La guerra in Ucraina e il fascino delle spiegazioni facili

Che vi siano teorie dietro le spiegazioni fornite al pubblico dagli esperti di politica internazionale molti lo avranno scoperto di recente, nel terribile frangente della guerra mossa all’Ucraina dalla Federazione Russa. Infatti, di norma gli strumenti utilizzati per interpretare le diverse vicende non vengono esplicitati, e per una buona ragione: anche sintetizzando il percorso che ha condotto a trarre una determinata conclusione, si porterebbe via spazio alla risposta puntuale che l’interlocutore si attende. Questa volta, però, le cose sono andate in modo differente. Il Realismo, teoria delle Relazioni Internazionali potente e complessa, si è conquistato un ruolo di spicco nel discorso pubblico. Perché ciò sia accaduto e quanto il Realismo – per come è stato utilizzato – ci abbia aiutato a comprendere perché la Russia ha scatenato il conflitto armato del quale siamo inorriditi testimoni sono due domande legittime alle quali val la pena di provare a dare una risposta.

Innanzitutto, il Realismo ha ottenuto un’attenzione inedita sui media perché un noto esponente di questo filone di analisi, John Mearsheimer, il 19 marzo ha pubblicato un articolo su The Economist nel quale attribuisce all’Occidente la responsabilità principale del conflitto, che egli interpreta come reazione della Federazione Russa – decisa dal presidente Putin, responsabile dunque di come la guerra viene condotta – al progressivo allargamento della NATO. Questo argomento è quindi entrato nel dibattito mediatico italiano attraverso commenti che hanno richiamato il Realismo stesso o la “teoria delle Relazioni Internazionali” tout court (come se le due cose coincidessero) per avallare l’interpretazione di Mearsheimer, in un ragionamento evidentemente circolare. Al di là del fatto che, come vedremo, la spiegazione dello studioso non è condivisa da tutti i realisti e non è l’unica possibile anche restando nell’alveo del Realismo, data l’ampia circolazione e la delicatezza della questione è innanzitutto opportuno chiedersi se essa sia convincente.

Va detto, per cominciare, che la tesi di Mearsheimer origina dalla variante offensiva del Realismo, da lui stesso elaborata anni fa. In sintesi, nel suo libro La logica di potenza, pubblicato nel 2001, egli sostiene che, per effetto dell’anarchia (ovvero dell’assenza di un governo mondiale), è la paura a guidare la condotta degli attori nel sistema internazionale. Le grandi potenze, che ne hanno le capacità, sono quindi indotte a perseguire l’egemonia poiché, dominando il sistema internazionale, non rischierebbero più di essere dominate. L’egemonia è, insomma, l’unica vera garanzia di sicurezza per chi è forte. Mearsheimer sostiene dunque che, per questa ragione, le grandi potenze sono inevitabilmente revisioniste, cercano cioè di cambiare lo stato delle relazioni internazionali in funzione dei propri interessi.

Se si sposa questa logica, tutti i paesi hanno sempre ragione di avere paura di tutti gli altri. Ciò spiegherebbe quindi innanzitutto perché attori europei medio-piccoli in termini di capacità abbiano nel tempo aderito alla NATO, non potendo aspirare all’egemonia per proteggersi da soli, e altri stiano pensando di farlo ora. La paura spiegherebbe anche perché la Russia abbia deciso di muovere guerra all’Ucraina esattamente come potrebbe spiegare lo scoppio di un conflitto armato tra qualsiasi altra coppia di paesi: tutti hanno paura degli altri, tutti aspirano all’egemonia (almeno regionale, visto che quella globale è un’ambizione per pochi). Perché, tuttavia, la guerra è stata mossa proprio contro l’Ucraina e perché oggi, nel 2022? Non sarebbe stato logico, in base al Realismo offensivo, che la Russia nutrisse la stessa preoccupazione nei confronti della Polonia prima del 1999, o delle repubbliche baltiche prima del 2004? Perché la sua paura non ha avuto lo stesso sbocco prima che questi paesi aderissero alla NATO? Se il timore per l’ampliamento della NATO nasce nel 2008, quando Ucraina e Georgia vengono menzionate come potenziali futuri membri, perché non suscitano reazioni violente le successive ammissioni dell’Albania e della Croazia nel 2009? La ragione – scrive Mearsheimer su The Economist – è che, prima dell’annessione russa della Crimea, nel 2014, “l’espansione della NATO aveva lo scopo di trasformare l’Europa in una immensa zona di pace, non di contenere una Russia vista come pericolosa”. Ma questa affermazione è problematica dal punto di vista del Realismo offensivo. Se applichiamo la logica originaria di Mearsheimer, anche prima del 2014 la Russia non poteva che temere l’espansione della NATO, quali che fossero le effettive intenzioni dell’alleanza. Sfiducia e sospetto, per il Realismo offensivo, sono proprio ciò che permette di assegnare un ruolo fondamentale alla paura nel determinare (e quindi spiegare) le condotte: le intenzioni degli altri non possono mai essere stabilite con certezza in anarchia dato che non si conosce sin dove la ricerca della sicurezza li porterà.

