Al di là delle profonde differenziazioni dottrinali che ne hanno contraddistinto la storia, dopo quasi due millenni il Daoismo resta una componente distintiva della spiritualità del popolo cinese, soprattutto in virtù del proprio carattere precipuo di istituzione religiosa garante di una legittimità liturgica profondamente radicata nelle comunità locali.[1]
Il Daoismo sta registrando una crescente diffusione al di fuori dell’ampia sfera linguistico-culturale sinica, ma persiste nell’identificarsi come credo religioso praticato prevalentemente dalla comunità etnica Han: si tratta, in buona sostanza, dell’unica religione autoctona tra le cinque elette dal Governo cinese al rango dell’ortodossia. Come è noto, le attività religiose sono costantemente monitorate dallo Stato e il governo cinese riconosce cinque espressioni cultuali “ufficiali”, ovvero, oltre al Daoismo (Dàojiào, 道教), il Buddhismo (Fójiào, 佛教), l’Islam (Yīsīlánjiào, 伊斯兰教), il Protestantesimo (Jīdūjiào, 基督教) e il Cattolicesimo (Tiānzhǔjiào, 天主教). Tali dottrine e le forme di culto dalle stesse espresse sono supervisionate dall’Amministrazione Nazionale per gli Affari Religiosi (Guójiā zōngjiào shìwùjú, 国家宗教事务局, o SARA), o anche “Ufficio per gli Affari Religiosi”, fino al 2018 sotto l’autorità del Consiglio per gli affari di Stato, poi governato direttamente dal Partito.[2] Associazioni religiose anch’esse “ortodosse” sono state istituite al fine di regolamentare tanto le attività che i criteri di adesione. L’Ufficio per gli Affari Religiosi gestisce anche i rapporti con il clero e concorda con questo l’entità delle pratiche che hanno luogo nelle sedi cultuali che vantano un significato storico-culturale profondo, mentre l’Ufficio Nazionale per la Promozione Culturale (Guójiā wénhuàjú, 国家文化局) è responsabile della salvaguardia dei beni artistici e l’Ufficio Nazionale per la Promozione Turistica (Guójiā lǚyóu jú, 国家旅游局) ne è della loro commercializzazione e della definizione delle politiche connesse al flusso dei visitatori nei luoghi sacri.
Quanto appena esposto conferma il riconoscimento accordato al Daoismo di un’autorità che discende dal suo essere la religione propriamente cinese, poiché radicata nella più profonda tradizione culturale nazionale, al punto che quei principi che definiscono le dinamiche proprie dell’estetica, dell’etica, delle scienze, della spiritualità, del rapporto tra l’uomo e il cosmo, ma anche, ad esempio, dell’arte culinaria, della musica e delle pratiche psicofisiche di autocoltivazione, non possono dirsi immuni dall’aver subito e dal subire ancora oggi influenze “daoiste”. Eppure, nonostante sia incontestabile l’impatto del Daoismo nella storia culturale cinese, la domanda posta circa mezzo secolo fa da Herrlee G. Creel[3] resta ancora attualissima. Ciò è sicuramente imputabile alla natura del sentimento religioso cinese, che è per tradizione inclusivo, sincretico e funzionale, poiché mosso dalla necessità di rivolgersi, a seconda dei bisogni, a esperti capaci di officiare riti mirati al conseguimento di precise finalità. Rischia, dunque, di risultare improprio chiedersi quale sia il profilo dei fedeli daoisti, poiché questi potrebbero anche dirsi buddhisti, ad esempio, come anche intimamente legati ad altre esprienze devozionali; altrettanto arduo è dar conto di quanti siano effettivamente gli addetti al culto, sui quali non disponiamo di dati chiari: non sappiamo con precisione il numero dei preti daoisti, né in quale percentuale appartengano alle due principali scuole attive oggi in Cina, ossia la tradizione Zhèngyī (正一,Uno Ortodosso) e la tradizione Quánzhēn (全真, Perfezione Completa, consolidatasi soprattutto secondo i principi del lignaggio Lóngmén, 龙门, La Porta del Drago).
