Nel 2012 cade il quarantesimo anniversario della normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Australia e Repubblica popolare cinese (Rpc). I rapporti tra la grande potenza asiatica (un colosso di 1,3 miliardi di abitanti concentrati in decine di megalopoli) e il continente down under (sei città separate da un deserto e circondate dal mare) sono radicalmente mutati a partire dagli anni ’90: il decollo economico ha indotto Pechino a diversificare sempre più le sue fonti di approvvigionamento di materie prime, di cui l’Australia è ricchissima. Oggi la Cina è il primo partner commerciale dell’Australia e i sempre più intensi scambi bilaterali pongono il governo di Canberra di fronte a sfide complesse e scelte non facili, come evidenzia anche il Libro bianco sull’Australia nel secolo asiatico, presentato dal primo ministro Julia Gillard a Sydney il 30 ottobre scorso.
Il contributo cinese allo sviluppo della nazione australiana risale al XIX secolo, quando 40.000 minatori cinesi arrivarono, soprattutto nella zona di Melbourne, per partecipare alla corsa all’oro. Una delle espressioni idiomatiche più diffuse in Australia “fair dinkum”, usata per manifestare una reazione positiva a una buona notizia, deriva dalle parole di un dialetto cinese din e kum, che insieme vogliono dire “oro vero”. Da parte australiana, furono soprattutto singoli individui a manifestare interesse per la Cina, come William Donald, che ebbe un ruolo nella redazione della costituzione provvisoria della Repubblica di Cina di Sun Yatsen (1912). Con la fondazione della Rpc, i rapporti ufficiali con Pechino cessarono, ma il contesto regionale e globale odierno ha rilanciato la relazione tra i due paesi, che oggi è ad un livello senza precedenti.
Nel 2010 la Cina rappresentava il primo mercato di sbocco per le esportazioni australiane (22,6% sul totale) e la prima fonte per le importazioni (15,3%). Nel 2009 l’Australia era l’undicesima destinazione dell’export della Cina e il settimo fornitore di importazioni. Lo scambio è inter-industry: mentre la Cina esporta abbigliamento e prodotti dell’elettronica di consumo, in cima alla lista dei prodotti esportati dall’Australia troviamo materie prime quali il minerale di ferro (iron ore) e il carbone. In effetti, 2/3 del carbone importato dalla Cina provengono dall’Australia. Malgrado la crescente cautela con cui vengono approvate le acquisizioni cinesi in settori sensibili (quali miniere – 3/4 degli investimenti – e grandi aziende agricole), la Cina ha investito in Australia 42,9 miliardi di dollari australiani nel triennio 2008-2010, diventando il terzo investitore nel paese dopo Stati Uniti e Regno Unito. Tuttavia, in questi anni di roboanti slogan sulla Cina alla conquista del mondo, i dati vanno letti nella giusta prospettiva: nel 2009, mentre l’investimento totale cinese ammontava a 16,6 miliardi di dollari, quello americano e britannico raggiungeva complessivamente la cifra ben superiore di 500 miliardi di dollari.
Anche i rapporti diretti people-to-people sono in notevole aumento. Nel 2010 450.000 cittadini cinesi hanno visitato l’Australia, con una crescita media annua del 10% a partire dal 2000. La Cina è al primo posto per numero di studenti stranieri nel paese (130.000 nel 2010, pari a 1/4 della popolazione studentesca straniera) e al secondo per numero di immigrati (dopo la Nuova Zelanda). Secondo l’ultimo censimento del 2006 gli australiani di origine cinese sono più di 670.000, su una popolazione di poco superiore ai 22 milioni di abitanti.
