La visita del Presidente Hu Jintao negli Stati Uniti nel gennaio 2011 ha calamitato l’attenzione del mondo. Ad alcuni mesi di distanza è possibile tentarne un bilancio consuntivo, sia pure provvisorio. Hu aveva due obiettivi fondamentali: ripensare e superare le tensioni prodottesi dall’inizio del 2010 e aprire nuovi orizzonti di cooperazione a livello bilaterale. La risposta è nel complesso positiva.
I rapporti sino-americani hanno già vissuto due momenti fondamentali di aggiustamento nel corso dell’ultimo mezzo secolo, e stanno ora sperimentandone un terzo. Il primo si verifica con la normalizzazione delle relazioni diplomatiche nel 1979, quando i leader dei due paesi colsero l’opportunità offerta dalle mutate condizioni della Guerra fredda per superare le divisioni ideologiche e dare vita a un’alleanza in funzione anti-sovietica. Il secondo ebbe luogo nel biennio 1989-1991, all’indomani degli incidenti di Tienanmen del 4 giugno, del collasso dell’Urss e dell’apertura dei paesi dell’Europa orientale. Privati del loro storico nemico, gli Stati Uniti divennero l’unica superpotenza in un mondo unipolare, mentre la Cina teneva fede al monito di Deng Xiaoping focalizzandosi sullo sviluppo economico e mantenendo un basso profilo.
Il terzo riallineamento nelle relazioni Usa-Rpc è iniziato nel 2009, con i cambiamenti nel ruolo strategico dei due paesi e delle diverse prospettive economiche, con la Cina in costante crescita e gli Stati Uniti indeboliti dalla crisi finanziaria globale. L’influenza cinese negli affari internazionali va infatti acquisendo centralità, mentre il potere di Washington si affievolisce.
La scelta del presidente Obama di invertire la rotta rispetto alla strategie interventiste di George W. Bush è stata apprezzata a Pechino, ma altre decisioni, come quella di proseguire nella vendita di armamenti a Taiwan, dimostrano, agli occhi dei dirigenti cinesi, che l’orientamento fondamentale di Washington resta indirizzato al consolidamento di una egemonia globale (Wiki-Leaks ha reso nota una comunicazione riservata tra il Segretario di Stato Usa Hillary Clinton ed il suo omologo australiano Kevin Rudd sulla necessità di sincronizzare politiche più “dure” verso Pechino). L’“ansia cinese” dell’amministrazione Obama si è fatta sempre più spiccata: preservare l’influenza americana nell’Asia Pacifico è diventato un imperativo strategico per Washington.
Entrambe le parti hanno mostrato nel 2010 una preoccupante tendenza ad ammantarsi della bandiera degli “interessi nazionali”, semplificando, distorcendo e talvolta demonizzando le posizioni dell’interlocutore. Una copertura mediatica equilibrata delle posizioni cinesi verso gli Stati Uniti – complesse, ma di certo non irrazionali – consentirebbe al pubblico americano di comprendere meglio le politiche di Pechino. L’obiettivo resta quello di una relazione bilaterale strategica improntata alla cooperazione, come sottolineato dalla dichiarazione congiunta formulata in conclusione della visita di Hu a Washington. Il presidente cinese ha osservato che occorre “scalare nuove vette per poter vedere a maggior distanza”, mentre il suo omologo statunitense ha confermato la necessità di “remare nella stessa direzione”.
Il risultato positivo del vertice, quindi, non sta tanto nel contenuto degli accordi siglati, quanto nel metodo di lavoro che i due leader hanno dichiarato di condividere. Molti dei problemi che minacciano le relazioni Usa-Rpc hanno carattere strutturale e non sono risolvibili nel breve termine: l’importante è che si possa contare su meccanismi consolidati per la gestione delle divergenze attraverso il reciproco rispetto e l’impegno a trovare soluzioni mutualmente vantaggiose.
La dichiarazione di gennaio è piuttosto breve, ma riflette gli sforzi compiuti per superare i contrasti che hanno avvelenato i rapporti sino-americani nel 2010. Si è cercato di mettere a fuoco le aree di comune interesse: la Corea del Nord (entrambi i paesi hanno espresso preoccupazione per il suo programma di arricchimento dell’uranio), il rapporto dollaro-yuan (la Cina ha promesso di continuare, con lenta gradualità, l’apprezzamento della sua moneta) e persino il sistema delle alleanze statunitensi in Asia orientale, riconosciuto da Hu come un “portato della storia”. Dal canto suo Obama ha confermato che gli Stati Uniti “appoggiano una Cina forte, prospera e di successo”, comprendendo le preoccupazioni che essa ha per la sua sicurezza.
A integrazione del documento, il presidente cinese ha avanzato una proposta in cinque punti per il consolidamento e lo sviluppo delle relazioni bilaterali: l’impegno di entrambe le parti a sviluppare un rapporto politico su basi di uguaglianza; fiducia reciproca e anteposizione dei motivi di convergenza rispetto a quelli di frizione; promozione di legami economici cooperativi a 360° capaci di recare vantaggi a entrambi i paesi; cooperazione per affrontare le sfide globali; incremento delle occasioni di dialogo strategico genuino ad alto livello tra le due parti.
Si tratta di indicazioni importanti nella prospettiva di una relazione bilaterale più matura e il presidente Obama ne ha dato atto paragonando la visita di Hu a quella di Deng Xiaoping nel 1979. Si tratta di un paragone appropriato: nei 32 anni intercorsi dacché Washington e Pechino hanno normalizzato le proprie relazioni diplomatiche, Cina e Stati Uniti sono cambiati, come il mondo nel suo complesso. È ora che questo cambiamento si rifletta anche nelle relazioni sino-americane.
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