La tradizione Zhèngyī, diffusa in primis nelle aree meridionali del Fujian e a Taiwan, si conforma a un complesso rituale secondo principi che vengono trasmessi da maestro a discepolo, oppure di padre in figlio, e gran parte delle attività cultuali e liturgiche promosse ha luogo sia nei templi dedicati a divinità locali che nelle abitazioni private. Le cerimonie più frequenti rientrano tra i sacrifici comunitari (jiào, 醮), gli esorcismi minori (xiǎofǎ, 小法) e le preghiere per i defunti (gōngdé, 功德). L’officiante è comunemente detto gāogōng (高功, Maestro che vanta sommi meriti) e può agire da solo o coadiuvato da attendenti. Egli presiede anche un’altra cerimonia, che prevede la visualizzazione del paesaggio interiore attraverso cui l’officiante compie un viaggio nel proprio corpo, seguendo quel percorso che culmina con il cranio, sede dei Palazzi Celesti, dove il gāogōng presenta un memoriale alle divinità che lì abitano, primo fra tutti l’Imperatore di Giada (Yùdì, 玉帝). È un viaggio, questo, che riporta l’officiante alla condizione originaria dell’infante, seguendo un processo alchemico interiore (nèidān, 内丹)[4] che produce una trasformazione del corpo (biàn shēn, 变身), affinché lo spazio e il tempo vengano percepiti “diversamente”, o, piuttosto, “inversamente”. Il Dao, l’Assoluto, viene infatti abbracciato andando a ritroso, recuperando cioè quella condizione di Unità che precede la differenziazione nel mondo fenomenico dei Diecimila Esseri (wànwù, 万物).
La tradizione Zhèngyī è anche detta Tiānshī (天师, Maestri Celesti), ispirandosi alla nomenclatura della più alta carica ecclesiastica, assunta, a partire dal XX secolo, da Zhang Yuanxu (1862–1924; LXII), Zhang Enpu (1904–69; LXIII), Zhang Yuanxian (1930–2008; LXIV), Zhang Jiyu (1962-; LXV).[5] Il figlio maggiore del LXII Maestro Celeste, Zhang Enpu, riparò nel 1949 a Taiwan assieme al governo nazionalista e si stabilì a Taibei, che divenne, de facto, la sede ufficiale del Daoismo Zhèngyī. Attorno alla figura di Zhang Enpu fu fondata l’Associazione Daoista Taiwanese (Táiwān shěng Dàojiàohuì, 台湾省道教会) nel 1950, poi ribattezzata Associazione Daoista della Repubblica di Cina (Zhōnghuá mínguó dàojiàohuì, 中华民国道教会), sotto il cui controllo fu condotta nel 1962 una ristampa dell’edizione di epoca Ming del Dàozàng (道藏, Canone Daoista). Con la morte di Zhang Enpu, la carica di Maestro Celeste passò al nipote, Zhang Yuanxian e, infine, a Zhang Jiyu. Per quanto fosche siano le circostanze legate ai più recenti passaggi di testimone, resta significativo che Zhang Jiyu, attuale leader della tradizione Zhèngyī, risieda nella Repubblica popolare cinese e sia uno dei vicepresidenti dell’Associazione Daoista Cinese (Zhōngguó dàojiào xiéhuì, 中国道教协会).[6]
In epoca moderna la figura del Maestro Celeste è stata fortemente ridimensionata e va sottolineato come, in realtà, siano gli esponenti di lignaggi ecclesiastici che operano a stretto contatto con le comunità locali a incarnare lo spirito più autentico del Zhèngyī. L’attenzione crescente degli studiosi cinesi, ma soprattutto occidentali e giapponesi, ha portato negli ultimi anni a concentrare l’attenzione su figure carismatiche quali il prete taiwanese Zhuang Chen Dengyun (1911-1976), di cui si è occupato Michael Saso,[7] mentre Kristofer Schipper,[8] John Lagerwey[9] e Poul Andersen[10] si sono rivolti all’investigazione di Chen Rongsheng (1927-). Saso (1930-) e Schipper (1934-), tra l’altro, sono stati tra i primi occidentali ordinati come preti Zhèngyī, diventando, al contempo, praticanti e ricercatori che hanno aperto nuove prospettive “interne” alla disamina della dimensione daoista. Entrambi hanno impresso un deciso impulso agli studi del settore, incoraggiando anche numerosi stranieri ad accostarsi al Daoismo e a prendere i voti, come dimostra la vistosa presenza di occidentali nelle più recenti cerimonie di ordinazione di ampia portata che hanno avuto luogo sul Monte Long Hu (nei pressi di Yingtan, nella Provincia del Jiangxi), il principale luogo sacro del Daoismo Zhèngyī nella Cina continentale assieme al Monte Mao (presso Jurong, nel Jiangsu). I preti Zhèngyī, lo ribadiamo, sono officianti pienamente integrati nel tessuto sociale, in molti casi sposati, che non sono tenuti a sottostare a restrizioni alimentari: il loro sostegno proviene prevalentemente da associazioni e singoli che ne richiedono espressamente l’intervento, commissionando specifiche cerimonie rituali.
