La presenza cinese nella piccola provincia di Prato è un fenomeno che ha ricevuto forte attenzione a livello accademico e mediatico, generando un acceso dibattito sulle conseguenze che essa produce a livello economico e sociale. Molto dell’interesse per la questione cinese a Prato nasce dalla peculiarità del contesto: uno dei principali distretti industriali nazionali e un settore – quello tessile – in cui la spettacolare crescita della competizione cinese investe una delle tradizionali specializzazioni del cosiddetto “made in Italy”. Ma la storia è evidentemente più complessa e una presentazione del fenomeno informata da nuova evidenza statistica può contribuire a una migliore interpretazione delle sue dinamiche.
La prima vera ondata migratoria cinese a Prato si registra intorno all’inizio degli anni novanta (Figura 1). Ciò coincide con una fase di declino e successiva ristrutturazione del distretto tessile, dovuta a una crisi del tipo di specializzazione locale (la lavorazione della lana rigenerata) e a una successiva ripresa accompagnata dallo sviluppo di un comparto a minor valore aggiunto (quello della maglia), che ha portato con sé un incremento della domanda di forza lavoro poco qualificata, specialmente per l’attività di cucitura. Attratti dalla possibilità di inserirsi in un comparto lasciato libero dai lavoratori locali e caratterizzato dalla semplicità del processo produttivo e dal basso capitale necessario per mettersi in proprio, molti cinesi provenienti da altre parti d’Italia o d’Europa o direttamente dalla Cina (specialmente dalla cintura della città di Wenzhou, provincia dello Zhejiang) diedero vita a un rapido processo di agglomerazione, che nel giro di pochi anni ha visto aumentare esponenzialmente sia il numero di individui (Figura 1) che il numero di nuove imprese (Figura 2).
A livello imprenditoriale, è stato osservato come l’ascesa cinese a Prato sia interessante perché non va ad inserirsi all’interno della specializzazione che più caratterizzava il distretto – quella tessile – ma in un tipo di produzione al tempo minore – l’abbigliamento – che si sviluppa su larga scala proprio grazie all’arrivo dei cinesi. Ed è soprattutto grazie all’arrivo dei cinesi, tra l’altro, che a Prato si sviluppa un nuovo sistema produttivo, quello del cosiddetto “pronto moda”, che meglio si adatta alle nuove dinamiche dei mercati internazionali. Ben presto, i primi gruppi di cinesi seppero crescere trasformandosi da semplici sub-fornitori a basso costo per le imprese locali a vere e proprie piccole imprese finali in contatto diretto con il mercato. L’esempio di questi primi nuovi imprenditori ha messo in moto un processo imitativo da parte di altri piccoli fornitori e nel giro di poco tempo ha sviluppato un vero e proprio modello di divisione del lavoro a livello locale, che ha coinvolto un numero ancora maggiore di imprese cinesi. Tra la fine degli anni Novanta e gli anni più recenti il numero di imprese cinesi è quasi quintuplicato (Figura 2), non solo grazie a un nuovo incremento di imprese finali e sub-fornitori nel settore, ma anche grazie allo sviluppo di attività complementari, specialmente nei servizi al commercio (Tabella 1).
Oggi, a oltre vent’anni dall’insediamento cinese a Prato, molto ancora si dibatte sugli effetti economici, sulla componente sommersa e sulle questioni legate all’integrazione. Riguardo all’impatto economico, si rilevano almeno due tesi contrapposte: la prima è che l’arrivo dei cinesi a Prato abbia contribuito in modo significativo al declino del sistema produttivo locale; la seconda è che – al contrario – proprio grazie all’arrivo dei cinesi il distretto sia riuscito a ristrutturarsi in modo tale da poter affrontare al meglio le dinamiche dei mercati globali – e che quindi l’esistenza stessa del comparto sia stata salvata dall’arrivo dei cinesi. Come spesso accade, la verità sta nel mezzo, ed è molto più complessa di quanto si possa derivare da queste semplici proposizioni.
La componente “sommersa” della presenza cinese – quella delle migliaia di lavoratori giunti illegalmente (stimati in circa 7.000 unità) e impegnati in attività lavorative fuori controllo e spesso in situazioni estreme – è innegabilmente il fulcro della questione. È soprattutto a causa del sommerso che le statistiche tradizionali non sono finora riuscite a quantificare il peso reale della quota cinese sull’economia di Prato. A questo riguardo, è da segnalare un recente lavoro a cura di un gruppo di ricercatori dell’Irpet che – combinando statistiche ufficiali con metodi di stima basati sul consumo delle risorse (come la quantità di acqua utilizzata nel processo produttivo) – ha stimato che l’attività delle aziende cinesi contribuisca per 14,3% della produzione totale e per il 10,3% del valore aggiunto della provincia, con un picco del 45% per il solo settore tessile (Figura 3).
Ma, oltre agli aspetti prettamente economici, il caso di Prato merita attenzione anche per gli aspetti legati al processo di integrazione sociale di una comunità cinese oggi tra le più grandi d’Europa. Se fino a poco tempo fa vi era una netta separazione tra la comunità locale e quella cinese, l’espandersi all’interno del secondo gruppo di una generazione di nuovi nati nella provincia (un quinto degli attuali residenti, Tabella 2) non potrà far altro che contribuire positivamente al processo di integrazione culturale, sociale ed economica negli anni a venire.
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