All’inizio di questo secolo, quando le guerre interstatali sembravano diradarsi, nuove narrative sulla “guerra” si sono affermate. Paradigmatici sono i casi della “Guerra al terrorismo” e della “Guerra alla droga”. Secondo alcuni, questo uso del termine “guerra” è stato profondamente problematico. Il dibattito che ne è seguito ha dimostrato che le distinzioni tra pace, guerra e altre situazioni violente potevano essere messe in discussione anche in modo radicale.
Uno degli sviluppi che più ha stimolato tale dibattito è stato l’aumento di violenza, anche estrema, perpetrata da gruppi criminali non-statali legati al narcotraffico in paesi quali ad esempio il Messico. Lì, così come in altre parti dell’America Latina, la violenza delle street gang, delle milizie e dei cartelli è paragonabile, per brutale crudeltà, alle atrocità delle guerre civili. Le risposte repressive fornite da polizia, militari e autorità cittadine, spesso scarsamente equipaggiate per far fronte a fenomeni di tale portata in contesti urbani, hanno portato la situazione all’estremo. Questo circolo vizioso ha quindi alienato le comunità locali, allontanandole dalle forze di polizia e alimentando il problema del controllo della criminalità. In Brasile, per esempio, molti dei residenti delle favelas di Rio de Janeiro hanno più paura di venire uccisi dai colpi di arma da fuoco dei poliziotti piuttosto che da quelli dei narcotrafficanti.
Malgrado gli studi sui conflitti abbiano riconosciuto ormai da lungo tempo la natura criminale di molti attori coinvolti nelle guerre civili, è solo in tempi molto recenti che la natura bellicosa dei gruppi criminali e della violenza urbana ha iniziato a essere investigata in modo sistematico. Alcuni studiosi si sono spinti fino ad annunciare un “nuovo” tipo di guerra o una “insurrezione criminale” in cui istituzioni e autorità statali sono minacciate da fenomeni di violenza urbana che hanno effetti paragonabili a quelli di un golpe Stathis Kalyvas, celebre studioso della violenza nelle guerre civili, ha recentemente osservato che in molte economie emergenti, il crimine organizzato ha essenzialmente rimpiazzato l’insurrezione come sfida principale allo stato. Senza dubbio, in città dove il divario fra violenza criminale e conflitto si è ridotto drammaticamente, la distinzione fra guerra e pace è oggi praticamente impercettibile. In America centrale, la frequenza delle morti causate da episodi violenti dovuti alla criminalità è maggiore rispetto a quella riscontrata in passato dovuta alle guerre civili. Detto altrimenti, il crimine uccide più della guerra. In una graduatoria stilata nel 2017 dall’International Institute for Security Studies (IISS) sulle zone di conflitto più letali al mondo tale paese si è piazzato secondo, subito dopo la Siria.
È quindi possibile considerare le “insurrezioni criminali” vere e proprie guerre al di là del nome che portano? Nonostante tutte le similitudini, è necessario evitare amalgami semplicistici fra violenza criminale e guerre civili e riconoscere le differenze cruciali che esistono fra i due fenomeni in termini di attori coinvolti e contesti in cui si svolgono. Inoltre, perdersi in dibattiti accademici su cosa qualifichi una guerra come tale – per quanto importante questo sia sotto svariati punti di vista (per esempio in ambito legale e umanitario) – rischia di distogliere l’attenzione da questioni più urgenti, e cioè come è meglio rispondere alla violenza, in qualsiasi modo la si voglia chiamare. È questo l’obiettivo che dovrebbe collocarsi al centro delle crescenti preoccupazioni in materia di sicurezza, soprattutto dato che nel XXI secolo la violenza urbana potrebbe essere una delle sfide principali da affrontare.
La crescente centralità della violenza urbana nelle dinamiche globali di conflitto, sicurezza e sviluppo è tale da esortare lo studio della violenza a spostare l’attenzione sulla sua dimensione cittadina, tenendo conto della rapida urbanizzazione avvenuta negli ultimi decenni, che non accenna a diminuire nel corso del XXI secolo. Il 54% della popolazione mondiale vive oggi nelle città, e le Nazioni Unite stimano che entro il 2050 questo numero aumenterà fino al 66%. Il 90% di questo aumento è previsto in Africa e in Asia portando cioè quasi il 70% della popolazione del sud del mondo a risiedere nelle città entro il 2050.
Nonostante i numerosi aspetti positivi derivanti dall’urbanizzazione, questo trend globale presenta sfide complesse per le città in fase di sviluppo, dove le risorse e le infrastrutture necessarie per far fronte a una crescita demografica considerevole sono carenti. Robert Muggah definisce queste città “fragili”, adottando la terminologia spesso riferita agli stati nella letteratura sul conflitto. Muggah, così come altri analisti, avverte dei pericoli di un “collasso urbano” e un aumento della violenza nelle città fragili. In Africa, la rapida urbanizzazione sta alimentando i timori che in città che si trovano già sotto considerevole stress, la violenza possa aumentare. A Lagos, in Nigeria, per esempio, la popolazione è passata da 7,2 a 17,9 milioni di persone fra il 2000 e il 2015 e si ritiene raddoppierà ancora entro il 2050.