Al di là della diffusione della tradizione Zhèngyī, è il Daosimo Quánzhēn a detenere il controllo dei principali templi e dei luoghi sacri, anche in virtù del vincolo speciale che quest’ultima espressione di culto vanta sia con l’Ufficio Affari Religiosi che con una delle sue dirette emanazioni, ovvero l’Associazione Daoista Cinese.
Nel caso della tradizione Quánzhēn, prevalente nell’area cinese settentrionale, i riti hanno luogo nei templi e nei monasteri; il principale centro di culto, sede del Seminario daoista (Dàojiào xuéyuàn, 道教学院) e, soprattutto, dell’Associazione Daoista Cinese, è il Báiyúnguān (白云观, Tempio della Nuvola Bianca) di Pechino. Il Quánzhēn si regge su una comunità monastica i cui aderenti sono celibi e vegetariani; la loro pratica fondamentale coincide con la meditazione secondo i principi dell’alchimia interiore, al di là delle cerimonie liturgiche celebrate quotidianamente nei templi.
Un resoconto puntuale del Daoismo nella Cina di oggi non può prescindere dal considerare l’Associazione Daoista Cinese, fondata nel 1957. Dopo la sospensione imposta dalla Rivoluzione culturale, essa si è ricostituita nel 1980, anno che ha sancito la rinascita degli studi di carattere religioso nella Cina Popolare. La prima assemblea fu presieduta da novantuno rappresentanti dei principali lignaggi daoisti provenienti dalle sedi cultuali dominanti e culminò con l’elezione di sessantun membri, tra cui fu scelto Yue Chongdai (1888–1958), abate del Tàiqīnggōng (太清宫, Palazzo della Somma Purezza, presso Shenyang, Provincia del Liaoning), come Presidente.[11]
Il primo obiettivo che si pose l’Associazione fu quello di procedere al restauro dei templi oltraggiati dalle Guardie Rosse e a riacquisire quegli spazi espropriati e divenuti negli anni sedi di associazioni non religiose. Al recupero architettonico ha fatto seguito la ripresa delle attività di culto. A partire dai maggiori centri urbani fino alle aree rurali, la riqualificazione è stata progressiva e costante, come rilevato da Li Yangzheng, dell’Istituto Nazionale di Studi Daoisti, che ha contato ben millesettecentoventidue templi ricostruiti fino al 1997.[12] Già nel 1982 oltre venti dei principali templi, per buona parte affiliati alla tradizione Quanzhen, sono stati classificati dalle autorità come “centri religiosi nazionali protetti” e riaperti alla liturgia e al culto. La necessità da parte delle autorità politiche di esercitare un controllo efficace sui templi e sui membri delle comunità ecclesiastiche ha incoraggiato la promozione di associazioni ed enti daoisti, tant’è che fino al 2000 si contavano centotrentatre associazioni daoiste regionali e provinciali (responsabili dell’amministrazione dei templi, del reclutamento di novizi e della loro formazione), tutte rappresentate a livello nazionale e censite, sotto il diretto controllo dell’Ufficio per gli Affari Religiosi che opera in ogni distretto.[13]
La rinascita del Daoismo, che ha fatto seguito alla stasi durante la prima fase della Repubblica popolare cinese, ha vissuto due fasi. La prima, negli anni ottanta del secolo scorso, ha coinciso con il restauro dei templi, la ripresa delle attività religiose e la promozione di nuove ordinazioni. Inoltre, a partire dal 1992, l’Associazione Daoista Cinese ha istituito programmi semestrali di educazione superiore per daoisti, il cui accesso era limitato a studenti altamente selezionati e raccomandati. Negli anni Novanta del secolo scorso si è poi aperta la seconda fase, caratterizzata dalla volontà di definire in modo rigoroso i principi per regolare l’organizzazione interna ai templi e le competenze dei membri delle comunità ecclesiastiche, al fine di chiarire quali fossero le “attività cultuali ortodosse”, determinando con precisione tanto i ruoli degli affiliati residenti nei templi quanto lo status dei cosiddetti “preti daoisti che vivono a casa” (huǒjū dàoshì, 火居道士), ovvero operatori che officiano fuori dalle sedi istituzionali.
