Nella prima metà del 2012 l’amministrazione Obama ha lanciato un’intensa operazione di spin-doctoring, ri-etichettando una delle sue più incisive direttrici di politica estera. Ciò che per mesi era stato chiamato il “pivot” degli Stati Uniti verso l’Asia – vale a dire una serie di politiche volte a rafforzare l’egemonia americana in Asia-Pacifico a fronte dell’ascesa cinese, attraverso il rilancio di impegni diplomatici e militari nell’intera regione – veniva improvvisamente ribattezzato con l’assai meno enfatico termine di “riequilibrio” (rebalance).
In altre condizioni, una ridefinizione di questo genere potrebbe sembrare priva di importanza. La politica estera degli Stati Uniti viene spesso presentata al pubblico attraverso slogan semplicistici – basti pensare a “hearts and minds” in Vietnam, a “clear, hold and build” in Iraq, o al tanto criticato “reset” nelle relazioni con la Russia. Concepiti per trasmettere idee complesse a un pubblico che è per lo più distratto, indifferente o disinformato, questi slogan di rado rivelano qualcosa di significativo sulle prospettive e sui limiti delle politiche che intendono sintetizzare, sulle sfumature della loro attuazione, o sulla loro stessa logica strategica.
In questo caso, tuttavia, il passaggio da “pivot” a “rebalance” è in realtà rivelatore. La nuova denominazione, infatti, riflette i timori di abbandono da parte di alleati e clienti di Washington al di fuori dall’Asia, in particolare in Europa e in Medioriente. Agli occhi di questi paesi il “pivot” verso l’Asia implicava la possibilità di un allontanamento di Washington dai loro teatri, con una rinuncia a quelle responsabilità strategiche a livello regionale da cui essi continuano a dipendere. Per l’amministrazione Obama la scelta del termine “rebalance” ha quindi rappresentato un compromesso. La ridenominazione è diventata così lo strumento per rassicurare gli alleati, con l’implicita conferma che gli impegni americani – dall’Europa al Golfo Persico – non vengono meno nel momento in cui Washington sposta il proprio sguardo verso il Pacifico.
E proprio qui sta uno dei dilemmi del riequilibrio verso l’Asia. Washington ha finora rifiutato di ridurre i propri impegni globali per concentrarsi sull’Asia. Ciò è problematico non solo in ragione del contestuale taglio al bilancio della difesa, o per le difficoltà fiscali del paese, né semplicemente per l’inesorabile crescita del peso economico e strategico della Cina – che ha già iniziato a erodere la capacità degli Stati Uniti di imporre nella regione ordine e prevedibilità di condotta. È problematico soprattutto perché, allo stesso tempo, Washington resta impegnata a mantenere la propria egemonia in Europa e nel Medioriente: due regioni con dinamiche peculiari, che continueranno ad assorbire risorse e concentrazione nei prossimi decenni, con ciò attenuando le energie che gli Stati Uniti possono dedicare all’Asia in questa fase eccezionale di cambiamento.
Dopo uno dei secoli più sanguinosi e conflittuali della storia, dalla fine della Guerra fredda l’Europa ha goduto per oltre vent’anni di relativa tranquillità. Almeno in Europa occidentale, la politica di potenza è stata tenuta sotto controllo grazie a un duraturo riavvicinamento tra Gran Bretagna, Francia e Germania – sorretto a sua volta dal perdurare dell’egemonia americana. Con il dispiegamento di un potere militare preponderante in Europa centrale, gli Stati Uniti hanno evitato un riarmo convenzionale di Parigi, Berlino o Londra, assicurando a ciascuna delle tre capitali una garanzia nei confronti delle altre e – attraverso la NATO – fornendo a tutte e tre garanzie nei confronti della Russia.
Ma l’impegno degli Stati Uniti non è rimasto confinato all’Europa occidentale. L’improvvisa disintegrazione dell’Unione Sovietica alla fine della Guerra fredda ha dato forza alla NATO, consentendone una dilatazione verso est sullo slancio di una nuova convergenza ideologica. Per i liberali, l’espansione della NATO rappresentava la naturale conseguenza di una nuova strategia, che poneva l’accento sulla produzione di beni pubblici universali – la democrazia, i diritti umani, la stabilità strategica e mercati aperti. Per i realisti, l’espansione della NATO significava invece l’accerchiamento di una Russia indebolita, con il consolidamento della supremazia americana e l’affermazione di una gerarchia del potere internazionale tale da non lasciare dubbi a Mosca circa gli esiti potenziali di un suo rinnovato avventurismo.
