Il 2010 sarà un anno cruciale per le relazioni tra la Repubblica Popolare Cinese e Taiwan, l’isola che è de facto indipendente dal 1949, ma che Pechino considera una provincia ribelle . A Taipei, la capitale di Taiwan, si sta infatti facendo serrato il dibattito intorno alla proposta di un Economic Cooperation Framework Agreement (Ecfa) con la Cina – un’area di libero scambio per merci e servizi tra le due sponde dello Stretto di Taiwan.
L’accordo, voluto e negoziato con i cinesi dal presidente taiwanese Ma Ying-jeou, è il cardine della piattaforma politica con cui il suo partito – il Kuomintang – ha vinto le elezioni presidenziali e legislative nel 2008. Con quella vittoria si sono chiusi gli otto anni di primato del Democratic Progressive Party (Dpp) che con le sue posizioni favorevoli alla proclamazione formale dell’indipendenza di Taiwan aveva esacerbato i rapporti con la Cina, rischiando il conflitto armato (nel 2005 Pechino ha approvato una legge la impegna all’intervento armato in caso di iniziative secessioniste da parte di Taiwan).
Oggi Ma può contare sul sostegno della Cina ma ha subito una forte emorragia di consensi all’interno del suo paese. Nonostante la recessione sembri terminata (è prevista una crescita del Pil tra il 4% e il 5% nel 2010), la gestione poco trasparente del negoziato per l’Ecfa sta costando cara al Kuomintang. Nell’ultimo anno, sette degli undici seggi in palio per le elezioni parlamentari suppletive sono andati al DPP (di cui tre nel marzo scorso), così come la maggioranza dei voti nell’ultima tornata di amministrative.
In questo clima ha destato attenzione il dibattito televisivo dedicato al Ecfa che si è svolto lo scorso 25 aprile a Taipei tra Ma Ying-jeou e la signora Tsai Ing-wen, presidente del Dpp. Il presidente Ma ha difeso il negoziato illustrando i rischi di isolamento cui Taiwan andrebbe incontro senza accordi con la Cina in un’epoca in cui in Asia fioriscono alleanze commerciali e politiche, senza dimenticare il vantaggio competitivo di cui le imprese taiwanesi godrebbero se potessero ope-rare in Cina con maggiore libertà, data la comunanza di lingua e cultura. Analisti affidabili confermano questa lettura: Daniel Rosen, ricercatore del Peterson Institute for International Economics (Piie), quantifica in un +5,2% la crescita del Pil di cui Taiwan beneficerebbe grazie all’accordo con la Cina di qui al 2020.
Gli oppositori parlano invece del Ecfa come di un primo passo verso un mercato comune con la Cina, che esporrebbe Taipei a una relazione di sudditanza economica nei confronti del ben più grande vicino. Chiedono quindi che il popolo di Taiwan sia chiamato a un referendum confermativo sull’approvazione dell’accordo, trattandosi non di materia puramente commerciale bensì legata alla tutela della sovranità dell’isola. Il governo si oppone a questa interpretazione e punta a una ratifica per via parlamentare.
La conclusione della vertenza, prevista entro l’estate, avrà un significativo impatto sul futuro dello Stretto di Taiwan, uno dei focolai geopolitici più critici dell’Asia orientale. Gli Stati Uniti, che proteggono l’isola dal tempo della Guerra di Corea (1950-53) e hanno appena venduto a Taipei armamenti per 4,8 miliardi di euro, sono tuttora impegnati a sostenerne la riunificazione con la Cina esclusivamente per via consensuale, orizzonte non vicino data la natura democratica della vita politica taiwanese, a fronte del regime autoritario al potere a Orizzonte Cina, no. 1/2010, p. 3 Pechino. In questo contesto, come confermato di recente dal sottosegretario di Stato Usa David Shear davanti al Congresso, strumenti che garantiscano la stabilità nello Stretto sono guardati con grande favore.
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