In tempi recenti, le attenzioni dell’Associazione Daoista Cinese si sono concentrate anche sulla regolamentazione del conferimento dei registri per le ordinazioni (per quanto concerne la tradizione Zhèngyī) e le norme per la trasmissione dei precetti (nella tradizione Quánzhēn).
Il 1989 ha segnato un momento cruciale, poiché presso il Báiyúnguān (Tempio della Nuvola Bianca) ebbe luogo la prima cerimonia d’iniziazione dopo quella del 1946:[14] dei settantacinque ordinandi secondo la tradizione Quánzhēn, trenta erano donne.[15] Da allora, l’Associazione Daoista Cinese ha intensificato la politica delle ordinazioni, istituendo, nel 1995, un’altra grande cerimonia che sancì l’ingresso di quattrocento nuovi membri – monaci e monache – nella comunità Quánzhēn.
Il sistema delle ordinazioni Zhèngyī è più complesso rispetto al Quánzhēn, poiché i preti sono legittimati all’esercizio delle proprie funzioni direttamente all’interno del sistema familiare dei Maestri Celesti. Garante dell’ortodossia Zhèngyī era, almeno fino al 1644, il Maestro Celeste, capo della congregazione, che presiedeva alle ordinazioni presso il Monte Longhu, oppure in occasione dei suoi spostamenti nei luoghi sacri disseminati nell’Impero. Era lui a conferire i registri individuali, a selezionare gli attendenti, a rilasciare licenze ai luoghi di culto locale. La scottante questione del trasferimento dei registri fu prima affrontata nel 1989, ma giunse a una soluzione di compromesso solo nel 1994. Possiamo però affermare che la vertenza più delicata in ambito Zhèngyī coincida con la definizione del ruolo dei “preti che vivono a casa”. Mentre il Daoismo Quánzhēn si era sostanzialmente conformato al modello della comunità monastica buddhista, condividendone il celibato e il nubilato, il Zhèngyī non ha mai riconosciuto l’essenzialità di tali presupposti, come dimostrato dal fatto che i dàoshì, indipendentemente dal genere, fossero spesso sposati. Essi sono oggi definiti huǒjū dàoshì (“preti daoisti che dimorano a casa”) o anche sǎnjū dàoshì (“preti daoisti che vivono «disseminati» nella società”): il loro status è da lungo tempo oggetto di discussione, al punto che più volte le autorità hanno tentato di metterli di fronte alla scelta di seguire rigidamente la vita monastica oppure di tornare a far parte della società civile, perdendo però il loro diritto a officiare le cerimonie. La tendenza ad assimilazione i sǎnjū dàoshì alla configurazione del clero buddhista portò in passato a bandire i riti daoisti fuori dei templi e, con l’avvento del comunismo, i sǎnjū dàoshì furono dichiarati “illegali” e, negli anni della Rivoluzione culturale, buona parte delle fonti a carattere rituale e liturgico venne distrutta, sancendo la drammatica perdita di elementi fondamentali per ricostruire la dimensione sacra del Zhèngyī. Intono al 1980 si assiste finalmente alla ripresa dei rituali jiào (醮) e dei funerali zhāi (斋), senza che la funzione dei sǎnjū dàoshì fosse però definita con chiarezza. Ciò era dovuto al fatto che questi “operatori” celebrassero negli stessi luoghi dove sciamani e altre figure non ben qualificate svolgevano le proprie funzioni di culto, finendo così per agevolare, quasi, una sovrapposizione tra superstizione e culto ufficiale. Simili presupposti non agevolarono certo la ripresa delle ordinazioni in seno al Zhèngyī, che comunque ebbe luogo nel 1995. Già nel 1992, però, l’Associazione Daoista Cinese[16] riuscì a elaborare una serie di criteri per separare in modo netto quei preti che operavano “correttamente” da quanti, invece, non rispettavano l’ortodossia: un prete Zhèngyī poteva dirsi tale solo se detentore del “certificato daoista della tradizione Zhèngyī” rilasciato dall’Associazione Daoista Cinese. Almeno in linea teorica, ciò significava che era illegale presiedere cerimonie al di fuori dei templi daoisti, a meno che non vi fosse l’approvazione dell’associazione nazionale.[17]
