Il “Dutertismo” alla prova delle elezioni di metà mandato

Il 13 maggio prossimo è in programma un appuntamento importante per la politica filippina. Si terranno infatti le elezioni di medio termine per eleggere metà dei 24 senatori, rinnovare i seggi della Camera dei Rappresentanti e tutte le cariche di governatore. Il Presidente Rodrigo Duterte intende fare incetta di seggi alla Camera Alta e consolidare così la maggioranza al Kongreso, il Parlamento filippino. Il sistema partitico dell’arcipelago asiatico si caratterizza per la presenza di numerosi attori in campo, pertanto è difficile individuare i due schieramenti opposti. In linea generale, le alleanze si costruiscono sulla base dei legami personali tra i leader dei vari movimenti. Ciò consegna inevitabilmente un quadro politico frammentario. Alla luce della legge elettorale del Senato, dove i candidati concorrono in un super-collegio nazionale e ciascun elettore deve indicare tante preferenze quanti i seggi in palio,[1] è possibile individuare due grandi schieramenti: il fronte populista e il campo progressista. Il primo è formato dal partito del presidente, il Partido Demokratiko Pilipino-Lakas ng Bayan (PDP-Laban), e il suo principale alleato, il Partido Nacionalista; mentre il secondo riunisce il Partido Liberal dell’attuale vicepresidente, Leni Robredo, e candidati indipendenti molto popolari come l’attuale senatrice Grace Poe.

I membri della coalizione d’opposizione Otso Diretso in un momento della campagna elettorale per le strade di Caloocan City nel febbraio 2019 (Immagine: www.news.abs-cbn.com).

Nonostante sia stato paragonato a Hitler, Trump e all’ex cleptocrate Ferdinand E. Marcos, Duterte presenta ad oggi un indice di gradimento molto alto che supera di poco l’80%, in leggera flessione rispetto al valore percentuale fatto registrare nelle settimane successive al suo insediamento a Palazzo Malacañang (la residenza ufficiale del presidente filippino) nel giugno 2016. Secondo l’ultimo sondaggio pubblicato da Pulse Asia, gli undici candidati al Senato appoggiati da Duterte sembrerebbero in vantaggio, ma non è da escludere che la contesa possa riservare sorprese. Di certo, queste elezioni determineranno il percorso delle riforme nei prossimi tre anni di presidenza, a partire dall’importante provvedimento sul federalismo. Le Filippine sono una repubblica unitaria,[2] ma già durante l’ultima campagna presidenziale Duterte aveva promesso maggiore autonomia al Mindanao e alle isole centrali Visayas in risposta alle frequenti esternazioni contro il dominio dell’“imperial Manila”.[3] Il 12 dicembre scorso, la Camera ha approvato, in terza lettura e a maggioranza schiacciante, la risoluzione congiunta che autorizza il Congresso, o una costituente bipartisan appositamente istituita, a emendare la Carta fondamentale. Il testo prevede la riorganizzazione politicoamministrativa della Repubblica in 18 stati federali e due regioni autonome, che avranno competenza esclusiva su diverse materie. L’iniziativa legislativa ha preceduto i due referendum, tenuti rispettivamente il 21 gennaio e il 6 febbraio di quest’anno, sulla legge organica che istituisce la “Regione Autonoma Bangsamoro del Mindanao musulmano” (BARMM), firmata da Duterte nel luglio scorso. I due plebisciti mettono fine al processo di pace con il Moro Islamic Liberation Front (MILF), già avviato dalla precedente amministrazione di Benigno S. Aquino III (2010-2016), e riportano una parvenza di stabilità nella provincia meridionale del Lanao del Sur e nel suo capoluogo, Marawi City.[4]

Benchè la riforma in senso federale delle Filippine sia stata accolta con tiepido interesse, la campagna elettorale si sta in gran parte giocando sulla discussa e contestata guerra alla droga. Il 20 febbraio il Presidente ha dichiarato che la campagna Oplan TokHang (letteralmente, “Bussa e rivolgi domande”) lanciata nel luglio 2016 andrà avanti e avrà, anzi, risvolti più cruenti. Tale dichiarazione fa seguito al ritrovamento di grossi quantitativi di cocaina lungo le coste orientali dell’arcipelago, che secondo le autorità sarebbero state spedite dal cartello di Medellín. Duterte è stato eletto presidente nel maggio 2016 con la promessa di sradicare il crimine e di salvare le future generazioni “dalla perdizione” generata dalla tossicodipendenza. Le vittime di questa campagna sono gli affiliati delle gang locali, gli spacciatori e i piccoli e grandi fornitori delle sostanze stupefacenti, e in particolare della famigerata shabu, la metanfetamina proveniente dalla Cina. Il consumo di questa droga affligge milioni di filippini ed . considerato dallo stesso presidente un problema di sicurezza nazionale che, al pari del terrorismo, rischia di intaccare l’unità del Paese.[5]

