In un celebre articolo dedicato alla “resilienza dell’autoritarismo” (authoritarian resilience) del 2003, il politologo Andrew Nathan,[1] prendendo le distanze dal tradizionale dibattito sulla capacità del regime cinese di sfuggire al destino che aveva condotto alla dissoluzione dei partiti comunisti in Europa e nel mondo, spostò l’attenzione sul tema della cosiddetta istituzionalizzazione. Nel suo articolo, Nathan riportava i risultati di una ricerca da lui condotta a cavallo tra i tardi anni ’90 e i primi anni 2000, sostenendo che il successo del Partito comunista cinese (Pcc) fosse dovuto a quattro fattori in particolare: 1) un meccanismo di successione ai vertici stabile e normato; 2) la natura meritocratica del sistema di promozione dei quadri; 3) lo sviluppo di istituzioni tecnocratiche dotate di funzioni chiaramente definite; e 4) l’apertura di canali per la partecipazione politica del singolo cittadino, che consentivano al contempo nel consentire alle autorità di venire in contatto con le istanze espresse dalla società cinese.[2] Il punto, per Nathan, è che le istituzioni hanno giocato un ruolo chiave nel garantire la sopravvivenza del Pcc. La sua teoria ha ampliato le nostre conoscenze sulla resilienza del Partito, che la letteratura fino a pochi anni prima aveva fatto derivare pressoché esclusivamente dalla crescita economica della Rpc e dal nazionalismo dei suoi cittadini.
L’articolo di Andrew Nathan è ancor oggi eccezionalmente attuale. Molti studiosi di Cina contemporanea vedono i sintomi di una crescente tendenza all’arretramento dei processi di istituzionalizzazione nel regime cinese: segnali di un ritorno a prassi in cui prevalgono discrezionalità e incertezza, frutto della spinta accentratrice attuata da Xi Jinping sin dalla sua ascesa ai vertici del potere nel 2012. E’ a questo che si riferisce Carl Minzner quando parla di “disfacimento” di “una serie di norme che governano lo stato e la società” nella Cina post-denghista.[3] Varie dinamiche molto evidenti corroborano questa ipotesi: 1) le norme di successione, come quelle che stabiliscono i limiti di età delle più alte cariche del Partito o il numero di mandati che ciascun leader può svolgere, sono state messe in discussione dall’assenza di un erede designato di Xi nel nuovo Comitato permanente del Politburo; 2) alcune recenti promozioni, retrocessioni, o epurazioni paiono dipendere dall’appartenenza o meno dei quadri apicali interessati a fazioni vicine a Xi, o dalla lealtà personale dimostrata al Segretario generale; 3) la campagna anti-corruzione è stata utilizzata per colpire i nemici politici di Xi, indebolendo intere fazioni a lui avverse; 4) le prestazioni dell’apparato burocratico sembrano sempre più avvolte nell’incertezza.
Per quanto riguarda le relazioni tra stato e società, è significativo come le istituzioni a fondamento dal contratto sociale della Cina post-Tian’anmen – ad esempio le elezioni semi-competitive negli enti locali minori, i margini concessi all’informazione indipendente e l’autonomia della quale tendenzialmente godono molte espressioni organizzate della società – siano ora minacciate.[4] Anche organizzazioni del Pcc come la Lega della gioventù comunista (canale di avanzamento professionale per i migliori giovani quadri) sono state duramente colpite nel corso delle epurazioni condotte con l’obiettivo di indebolire le fazioni opposte a Xi. Non sorprende dunque che studiosi come David Shambaugh si siano spinti a suggerire che, avendo compromesso gli equilibri di potere nel Partito e nelle relazioni stato-società, Xi possa provocare il definitivo crollo del regime del Pcc.[5]
Gli effetti della paura
Ci si potrebbe chiedere perché il neo-confermato Segretario generale abbia scelto di voltare le spalle alla “resilienza autoritaria” del Pcc. Dopo tutto, perché un leader dovrebbe voler minare l’efficienza di quelle istituzioni che ne hanno determinato il successo politico? Le risposte a questa domanda sono con ogni probabilità da ricercarsi non nelle ambizioni di Xi Jinping, bensì nelle sue paure: la paura di una nuova e prolungata crisi della legittimità del Partito da una parte, e la paura per la tenuta del suo stesso potere dall’altra.
Il primo timore di Xi riguarda il rischio che la vacillante crescita economica cinese e le molte debolezze del sistema politico della Rpc, che intralciano la “buona governance” che il partito professa di voler garantire, possano innescare una nuova crisi delle relazioni tra stato e società. Finora le politiche del Pcc non sono riuscite ad assicurare una gestione organica di problematiche basilari quali la protezione ambientale e il welfare, e al Partito si rimprovera di non aver ancora trovato il modo di affrontare le diseguaglianze sociali del paese. Inoltre, il decadimento della qualità della governance che si è tradotto in alti livelli di corruzione interna al partito sta intaccando la reputazione del Pcc, mettendo a repentaglio la credibilità della sua funzione di guida.