Anche se l’urbanizzazione è di gran lunga più rapida nelle regioni in via di sviluppo, sarebbe fuorviante concludere che le sfide a essa associate non si applichino anche ad altre regioni del mondo più ricche che, infatti, sono anche le più urbanizzate. L’82% dei nordamericani e il 73% degli europei vive in aree urbane. Nel 2014, anche l’82% della popolazione del Regno Unito viveva nelle città, una percentuale destinata a crescere almeno fino al 90% entro il 2050. Le principali città di tutto il mondo presentano gli stessi sintomi della rapida crescita urbana: palesi ineguaglianze socio-economiche e forte disorientamento su come affrontare la violenza urbana. In sintesi, le città sono messe di fronte alle stesse sfide in tutto il mondo, nonostante esse posseggano livelli di risorse, esperienza e capacità di risposta molto diversi.
La sempre maggiore interconnessione fra stati e città a livello globale è un’altra ragione per non escludere le regioni più ricche dal ragionamento. La violenza urbana e i cambiamenti demografici in una regione hanno un impatto diretto su un’altra, come esemplificato tragicamente dal massiccio flusso di migranti e rifugiati che attraversano il Mediterraneo. Ovunque la violenza si radichi, non lo fa in isolamento all’interno dei confini di città o regioni. Oggi più che mai le città sono plasmate da influenze provenienti da tutto il mondo. Il crescente uso dei social media da parte dei giovani, inclusi i membri delle gang, lo scambio di quella che potrebbe essere definita una cultura popolare “urbana”, e lo spostamento fisico, tanto di giovani quanto di attori criminali, sono tutti fattori che portano alla conclusione che nessuna area urbana può essere oggi completamente compresa se osservata singolarmente. Il fatto che il commercio globale e l’uso di narcotici siano alla base di molta della violenza che pervade le città in entrambi gli emisferi, e che l’offerta proveniente dai paesi del sud del mondo sia strettamente legata alla domanda del nord enfatizza ulteriormente questo elemento.
Il ruolo centrale delle città per la sicurezza umana e lo sviluppo richiede a studiosi e esperti di conflitto e peacebuilding di rimettere a fuoco la loro attenzione. Considerando il ritmo senza precedenti con cui l’urbanizzazione sta procedendo a livello globale, le Nazioni Unite avvertono che le città sono esposte a disuguaglianze sociali, economiche e territoriali sempre più ampie. Disuguaglianze crescenti e esclusione possono poi declinarsi in comunità esclusive e gated communities, quartieri fatiscenti, alti tassi di disoccupazione giovanile, e possono infine risultare insostenibili. Non da ultimo, fra le conseguenze disastrose di quella che potrebbe sembrare una visione distopica, ma che è già tristemente realtà in molti quartieri nel mondo, c’è l’aumento della violenza, fino a situazioni di “guerra urbana”.
Ciò spiega perché la violenza urbana è un fenomeno che caratterizzerà l’(in)sicurezza nel XXI secolo e perché ricercatori accademici, policy-maker e chiunque sia coinvolto nel rispondervi devono lavorare insieme per trovare soluzioni. Nonostante i toni allarmanti che hanno portato alla definizione del concetto di fragile cities, la precisa relazione fra urbanizzazione, marginalizzazione giovanile e violenza richiede maggiore attenzione e, cosa forse ancora più importante, un’analisi approfondita di quali risposte concrete – al di là del dispiegamento massiccio di forze di sicurezza – possano fornire soluzioni efficaci in un’ottica di lungo periodo.
Per saperne di più
Kalyvas, S. N. (2015) “How civil wars help explain organized crime – and how they do not”, Journal of Conflict Resolution, vol. 59 (8), pp. 115-1740. Disponibile su: http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/0022002715587101
Killcullen, D. (2012) “The city as a system: Future conflict and urban resilience”, Fletcher Forum of World Affairs, vol. 36(2), pp. 19-39. Disponibile su: https://static1.squarespace.com/static/579fc2ad725e253a86230610/t/57ec7faf5016e1636a22a067/1475116977946/Kilcullen.pdf
Moncada, E. (2013) “The politics of urban violence: The challenges for development in the Global South”, Studies in Comparative International Development, vol. 48(3), pp. 217-239. Disponibile su: https://link.springer.com/article/10.1007/s12116-013-9133-z
Muggah, R. (2017) Urban Fragility: The big picture, United Nations University, Centre for Policy Research, 16 febbraio 2017. Disponibile su: https://cpr.unu.edu/tag/fragile-cities
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