Duterte ha mostrato sensibilità verso il problema della droga già durante il suo incarico da sindaco di Davao City, che tra gli anni Settanta e Ottanta salì agli onori delle cronache per essere stata la città più violenta del Paese. Visti i risultati ottenuti tra il 1988 e il 2016, “Digong” (uno dei soprannomi di Duterte) ha esteso a livello nazionale il “modello Davao”, dove le tradizionali operazioni della Polizia nazionale filippina (PNP) si alternano a quelle dei vigilantes privati. Questi ultimi sono meglio conosciuti come “squadroni della morte” e sono responsabili delle cosiddette “extrajudicial killings”, le esecuzioni sommarie e spesso arbitrarie volte a neutralizzare qualsiasi persona sospettata di far uso, detenere o spacciare quantità anche minime di sostanze stupefacenti.[6]

Le cifre sulle vittime della campagna antidroga sono discordanti. Secondo i dati della Philippine Drug Enforcement Agency (PDEA), dal 1 luglio 2016 al 31 gennaio di quest’anno se ne contano pi. di 5.000, di cui oltre 1.800 nella sola area metropolitana di Manila.[7] I minori (di et. compresa tra i 9 e i 17 anni) vittime degli abusi e degli eccessi della polizia e degli “squadroni della morte” sarebbero oltre 1.800.[8] Per contro, rilevazioni non ufficiali suggeriscono che i morti potrebbero superare quota 10 mila, di cui meno di tremila uccisi dalla PNP.[9] A pagare il prezzo più alto delle oltre 110 mila operazioni antidroga sono stati prevalentemente individui appartenenti alle classi più disagiate, anche se non sono stati risparmiati imprenditori e amministratori locali,[10] in un Paese dove, peraltro, il tasso di omicidi per arma da fuoco era in costante aumento già prima di Duterte.[11]

A prescindere dalla netta discrepanza tra le fonti ufficiali e le stime pubblicate dalle organizzazioni internazionali, i numeri della guerra alla droga prefigurano uno spargimento di sangue di vaste proporzioni che ha suscitato ferme reazioni in patria. In particolare, ha fatto scalpore il ritardo con cui la Chiesa Cattolica filippina, tra le voci più critiche della campagna antidroga, ha pubblicamente intimato al Governo di porre fine al massacro indiscriminato di criminali e di presunti innocenti. La Conferenza Episcopale filippina si è solo di recente scusata per essere rimasta per troppo tempo in silenzio, dichiarandosi non del tutto persuasa dalla parziale ammenda fatta dall’ex Capo della PNP, Ronald “Bato” dela Rosa. È molto probabile che le scuse del vecchio braccio destro di Duterte abbiano lo scopo di attrarre il voto dei cattolici nella sua personale corsa per un seggio in Senato.

Le esternazioni della comunità cattolica filippina, seppur tardive, hanno ridato nuova linfa alla protesta proveniente da alcuni settori della società civile. iDefend, associazione impegnata per la difesa dei diritti umani e per il rispetto dello stato di diritto nelle Filippine, sostiene da tempo che gli “squadroni della morte” opererebbero al di fuori della legge, non essendo soggetti a regole e a controlli, mentre gli agenti di polizia riceverebbero compensi in denaro da parte dello Stato in base al numero di persone arrestate. L’estate scorsa, proprio iDefend ha presentato, assieme ad altre organizzazioni delle vittime della campagna antidroga, una petizione alla Corte Penale Internazionale – la seconda in tre anni – con la quale si richiedeva la formale incriminazione di Duterte per crimini contro l’umanità. La Corte dell’Aja ha accettato di esaminare il caso in via preliminare, ma il governo di Manila, in tutta risposta, ha depositato la notifica di ritiro unilaterale dallo Statuto di Roma – segno che l’amministrazione non intende retrocedere di un passo, e, al contrario, in futuro potrebbe introdurre misure più severe. Il progetto di legge del senatore Richard Gordon, ancora fermo in commissione al Senato, prevede la sospensione dell’habeas corpus per i reati di droga.[12] Inoltre, è in via di discussione il provvedimento che intende reintrodurre la pena di morte per chi si macchia dei medesimi crimini.