Va inoltre ricordato come, sotto Hu Jintao, la prosperità economica della Rpc fosse accompagnata da una (pur parziale) liberalizzazione sociale, osteggiata dall’establishment conservatore di Pechino. Nonostante alcune restrizioni macroscopiche e l’arretramento nella costruzione dello stato di diritto, negli anni dell’amministrazione Hu (2002-2012) la società civile cinese poté svilupparsi, i media furono sottoposti a minori restrizioni (per lo meno nella sfera dei temi non politicamente sensibili) e più in generale la società cinese godette di una maggiore libertà di espressione. Tuttavia, questo clima relativamente “liberale” aggravò le apprensioni delle cerchie più conservatrici del Pcc, sempre inquiete per il possibile ripetersi di proteste di massa simili a quelle degli anni 80, specialmente a seguito del rallentamento economico del paese dal 2008 in poi. In questo quadro, Xi Jinping e parte dell’élite politica cinese hanno visto nell’accentramento del potere nelle mani di Xi un’opportunità di sopravvivenza (probabilmente la migliore possibile) per il partito. Questo aiuta a comprendere la scelta del partito di concedere maggiore libertà d’azione a Xi non inserendo un potenziale successore nel Comitato permanente del Politburo: una decisione che potrebbe aprire le porte a un suo terzo mandato.
Con riferimento invece al secondo timore di Xi, ci sono pervenute poche informazioni sulle minacce personali cui egli si è trovato esposto dal 2012 ad oggi. Caricando il 19° congresso di pathos, il Presidente della China securities regulatory commission, Liu Shiyu, ha accusato i sei più alti quadri epurati nell’ultimo lustro (da Bo Xilai a Sun Zhengcai) di aver tramato per spodestare Xi. Negli anni si sono susseguiti retroscena su presunte congiure ordite per assassinare Xi; fonti più attendibili hanno riferito che il malcontento delle cerchie politiche d’élite di Pechino contro la campagna anti-corruzione di Xi e le sue frequenti epurazioni starebbe crescendo. Nel 2016, un’invettiva contro Xi dal titolo “A Thousand Yes-Men Cannot Equal One Honest Advisor” apparve sul sito web della Commissione centrale per l’ispezione della disciplina del Pcc; tempo prima, un sito d’informazione sponsorizzato dal governo aveva pubblicato una lettera aperta, chiedendo le dimissioni di Xi. Sono solo due esempi recenti di sfida all’autorità di Xi provenienti dall’interno del partito – un fenomeno con il quale il Segretario generale dovrà per forza fare i conti.
Ovviamente non è possibile determinare quale delle due paure, se quella politica o quella personale, abbia avuto il sopravvento nei processi decisionali del “nucleo” (hexin, 核心) del Pcc, Xi Jinping. Un’ipotesi plausibile è che entrambe siano ormai inestricabilmente legate a Xi e ai suoi sostenitori: la centralizzazione del potere e la disciplina del partito e della società sono necessarie a preservare il Pcc come unico detentore del potere, ed è da questi due fattori che dipenderanno il futuro della leadership di Xi e la sua eredità politica. Come osservato da Kerry Brown, l’accentramento del potere nella figura di Xi “collega il vertice del partito alla soluzione”[6] dei molti problemi di governance della Cina contemporanea.
Ad acuire le paure di Xi vi è anche il fatto che le riforme economiche hanno subìto uno stallo dal 2012 ad oggi, anni in cui il Segretario generale si è occupato di accentrare il potere politico nelle proprie mani. La Cina ha bisogno di un ambizioso programma di riforme che comprenda la ristrutturazione delle aziende di proprietà statale e la privatizzazione di settori dell’economia attualmente controllati dallo stato. Nel 2012, Xi promise l’attuazione di un simile programma di riforme, ma la sua implementazione è stata parziale e condotta in modo esitante. I presunti nemici di Xi (Zhou Yongkang e Bo Xilai) sono attualmente in carcere e i membri del nuovo Comitato permanente del Politburo sembrano essere stati scelti da Xi uno ad uno; eppure non è detto che questo gli abbia permesso di affrancarsi dall’influenza delle fazioni interne al Pcc e dagli interessi che queste esprimono. In altre parole, la domanda da porsi è la seguente: è riuscito Xi Jinping a neutralizzare le fazioni che gli si oppongono a Pechino, creando un gruppo di quadri apicali coeso che supporti i suoi piani di riforma economica? O ha forse esaurito il suo capitale politico, turbando l’ordine interno al partito al punto da non poter più lottare contro gli interessi costituiti in seno al Pcc e alle aziende di proprietà statale restie alle riforme? Se il 19° congresso segnerà la fine delle paure che hanno caratterizzato il primo mandato di Xi, è possibile che la Cina sperimenti una nuova stagione di riforme paragonabili a quelle attuate da Deng Xiaoping negli anni Ottanta e da Zhu Rongji negli anni Novanta. In caso contrario, è possibile che le strade alternative percorse dal Pcc mettano in discussione il principio di resilienza dell’autoritarismo.
Traduzione dall’inglese a cura di Carlotta Clivio
[1] Andrew Nathan, “Authoritarian Resilience”, Journal of Democracy 14 (2003) 1: 6-17.
[2] Ivi: 6-7.
[3] Carl Minzner, “China After the Reform Era”, Journal of Democracy 26 (2015) 3: 141.
[4] Ivi: 135-141.
[5] David Shambaugh, “The Coming Chinese Crackup”, The Wall Street Journal, 6 marzo 2015.
[6] Kerry Brown, CEO China: The Rise of Xi Jinping (Londra: I.B. Tauris, 2016): 184.
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