma avrebbe ammesso che “la Cina ha ancora molto da fare nel campo dei diritti umani”. Considerata la sempre minor propensione delle autorità cinesi ad accettare pubblicamente commenti negativi sulla situazione dei diritti nella Rpc, lo si può ritenere un passo avanti, o quantomeno la prova del desiderio di Hu di lasciare in eredità al suo successore una relazione con Washington incanalata in una direzione positiva.
È stata, però, soprattutto l’economia al centro del vertice (uno studio di un ricercatore del Peterson Institute of International Economics sostiene che l’economia cinese ha già superato quella statunitense in termini di parità di potere d’acquisto). Obama e i principali capitani d’impresa statunitensi hanno esercitato il massimo della pressione per ottenere da Hu un maggiore equilibrio nelle regole dell’interazione commerciale. Tuttavia, se in passato l’enfasi era sulla necessità di tutelare il made in Usa dalla concorrenza sleale dei concorrenti cinesi sul mercato domestico e in mercati terzi, questo approccio “difensivo” è mutato in modo radicale. L’aspettativa dei produttori americani è per una crescita sostenuta dei consumi in Cina in entrando nel difficile mercato cinese nei decenni passati, spesso con perdite rilevanti. L’allargamento della fascia di popolazione cinese con accesso a un reddito medio-alto, sommato alla maturazione del gusto di consumatori sempre più socializzati alle pratiche occidentali, dovrebbe favorire nel prossimo futuro un ulteriore incremento delle esportazioni dei paesi occidentali, Stati Uniti in testa.
Analogamente, l’apertura effettiva del mercato dei servizi in Cina (ambito in cui Usa e Ue godono di evidenti vantaggi comparati) è essenziale per le aziende statunitensi ed è tra i punti affrontati nell’ultimo Libro bianco della Camera di commercio americana in Cina (2010) con l’intento di favorire l’attenuazione dello squilibrio nella bilancia commerciale, che nel 2010 ha gravato per oltre 250 miliardi di dollari (183 miliardi di euro) a carico degli Usa.
Il documento rivela una preoccupante involuzione dell’ambiente imprenditoriale cinese (in parziale violazione degli impegni assunti da Pechino all’atto dell’accesso all’Organizzazione mondiale del commercio – Omc – nel 2001), tornando a puntare il dito sul sistema degli appalti pubblici e sulla tutela dei diritti di proprietà intellettuale. Nel primo caso regolamenti volti a privilegiare produttori cinesi costituiscono un chiaro motivo di dissenso tra Pechino e Washington, mentre una serie di proposte volte a stimolare la cosiddetta “indigenous innovation” (che prevede un trattamento preferenziale ai prodotti con proprietà intellettuale cinese) avrebbero potuto costringere le imprese statunitensi a scegliere tra la perdita di competitività dei propri prodotti più innovativi e la rinuncia ai propri diritti di proprietà intellettuale. Il frutto più significativo della visita di Hu sembra proprio questo: il governo di Pechino avrebbe accettato di “scollegare” la politica dell’“indigenous innovation” dalle procedure per l’approvvigionamento della pubblica amministrazione cinese, un mercato che vale da solo oltre 88 miliardi di dollari (64 miliardi di euro).
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