La guerra alla droga è invisa anche a una parte del giornalismo filippino, e in particolar modo, a Rappler. Maria Ressa, responsabile editoriale e CEO dal magazine online più seguito dai giovani filippini, è stata arrestata e trattenuta nell’ufficio del National Bureau of Investigation con l’accusa di diffamazione a mezzo stampa nei confronti di un uomo d’affari, in violazione del Cybercrime Prevention Act del 2012. Qualcuno scommette che dietro l’arresto ci sia lo zampino del presidente, che non ha mai mancato di esternare la propria antipatia per Rappler. Prima ha accusato la Ressa di ricevere finanziamenti esteri, contravvenendo alla rigida normativa filippina in materia. Successivamente, l’Ufficio della Presidenza ha vietato a Pia Ranada, corrispondente di punta della testata, l’accesso alla sala stampa di Palazzo Malacañang. L’arresto della Ressa ha innescato la decisa condanna sia dell’Alto Commissariato alle Nazioni Unite per i Diritti Umani sia dell’ex Segretario di Stato americano Madeleine Albright, anche se non sono mancate voci critiche sulla presunta spettacolarizzazione della vicenda, sapientemente sfruttata dalla direttrice di Rappler per denunciare gli abusi del Cybercrime Prevention Act. In maniera non del tutto dissimile da quanto avviene in Thailandia e in Malaysia, le autorità filippine fanno infatti ricorso alla legge di contrasto al cybercrimine e alle fake news per tarpare le ali alla libera informazione.

I giornalisti scomodi sono etichettati come veri e propri cospiratori comunisti, vittime di quella pratica denominata red tagging. La lista annovera anche sindacalisti, avvocati, attivisti e, in generale, tutti coloro che manifestano pubblicamente il proprio dissenso nei confronti dell’amministrazione e del suo operato. Questo accanimento contro i nemici dichiarati è solo uno degli elementi che compongono il “Dutertismo”, ovvero il fenomeno populista che dal 2016 è riuscito a guadagnare consensi trasversali nelle Filippine, anche al di fuori della propria area politica di riferimento, nonostante sia portatore di uno stile violento e autoritario. Duterte veste i panni del “macho-leader” poco avvezzo al sistema di checks and balances, prediligendo piuttosto un governo guidato esclusivamente dalle priorità e dalle preferenze dell’uomo forte.[13] Buona parte della sua popolarità dipenderà dai risultati conseguiti nel contrasto all’illegalità, aderendo a una tendenza in voga fin dalla fine degli anni Novanta. Già l’ex Presidente Joseph E. Estrada (1998-2001) aveva promesso, senza successo, di debellare il crimine dalle città filippine. Similmente, anche per via del fatto che il problema della droga è tornato a catturare l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale, Duterte ha voluto rispondere alle latenti richieste di ordine e giustizia prospettando soluzioni spicce e perentorie, tipiche di quel costrutto sociologico che prende il nome di “penal populism”, recentemente rispolverato dalla sociologa Nicole Curato e applicato al caso filippino. Il messaggio giustizialista risalente all’esperienza trentennale di amministratore locale è stato replicato a livello nazionale e vede intrecciarsi un linguaggio informale e colorito con una forte retorica nazionalista, manichea e a tratti sessista. Ciò ha avuto un inevitabile riflesso sulla strategia comunicativa di “Digong”, che ha fatto affidamento su strumenti immediati e di larga diffusione come i social network, sconfessando così i canali tradizionali della comunicazione politica.[14]

Un altro aspetto del “Dutertismo” è l’insofferenza alla normale dialettica politica. Finora, più che dal Senato, le critiche più dure sono giunte dalla vicepresidente Robredo. La Costituzione filippina prevede per la vice-Presidenza un’elezione distinta – ma comunque concomitante – da quella presidenziale, perciò non è infrequente imbattersi in situazioni in cui il presidente eletto proviene da un’estrazione politica diversa da quella del vicepresidente. Nel dicembre 2016 la Robredo si è dimessa dal Gabinetto Duterte in segno di protesta per la campagna antidroga e ha recentemente dichiarato che nelle Filippine si sta rivivendo la stessa atmosfera politica del 1972, quando Marcos impose la legge marziale per sbarazzarsi dei dissidenti interni, in totale sprezzo delle libertà civili.

