I rischi dello sviluppo economico fondato sulle risorse naturali: il caso di Aceh, una provincia indonesiana in bilico

La prossima primavera, nella provincia di Aceh, Indonesia, si terranno le elezioni amministrative e circa 3,4 milioni di elettori (su una popolazione totale di appena 5 milioni di abitanti) saranno chiamati a rinnovare la classe politica locale. Come spesso accade nell’Indonesia dei poteri politici decentralizzati e tenendo conto delle circostanze socio-economiche della provincia, la posta in gioco per i vincitori dell’imminente tornata elettorale è molto alta. Essa consiste, infatti, nel privilegio di controllare l’immensa ricchezza di risorse naturali disseminata sul territorio e di decidere dove incanalare il potenziale economico che da essa scaturisce.

Aceh è una provincia periferica. È collocata nella remota punta occidentale dell’isola di Sumatra – a cavallo della catena montuosa Bukit Barisan e delle sue fitte foreste primarie – ed è incastonata tra l’Oceano Indiano e lo Stretto di Malacca. Oltre a essere caratterizzata da una natura prorompente e pregna di risorse, quest’area è stata profondamente segnata dalla “violenza tettonica” dei terremoti, da un processo di islamizzazione precoce e dalla riluttanza dei suoi abitanti a essere integrati nel progetto coloniale e in quello statuale indonesiano. Inoltre, Aceh è una di quelle poche zone dell’Indonesia (e del Sud-est asiatico) a non essere stata interessata dalle ondate di industrializzazione e dall’ingresso delle aziende multinazionali, né nel settore manifatturiero, né in quello della trasformazione dei prodotti agro-forestali e minerari.

D’altronde, su questo territorio si è consumato un prolungato e brutale conflitto tra le forze di sicurezza indonesiane e i ribelli separatisti del GAM (Gerakan Aceh Merdeka), mentre, proprio durante le fasi più sanguinose dell’operazione militare, le città della costa occidentale venivano spazzate via dal terremoto e dallo tsunami del dicembre 2004. All’indomani di questi tragici eventi, Aceh ha attraversato un processo di pacificazione e rinascita. Grazie ai contributi della cooperazione internazionale (che ammontano a oltre un miliardo di dollari), la provincia è stata ricostruita con significativi miglioramenti rispetto alla situazione antecedente, con case sicure in cui abitare, strade perfettamente asfaltate e molte altre infrastrutture all’avanguardia di cui beneficiare. Insieme alla rigenerazione delle fondamenta materiali, la società acehnese è stata anche ridisegnata sul piano morale, attraverso un estensivo processo di ingegneria sociale incentrato sulla Shari’a e sulla devozione islamica.

Dalle ceneri del conflitto civile e a seguito dei trattati di pace culminati negli accordi di Helsinki del 2005, sono inoltre emerse delle relazioni istituzionali inedite, catalizzate dalla concessione dell’autonomia alla provincia di Aceh. Per esempio, nel solo anno 2016, il governo centrale ha allocato agli enti locali acehnesi una cifra record pari a 600 milioni di dollari. Nel frattempo, molti ex combattenti, depositari di un appoggio popolare pressoché incondizionato, sono saliti al potere e hanno occupato i vertici dei dipartimenti più strategici, come quelli dei lavori pubblici, dell’istruzione, dell’agricoltura, della pesca e delle politiche forestali.

Tuttavia, il “grande balzo” conseguente alla ricostruzione ha ben presto iniziato a perdere il suo slancio e ha tradito le grandi aspettative di sviluppo personale elaborate dagli acehnesi. Da un lato, le vittime del conflitto e dello tsunami hanno “speso” subito i fondi a loro destinati, senza iniettarli in un progetto di prosperità a lungo termine e illudendosi che le elargizioni sarebbero continuate all’infinito. Dall’altro, i tecnici governativi non sono stati in grado di creare occupazione, specie per i giovani scarsamente scolarizzati, e hanno spesso subordinato l’equa redistribuzione delle risorse economiche alle proprie mire personalistiche. Del resto, solo una quota marginale delle risorse a disposizione del governo è stata destinata a nuove fabbriche, piantagioni estese o miniere industriali, mentre il settore pubblico, sul quale grava tutto il peso occupazionale, è ormai cronicamente saturo.

In un contesto sociale contraddistinto dal vertiginoso tasso di disoccupazione, dalla precarietà lavorativa e dalla vulnerabilità economica, la società acehnese ha dovuto rispolverare un vecchio schema: vale a dire, assicurarsi un futuro attraverso l’agricoltura e l’estrazione di ricchezze forestali. In Aceh, questa pratica ha un profondo radicamento storico, non è mai stata del tutto soppiantata neppure durante gli anni della ricostruzione e costituisce tutt’oggi il nocciolo del sistema socio-economico acehnese. Più precisamente, le fertili risaie e le piccole coltivazioni di altre colture da reddito – inclusa la gomma naturale e la palma da olio – rappresentano per gli uomini e per le donne una fonte di sostentamento, molto sobria ma, al tempo stesso, sicura. Gli uomini, dal canto loro, traggono profitto dallo sfruttamento delle riserve di legno, oro, pietre semipreziose, resine aromatiche, miele, cacciagione e di altri prodotti offerti dalla foresta. Per farlo, intraprendono delle rischiose spedizioni, si sottopongono a mansioni altamente usuranti e adottano dei modelli di lavoro artigianale. Inoltre, insistono su degli spazi “protetti” e informali, dove l’accesso alle risorse è riservato agli autoctoni, sebbene un crescente numero di altri soggetti (in particolare, gli investitori provenienti dai centri urbani e i cacciatori di risorse originari delle altre provincie indonesiane) concepisca dei nuovi usi per l’ambiente e lo guardi come un sito conteso in cui catturare ricchezza.