Perché la paura della Russia sia affiorata proprio ora, portando alla guerra, è qualcosa che non può essere spiegato in base ai modelli teorici del Realismo offensivo. O meglio, non si può spiegare se non cambiando i termini del ragionamento. Né prima né dopo il 2014 la Russia aveva ragione di credere che sarebbe stata aggredita dalla NATO (e men che meno dall’Ucraina). Se mai era preoccupata di essere contenuta – questo scrive Mearsheimer –, dopo che aveva compiuto un’allarmante mossa “impulsiva” – così prosegue lo studioso – annettendo la Crimea “in risposta al colpo di stato che aveva rovesciato il leader pro-russo dell’Ucraina”. Più che la paura della NATO, il movente dell’aggressione di oggi sembra essere dunque la frustrazione russa per la progressiva perdita di ascendente sull’Ucraina. Uno sviluppo che era senz’altro sgradito alla Russia in quanto avrebbe potuto contribuire de facto al contenimento delle sue aspirazioni egemoniche sulla regione, aspirazioni di certo non motivate dall’istinto di sopravvivenza del paese, come lo stesso Mearsheimer conviene. Il Realismo offensivo può dunque offrire spunti al dibattito, ma non consente di chiuderlo semplicemente rimandando al fattore strutturale paura, come alcuni sembrano suggerire.

Per completezza di informazione andrebbe anche detto che Mearsheimer, insieme a Stephen Walt, ha perorato la causa della strategia di offshore balancing per gli Stati Uniti, ovvero di un progressivo disimpegno del paese a fronte di un incremento del ruolo degli alleati nelle diverse regioni del mondo. Questa strategia è alternativa all’egemonia liberale, della quale la NATO è espressione, così come altre organizzazioni che fanno parte dell’ordine creato su impulso americano dopo la Seconda guerra mondiale. L’offshore balancing vedrebbe quindi gli Stati Uniti spalleggiare gli alleati regionali soltanto in caso di necessità e possibilmente quando, da un eventuale conflitto in cui finissero trascinati, fosse possibile ottenere i massimi benefici in rapporto ai costi sopportati. L’argomento che Mearsheimer ha avanzato su The Economist porta acqua al suo mulino, ovvero a quello dell’offshore balancing: se il problema è l’espansione della NATO, lasciare che gli Europei bilanciassero autonomamente la Russia sarebbe stata la soluzione migliore per gli Stati Uniti dopo la Guerra fredda, cioè quella caratterizzata dalla minima spesa e dalla massima resa. La paura avrebbe continuato a lavorare a favore della guerra, ma gli Stati Uniti avrebbero potuto nel frattempo osservare a distanza, occupandosi dei fatti loro. Sino a che non si fosse arrivati a un conflitto su vasta scala naturalmente, ma almeno Washington avrebbe potuto stabilire quando e come entrare in partita.  Poiché l’amministrazione Biden è certamente proattiva in politica estera, perciò più sensibile agli argomenti dei fautori dell’internazionalismo liberale, l’occasione offerta dalla guerra in Ucraina deve essere apparsa utile a Mearsheimer per ribadire, attraverso la critica all’allargamento della NATO, la superiorità dell’offshore balancing come strategia di politica estera per gli Stati Uniti.

Insomma, la variante offensiva del Realismo che ha plasmato il dibattito su cause e responsabilità del conflitto non persuade. Autorevoli commentatori, che pure si riconoscono nell’approccio realista, hanno sostenuto che per una spiegazione soddisfacente occorre guardare piuttosto ai fattori privilegiati dal Realismo classico: gli interessi nazionali e il potere, nonché il decisore che deve via via stabilire come il secondo possa meglio servire i primi. Il problema, per i realisti classici, non è la struttura anarchica del sistema, con il corollario della paura, ma il ruolo che può giocare, e in questo frangente ha giocato, “l’espansionista creativo” – nell’indovinata rappresentazione di Barry Posen –, ovvero il leader che in un sistema internazionale ormai ben avviato verso la multipolarità, – dunque “complesso, flessibile e pieno di opzioni” – è “sedotto a cercare opportunità, che occasionalmente esistono” per  realizzare il proprio interesse nazionale. L’alternativa a un attore meccanicamente condizionato dalla paura non è quindi un attore giudicato irrazionale, e che dunque sfugge alla nostra comprensione (come suggerisce Mearsheimer nel suo articolo), ma un soggetto che persegue quello che, a torto o a ragione, concepisce come l’interesse nazionale del suo paese, approfittando degli spazi che via via vede schiudersi. Ecco una spiegazione, sempre in chiave realista, che pone la debolezza percepita dell’Occidente, piuttosto che la sua forza, all’origine di questa disgraziata avventura.

Non c’è dunque un Realismo, ma diversi realismi, e ciascuno offre una diversa interpretazione di questo conflitto, delle sue cause e delle sue conseguenze. La variante meno convincente è quella che deresponsabilizza la leadership russa, che ha certamente trascurato almeno il precetto realista della prudenza. Lasciando da parte altri ordini di osservazioni che esulano dal nostro argomento, se consideriamo che i decisori siano condizionati dal contesto al punto da non decidere nulla ci priviamo della possibilità di indagare che cosa stia dietro comportamenti radicalmente diversi tra loro e nel tempo. Quel che è più grave, così facendo, insieme a quello dei decisori, disconosciamo il ruolo dei cittadini in politica estera, anche quando per dire la loro pagano un prezzo importante.


Per saperne di più

Brooks, S.G., Ikenberry, G.J. & Wohlforth, W.C. (2012) Don’t come home, America: The case against retrenchment. International Security, 37(3).

Kirshner, J. (2012) The tragedy of offensive realism: Classical realism and the rise of China. European Journal of International Relations, 18(1).

Mearsheimer, J.J. (2001) La logica di potenza, trad. Egea (2003) (titolo originale The tragedy of great power politics).

Portinaro, P.P. (1999) Il realismo politico. Laterza.


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