La cerimonia di ordinazione Zhèngyī del 1995 rappresenta un momento decisivo nella storia del Daoismo del XX secolo: il fulcro del rito risiedeva nel conferimento dei “certificati”, di cui godettero oltre duecento studenti e novizi, tra cui giovanissimi e anziani, cui fu consegnato al termine della cerimonia un “certificato di registrazione”, non più un “registro delle scritture”. Va puntualizzato come il registro (jīnglù, 经箓) costituisca, assieme alle regole disciplinari e alle scritture dei Maestri Celesti, il patrimonio di cui entrava in possesso un dàoshì a seguito dell’ordinazione. Tale registro conteneva la lista dei nomi delle divinità e degli spiriti incarnati nelle Scritture, in modo da consentire al prete di esercitare il proprio dominio su queste forze numinose. In sostituzione dal registro, nel 1995 fu conferito agli ordinandi un certificato di registrazione (zhídié, 职牒) assieme a una raccolta di saggi sulle scritture e sui principi che regolano le ordinazioni secondo il credo Zhèngyī. Dal 1995 non vi sono state più ordinazioni e non possiamo prevedere cosa accadrà in futuro e, soprattutto, quando la tradizione rituale ufficiale Zhèngyī verrà a pieno titolo reintrodotta. Ciò dipende essenzialmente da due fattori: il primo è rappresentato dalla confusione attorno al sistema di “successione” all’interno della scuola; il secondo, dallo status dei sǎnjū dàoshì.
Queste considerazioni ci portano a concludere che il futuro del questo antichissimo credo religioso dipende dal grado di apertura che il governo saprà manifestare, ma anche dalla credibilità che i sǎnjū dàoshì riusciranno a conquistare prendendo le distanze da quelle forme tacciate di superstizione dall’autorità politica cinese.[18]
L’esistenza di operatori ai margini dell’ortodossia conferma quantomeno un punto essenziale: il Daoismo, nella sua complessa e talora contraddittoria configurazione, trae la propria ragione di esistere dal sincero sentimento religioso espresso dalle comunità di fedeli. Indipendentemente dalle differenti affiliazioni, è ben chiaro quale sia il nucleo di elementi inequivocabili che definisce le funzioni dei dàoshì: essi curano malattie, praticano esorcismi, sono responsabili delle celebrazioni in onore delle divinità locali, consacrano i templi, presiedono alle cerimonie di purificazione.
[1] In lingua italiana, si segnalano i seguenti volumi sugli sviluppi dottrinali e sulle pratiche daoiste: Isabelle Robinet, Storia del taoismo. Dalle origini al XIV secolo (Roma: Ubaldini, 1993) Edizione originale: Histoire du taoïsme: Des origines au XIVe siècle (Parigi: Editions du Cerf, 1991); Attilio Andreini e Maurizio Scarpari, Il Daoismo (Bologna: Il Mulino, 2007); Ester Bianchi, Il Taoismo (Milano: Mondadori Electa, 2009); Maurizio Paolillo, Il Daoismo. Storia, dottrina, pratiche, (Roma: Carocci, 2014). Si rimanda, inoltre, ai seguenti contributi che si distinguono per spessore e ampiezza, toccando i più disparati temi legati al Daoismo: Livia Kohn (a cura di), Daoism handbook (Boston, Colonia e Leida: Brill, 2000); Livia Kohn and Harold D. Roth (a cura di) Daoist identity: history, lineage, and ritual (Honolulu: University of Hawai‘i Press, 2002); Russell Kirkland, Taoism. The enduring tradition (Londra e New York: Routledge, 2004); Fabrizio Pregadio (a cura di), The Encyclopedia of Taoism Voll. 1 and 2 (Londra e New York: Routledge, 2008).
[2] Per delucidazioni circa la struttura e la natura del Guójiā zōngjiàoshì wùjú, si rinvia all’Url http://www.sara.gov.cn/.
[3] Si rimanda a Herrlee G. Creel, What is Taoism? And other studies in Chinese cultural history (Chicago: University of Chicago Press, 1970).
