I dilemmi dell’Asean Regional Forum

Nel Mar della Cina orientale e in quello meridionale sono tornate a crescere, nelle scorse settimane, le tensioni tra la Cina da una parte, e Giappone, Filippine e, soprattutto, Vietnam dall’altra. È in realtà da tempo che il clima nell’area si va surriscaldando, ma la situazione sta ora assumendo profili inquietanti, come testimoniano le proteste popolari contro le sedi diplomatiche cinesi autorizzate dalle autorità vietnamite (normalmente proibite) nelle due principali città del paese – Hanoi e Ho Chi Minh City – e ancor di più le recenti esercitazioni militari vietnamite. Il Pacifico occidentale è uno scacchiere dove sono probabili continue frizioni tra le potenze litoranee.

La sicurezza nella regione è stata al centro dell’ultimo vertice – il 17° – dell’Asean Regional Forum (Arf), svoltosi a Hanoi nel luglio 2010.

In quell’occasione il Segretario di Stato Clinton dichiarò che “è nell’interesse nazionale degli Stati Uniti tutelare la libertà di navigazione” nel Mar della Cina meridionale. Washington è disponibile ad agevolare un “processo diplomatico multilaterale” per risolvere le varie dispute territoriali, come richiamato a più riprese nei mesi scorsi. Pechino, da parte sua, non ha lesinato critiche al rinnovato impegno degli Usa a tutela degli alleati nella regione. La dialettica Washington-Pechino ha influito negativamente sull’Arf, facendolo apparire più come un luogo di scontro tra le due potenze che come un forum dedito alla promozione della fiducia tra gli attori dell’area. Il rischio è che una deriva di questo genere comprometta anche la centralità strategica dell’Asean (Association of South-East Asian Nations) quale veicolo di una progressiva istituzionalizzazione dell’architettura di cooperazione regionale in Asia orientale.

Le dinamiche del vertice di Hanoi sono un esempio di come interazioni “negative” tra gli attori coinvolti in meccanismi multilaterali regionali possano comprometterne le prospettive di consolidamento. Nel caso dell’Arf l’orizzonte è denso di nubi: con una Cina sempre più assertiva e il primato statunitense sottoposto a crescenti pressioni, si va diffondendo una sensazione di incertezza, tipica di un periodo di transizione, che genera tensioni. Le istituzioni regionali già denotano politiche di soft-balancing al proprio interno e, sebbene l’Asean abbia lanciato due nuovi progetti sotto l’egida dell’Arf, l’Arf Unit e l’Arf Fund, non è chiaro che tipo di impatto essi potranno realmente avere.

Le prospettive dell’Asean come istituzione-guida del processo di integrazione regionale dell’Asia orientale dipenderanno dalla sua capacità di gestire le sempre più complesse relazioni con le grandi potenze nel suo vicinato. Si coglie distintamente, infatti, l’emergere nell’area di due sistemi di rapporti gerarchici intrinsecamente eterogenei: uno economico, di cui la Cina è sempre più il baricentro; l’altro di sicurezza, ancora imperniato sugli Stati Uniti. Costretti a misurarsi con due logiche diverse e a tratti inconciliabili, i dieci paesi dell’Asean e l’associazione nel suo complesso saranno chiamati a giocare su molti tavoli partite diplomatiche assai diversificate, con esiti incerti per il futuro del regionalismo nell’area.

L’Arf può avere un ruolo cruciale nell’indurre la Cina ad aderire a norme e prassi virtuose e rimane essenziale per la costruzione di una comunità di sicurezza regionale. È d’altronde l’unico forum di questo genere in Asia orientale. Per poter durare, esso dovrebbe evolvere in uno strumento capace di produrre meccanismi di sicurezza più avanzati nella regione, concentrandosi sulla gestione di specifiche dispute attraverso accordi negoziati. Dovrebbe anche promuovere la cooperazione funzionale, ad esempio le operazioni di soccorso in caso di disastri naturali e le misure di fiducia (confidence-building) nel campo della sicurezza navale.

Per i paesi Asean è pericoloso cedere alla tentazione di “colpire l’avversario con un coltello preso in prestito”. Se è vero che il vertice di Hanoi ha evidenziato il desiderio di molte cancellerie dell’Asia sud-orientale per un maggiore impegno degli Stati Uniti nell’area, è altrettanto chiaro che queste non auspicano nuove logiche egemoniche da parte di Washington, data anche la crescente interdipendenza economica con la Cina. Piuttosto è urgente che sia la Repubblica popolare cinese sia gli Usa ricalibrino il proprio approccio verso le politiche di sicurezza multilaterali dell’Asia Pacifico. Pechino, da sempre fautrice di un approccio bilaterale nel campo della sicurezza, dovrebbe sostenere i meccanismi multilaterali esistenti nella regione. Ma anche Washington deve ripensare il suo ruolo regionale: la sua presenza regionale, rafforzatasi di recente, deve essere creativa e costruttiva, e non orientata a mere logiche di containment.

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