I rapporti politici sono certamente più complessi. Sebbene esistano più di venti meccanismi di dialogo a livello ministeriale, ed entrambi i paesi siano membri di importanti consessi globali (G20, Consiglio di Sicurezza Onu, dove l’Australia ha un seggio temporaneo) e regionali (Apec, East Asia Summit, dialoghi in ambito Asean), l’alleanza di sicurezza tra Australia e Stati Uniti è fonte di periodiche tensioni. La fragilità dell’equilibrio è divenuta man mano più evidente soprattutto a partire dal 2011, quando nel suo discorso al Parlamento australiano il presidente Usa Barack Obama ha annunciato lo stanziamento di un contingente fisso di 2.500 marines a Darwin, nel Territorio del Nord, di fronte a Timor Est. Nel discorso Obama ha descritto l’Australia come uno dei cardini del nuovo ri-orientamento asiatico ( pivot to Asia) della politica estera americana. Molti osservatori, e lo stesso governo di Pechino, hanno posto l’accento sull’intento americano di bilanciare, se non di contenere, l’ascesa strategica cinese nel Mar Cinese meridionale, e sul conseguente aumento della tensione nell’area. Un conflitto nella regione tra Washington e Pechino, oltre ad essere foriero di gravi conseguenze per l’intero sistema internazionale, porrebbe l’Australia di fronte a un serio dilemma. Libri come il recente The China Choice, di Hugh White, docente della Australian National University (Anu), stanno suscitando un forte dibattito sui media australiani. La domanda che l’autore si pone è la seguente: come è possibile evitare la deflagrazione di un conflitto regionale con potenziali conseguenze globali? La ricetta è suggerita dall’esperienza europea del XIX secolo: un “concerto tra grandi potenze dell’Asia”, che riunisca allo stesso tavolo – con il reciproco riconoscimento di legittimità di regimi e aspirazioni – Stati Uniti, Cina, Giappone e India. A parte la difficoltà, allo stato attuale, di mettere in atto un simile riconoscimento tra Pechino e Tokyo, la tesi di White è oggetto di quattro critiche, come ricordato da Brendan Taylor nel China Story Yearbook 2012. Innanzitutto, presuppone la sostenibilità della crescita cinese, e sottostima le criticità della situazione interna. In secondo luogo, gli Stati Uniti non sono facilmente disposti a condividere il potere egemonico in Asia (come ha argomentato Bruce Cumings in Dominion From Sea to Sea, l’Asia orientale è parte dell’orizzonte del mito della frontiera americana fin dalla seconda metà dell’800). In terzo luogo, si trascura la capacità non solo dell’India e del Giappone, ma anche della Corea del Sud e del Vietnam di contenere le presunte mire espansionistiche cinesi nel continente. Infine, la tesi è troppo eurocentrica, e di dubbia applicazione perché non tiene conto della diversità culturale e istituzionale dei paesi della regione. In assenza di un “concerto dell’Asia”, la diplomazia australiana è condannata così alla flessibilità e al mantenimento di una “giusta distanza” tra i vari contendenti nel Mar Cinese meridionale e in altre aree di crisi.
Nel corso di un recente viaggio a New Delhi, Julia Gillard ha affermato che i paesi che contano per la diplomazia australiana sono Stati Uniti, Cina, Giappone, India, Corea del Sud, Indonesia. Questo elenco è stato ribadito nel recente Libro bianco, che sostanzialmente delinea un futuro in cui l’Australia è chiamata ad approfittare dei mercati della nuova, gigantesca classe media asiatica, con una politica che mira a rafforzare lo studio delle principali lingue asiatiche nel paese, e ad aumentare il numero di funzionari pubblici e consiglieri di amministrazione con un’approfondita conoscenza dei contesti asiatici. Il Libro bianco è stato criticato dalla business community per l’assenza di proposte concrete di riforma per diversificare l’economia australiana e aumentarne la produttività, e dai media per l’indeterminatezza dei mezzi, soprattutto finanziari, con cui il governo intende attuare la visione contenuta nel documento. Per un governo che nutre attualmente l’ossessione del raggiungimento del surplus di bilancio, quest’ultima è una critica di non poco conto. A meno di non considerare il Libro bianco come un esercizio di retorica destinato a finire nel dimenticatoio, proprio come accade ai libri bianchi cinesi.
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