[4] Sulla tradizione alchemica il seno al Daoismo, rimandiamo a a Fabrizio Pregadio, Great clarity: Daoism and Alchemy in early medieval China (Stanford: Stanford University Press, 2005) e, più in particolare, sull’alchimia interiore, a Isabelle Robinet, Introduction à l’alchimie intérieure taoïste: De l’unité et de la multiplicité. Avec une traduction commentée des Versets de l’éveil à la Vérité (Parigi: Éditions du Cerf, 1995).
[5] Si veda Terry Kleeman, “Tianshi Dao”, in The Encyclopedia of Taoism Vol. 2, a cura di Fabrizio Pregadio (Londra e New York: Routledge, 2008), 981-986.
[6] Per maggiori informazioni circa le funzioni dell’Associazione, si rimanda all’Url http://www.taoist.org.cn/loadData.do.
[7] Si veda Michael R. Saso, Zhuāng Chén Dēngyún shǒu chuán (Taipei: Cheng Wen Publishing Co. Ltd., 1975); Michael R. Saso, The teachings of Taoist Master Chuang (New Haven: Yale University Press, 1978).
[8] Si rimanda a Kristofer Marinus Schipper, Le Fen-Teng: Rituel taoïste (Parigi: Ecole Française d’Extrême-Orient, 1975); Kristofer Marinus Schipper, The Taoist body (Berkeley: University of California Press, 1993), 91-93.
[9] Si veda John Lagerwey, Taoist Ritual in Chinese society and history (Londra: Macmillan, 1986).
[10] Poul Andersen, “The Transformation of the Body in Taoist Ritual”, in Religious Reflections on the Human Body, a cura di Jane Marie Law (Bloomington: Indiana University Press, 1995), 186-208.
[11] Si rinvia a Wang Yi’e, Daoism in China: an introduction (Warren: Floating World Editions, 2004), 137-172.
[12] Si veda lo studio di Li Yangzheng, Dāngdài Dàojiào [Daoismo contemporaneo] (Pechino: East Asia Press, 2000).
[13] Si vedano: Zhōngguó Dàojiào [Daoismo cinese] (1999) 5, 4; Lai Chi Tim, “Daoism in China today, 1980-2002”, The China Quarterly 174 (2003): 413-427, soprattutto p. 416; Attilio Andreini e Maurizio Scarpari, Il Daoismo (Bologna: Il Mulino, 2007), 123-4; Shiling McQuaide, “Daoism”, in Enciclopedia of Chinese History, a cura di Michael Dillon (Londra e New York: Routledge, 2016), 148-150.
[14] Li Yangzheng, Dāngdài Dàojiào [Daoismo contemporaneo] (Pechino: East Asia Press, 2000), 124.
[15] Zhōngguó Dàojiào [Daoismo cinese] (1989) 3, 5.
[16] La norma del 1992 fu poi integrata con una misura correttiva nel 1998. Si veda Zhōngguó Dàojiào [Daoismo cinese] (2002) 3, 6.
[17] Tra il 1992 e il 1994 l’Associazione Daoista Cinese elaborò una serie di documenti finalizzati a inquadrare nel dettaglio le funzioni dei sǎnjū dàoshì. Si rimanda a Zhōngguó Dàojiào [Daoismo cinese] (1992) 4, 6-7; (1994) 4, 14; (1999) 5, 4, Infine, si veda Li Yangzheng, Dāngdài Zhōngguó Dàojiào [Daoismo cinese contemporaneo] (Pechino: China Social Sciences Press, 1993), 316-322.
[18] Si rinvia a Zhōngguó Dàojiào [Daoismo cinese], (2000) 1, 9 e Li Yangzheng, Dāngdài Dàojiào [Daoismo contemporaneo] (Pechino: East Asia Press, 2000), 185, nonché a Lai Chi Tim, “Daoism in China today, 1980-2002”, The China Quarterly 174 (2003). La diffidenza nei confronti dei sǎnjū dàoshì è assai profonda, al punto che le autorità governative e la stessa Associazione Daoista Cinese spesso li hanno associati a occultisti e maghi che vengono tacciati di diffondere credenze devianti. Fino ai primi anni Novanta del secolo scorso mancava un effettivo censimento dei “preti che vivono a casa”. A partire dal 1992, si è cercato di procedere a un controllo capillare, che ha portato i primi risultati. Secondo le fonti ufficiali dell’Associazione Daoista Cinese, nel 1996 vi erano circa ventimila sǎnjū dàoshì sparsi sul territorio nazionale; nel 2000, nella sola Provincia del Jiangsu, essi raggiungevano le quattromila unità.
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