A oltre dieci anni dallo tsunami e dalla fine del conflitto, i tecnocrati del governo, i candidati alle prossime elezioni, così come gli interlocutori acehnesi che ho conosciuto durante i periodi di ricerca si trovano di fronte a un bivio. Come aggiornare lo “schema tradizionale” di sfruttamento delle risorse che, negli ultimi tempi, si è dimostrato sempre meno calzante?

Da una parte, la stragrande maggioranza degli acehnesi – inclusi gli esponenti dei partiti favoriti nella prossima tornata elettorale – lamenta che i guadagni garantiti dall’agricoltura e dalle imprese in foresta siano sempre meno soddisfacenti: troppo miseri i primi e pericolosamente intermittenti i secondi. La strada da seguire sarebbe quindi quella dell’industrializzazione: ampliare la scala delle colture e delle estrazioni in foresta, capitalizzare le attività e meccanizzare le pratiche di lavoro. Nei discorsi a tal proposito, si invoca un ruolo paternalistico dei funzionari locali, a cui si attribuisce il compito di sovvenzionare le nuove società con il denaro pubblico e di attrarre degli investitori stranieri, in particolare quelli cinesi che possiedono le conoscenze e i mezzi finanziari per sviluppare il settore minerario. E ancora, si esige il rispetto degli interessi campanilistici, mentre si ignorano le trasformazioni socio-ambientali e il depauperamento delle risorse che questo tipo di progetti potrebbe generare.

Dall’altra, un gruppo minoritario propone di imboccare una strada più prudente. Secondo questa linea di pensiero, ci sarebbero, infatti, dei limiti ecologici e morali allo sfruttamento illimitato dell’ecosistema e andrebbero adottati dei modelli di sviluppo meno invasivi per l’ambiente. Per esempio, in ambito minerario, vengono proposti dei cicli produttivi “puliti” e “chiusi”, che non utilizzino cioè degli inquinanti come il mercurio o il cianuro e prevedano un’attenta bonifica dei terreni al termine delle concessioni minerarie. Lo stesso Islam, inoltre, è in grado di alimentare delle preoccupazioni ecologiste e di reprimere, teologicamente, l’abuso della “terra di Dio”. Tuttavia, il territorio di Aceh è ancora “vergine”. Qui, gli effetti dell’antropizzazione sono pressoché invisibili e risulta difficile immaginarsi una tendenza al deterioramento delle foreste. In altre parole, la “coscienza ambientalista” proviene dall’esterno – da quelle province indonesiane martoriate dal degrado ecologico – e raggiunge Aceh in forma attenuata.

Mentre affronta la transizione dall’epoca “post-disastri e post-ricostruzione” verso un futuro incerto, la società acehnese è in bilico tra scelte contraddittorie. Purtroppo, un numero sempre maggiore di acehnesi aderisce a un modello di “industrializzazione delle risorse naturali”, del tutto simile a quello adottato nel Borneo indonesiano con esiti catastrofici per il paesaggio, il suolo e le comunità. Del resto, in Aceh si sottovaluta il pericolo di far sorgere una nebulosa di “regimi estrattivi”, che gli acehnesi utilizzerebbero per nutrirsi delle ricchezze agro-forestali, adottando delle pratiche parassitarie e impoverendo il territorio. Fedeli alle vecchie gerarchie forgiate negli anni del conflitto ma prone al fazionalismo, c’è il rischio concreto che queste organizzazioni inneschino un’incontrollabile spirale di illegalità, cleptomania e marginalizzazione degli strati più vulnerabili della società, senza poi contare il rischio di foraggiare delle filiere produttive che intralciano le forme di sussistenza tradizionali e provocano un incontrovertibile degrado ambientale.

In conclusione, è probabile che Aceh viva nei prossimi decenni la prima radicale trasformazione ecologica della propria storia, determinata dallo sfruttamento economico delle proprie risorse naturali, che è sia già in atto, sia programmato per la conversione al modello industriale. Gli esiti di questo processo e, in un certo senso, il futuro dell’intera provincia, dipendono dalle scelte politiche della classe dirigente che si costituirà nei prossimi mesi. Tuttavia, proprio perché la tendenza generale è quella di privilegiare delle pratiche di sviluppo economico potenzialmente penalizzanti per l’ecosistema, occorre che tutti – scienziati sociali, attivisti, guide spirituali, nonché gli “acehnesi comuni” – riflettano sui costi umani e ambientali della crescente centralità che la società attribuisce all’utilizzo delle risorse naturali.

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