Qualunque fosse la logica, il risultato oggi è un sovraccarico di responsabilità per gli Stati Uniti in Europa orientale. Le forze americane sul continente vengono ridimensionate per consentire il riequilibrio verso l’Asia, ma Washington resta impegnata – attraverso l’articolo 5 del Patto Atlantico – a garantire la difesa della Polonia e dei paesi baltici, alla periferia occidentale della Russia. Nel frattempo l’Europa occidentale, assediata dalla crisi finanziaria e da una difficile situazione economica, non è in condizione di assumersi maggiori oneri nell’alleanza, mentre la crisi dell’Eurozona ha evidenziato come la disponibilità dei paesi europei ad assumersi impegni a sostegno reciproco resti limitata.
La Russia di oggi non è senza dubbio l’Unione Sovietica: non avanza alcuna immediata pretesa territoriale e non ha fretta di mettere alla prova la determinazione degli Stati Uniti in Europa orientale. Ma la Russia non può certo definirsi una potenza soddisfatta. La Storia non è mai stata generosa con la Russia quando questa non ha dominato sulla propria periferia. Nella sola età moderna, l’eredità di ripetute invasioni – da Napoleone a Hitler – ha creato un diffuso e perdurante senso di insicurezza nelle menti dei leader russi, la cui risposta istintiva è stata l’espansione delle frontiere del paese verso ovest. In breve, se gli Stati Uniti intendono mantenere la propria credibilità in Europa occidentale, dovranno mantenere la propria credibilità anche in Europa orientale. E ciò significa mantenere un livello di forze (in particolare aeree e di terra) adeguato a giocare un ruolo decisivo in ogni eventuale scenario europeo, inclusa una guerra di vasta portata con la Russia. Questo impone a sua volta limiti considerevoli alle risorse che gli Stati Uniti possono reindirizzare verso l’Asia.
Allo stesso tempo, anche il mantenimento dell’egemonia americana in Medioriente sta diventando più gravoso. La guerra in Iraq è finita, almeno dal punto di vista degli Stati Uniti, e la guerra in Afghanistan è in via di conclusione, per quanto la violenza in entrambi i paesi persista e si stia anzi intensificando. In Iraq Saddam è stato liquidato e la violenza convulsa che ha fatto seguito al suo regime si è in parte attenuata. Tuttavia a ciò hanno fatto seguito un sistema politico frammentato, continui spargimenti di sangue e una (seppur limitata) forma di egemonia iraniana sul paese, che si va consolidando in assenza di forze americane e che appare destinata a diventare ancor più radicata con lo sviluppo di capacità nucleari da parte dell’Iran. Un Iran nucleare, in grado di dissuadere ogni potenza dall’intraprendere operazioni che possano minacciare i suoi interessi vitali, sarà più assertivo nell’estendere la propria influenza regionale – e nel farlo, diventerà un interlocutore ancor più importante per potenze esterne alla regione, come la Cina e la Russia.
Come in Europa occidentale, anche in Medioriente gli alleati degli Stati Uniti – in particolare i piccoli Stati del Golfo e l’Arabia Saudita – non sono nella posizione di poter efficacemente contrastare la crescente influenza dell’Iran. Sono troppo piccoli e fragili, e per effetto della primavera araba sono anche sempre più concentrati sui propri problemi interni. La responsabilità continuerà quindi a ricadere su Washington, il cui dominio strategico nella regione, in assenza di significative basi militari, dipenderà sempre più dalla disponibilità di forze aeree e marittime avanzate, che non potranno pertanto essere ridispiegate in Asia.
L’Europa e il Medioriente presentano ciascuno le proprie specifiche sfide. Per gli Stati Uniti, che non appaiono disposti a rinunciare al proprio dominio in nessuna delle due regioni, la presenza in entrambe di un potenziale sfidante con vaste ambizioni geopolitiche – unita alla presenza di alleati ansiosi e dipendenti – comporta seri problemi nel riequilibrio verso l’Asia.
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