A proposito della sua ascesa, il sociologo Walden Bello sostiene che Duterte sia un sottoprodotto del fallimento della rivolta democratica che ha condotto alla caduta del regime di Marcos nel febbraio 1986. Allora, il grande movimento popolare della Epifanio de los Santos Avenue (EDSA) aveva manifestato per il ritorno alla democrazia, la riduzione delle diseguaglianze e la realizzazione di una efficace politica di contrasto alla corruzione dilagante. Durante la trentennale transizione democratica, gran parte delle promesse in campo sociale sono state però disattese, tant’è che le Filippine presentano a oggi un tasso di povertà tra i più alti del Sud-est asiatico. All’opposto, si è assistito al consolidamento delle élite politiche tradizionali, che storicamente detengono le redini del potere fin dal periodo postcoloniale. In questo senso, l’elezione di Duterte può essere interpretata come la ripulsa del sistema oligarchico-familiare. Durante l’ultima campagna presidenziale, l’ex sindaco del Mindanao ha rimarcato la rottura con il passato ponendosi come l’alternativa più credibile ai clan politici dell’era post-Marcos: gli Aquino di Tarlac, i Binay di Makati City, i Roxas di Capiz, solo per citarne alcuni. Ognuno di questi perpetua il proprio potere chiamando a raccolta a ogni consultazione le rispettive constituencies, a cui sono legati da uno stretto rapporto clientelare.[15] Le dinastie famigliari rappresentano una minaccia al sistema democratico nella misura in cui distorcono le relazioni sociali e facilitano il dilagare della corruzione,[16] della povertà e del sottosviluppo. In realtà, anche Duterte è a capo di un feudo politico, molto influente nella provincia di Davao del Sur, e non avrebbe certamente ottenuto una larga vittoria senza il supporto delle élite e della classe media. Questo zoccolo duro di elettori si è poi progressivamente allargato, fino a ricomprendere altri settori della società filippina.[17] Dei senatori attualmente in carica, solo nove non appartengono ad alcuna importante famiglia del Paese.

In conclusione, le elezioni di midterm rappresentano per Duterte l’occasione per proseguire spedito verso la realizzazione del suo programma di governo. In questa fase, il presidente pare non avere rivali, ma resta da vedere se l’ampio consenso popolare di cui gode si tramuterà, da qui ai prossimi tre anni, in un movimento politico organico. L’esito non è scontato, dal momento che il mandato presidenziale dura sei anni e non è rinnovabile. Verosimilmente, la candidatura alle prossime elezioni del 2022 della figlia Sara, che a quanto si apprende scioglierà la riserva solo nel gennaio 2021, potrebbe sancire il successo o il fallimento del progetto politico del padre. Crisóstomo Ibarra, protagonista del romanzo Noli me tangere del 1887, scritto dal poeta e scrittore filippino José Rizal, sosteneva che la nazione fosse un organismo che soffre di una malattia cronica e che, per rimetterlo in sesto, il governo si vedesse a volte costretto a ricorrere a metodi sì duri e violenti, ma utili e necessari. Che la cura prescritta dal “Dutertismo”, pur con tutti i suoi limiti e le contraddizioni con i precetti democratici, si riveli alla fine la medicina più adatta a mantenere le Filippine in buona salute?

[1] L’articolo VI, comma 2, della Costituzione del 1987 prescrive che i membri del Senato siano eletti “at-large by the qualified voters of Philippines”. Tale sistema, utilizzato per l’elezione dei rappresentanti della Camera Alta e delle assemblee legislative locali, permette al partito o alla lista maggioritari di ottenere tutti i seggi in palio. Alle ultime elezioni del Senato del 2016, tuttavia, gli elettori hanno preferito premiare i candidati indipendenti, slegati dalle logiche di partito: si veda Myerson, R., (2016), “A Theoretical Perspective on Possible Political Reforms for the Philippines”, disponibile al sito https://home.uchicago.edu/~rmyerson/research/philippines_rbm.pdf).

[2] Dal punto di vista amministrativo, la Repubblica delle Filippine . attualmente cos. composta: 3 raggruppamenti di isole (Luzon, Visayas, Mindanao), 17 regioni (di cui una autonoma), 81 province, 42.044 barangay (la pi. piccola unit. amministrativa del Paese).

[3] Heydarian, R. J. (2018), The Rise of Duterte. A Populist Revolt against Elite Democracy, London: Palgrave Macmillan, p. 36.

[4] Marawi è stata posta sotto assedio dai miliziani islamisti del Maute Group e di Abu Sayyaf, entrambi gruppi legati all’ISIS, e riconquistata nell’ottobre 2017 dall’Esercito regolare filippino dopo cinque mesi di intensi combattimenti. La legge marziale, dichiarata nel maggio 2017, è stata estesa per la terza volta su tutto il territorio del Mindanao fino alla fine di quest’anno.

[5] Quimpo, N. G., Duterte’s “War on Drugs”. The Securitization of Illegal Drugs and the Return of National Boss Rule, in Nicole Curato, ed., (2017), A Duterte Reader. Critical Essays on Rodrigo Duterte’s Early Presidency, Quezon City: Bughaw – Ateneo de Manila University Press.

[6] Ne parla dettagliatamente Peter Bouckaert di Human Rights Watch in una intervista del 2 marzo 2017, disponibile al sito https://www.hrw.org/news/2017/03/02/killing-squads-insidephilippines-war-drugs.

[7] I dati trovano riscontro in una rilevazione indipendente condotta da ABS-CBN, il più Grande gruppo televisivo filippino controllato dalla famiglia López, che non lesina critiche all’attuale amministrazione.

[8] Nel novembre scorso, un tribunale di Caloocan City ha condannato tre poliziotti implicati nella morte di un minorenne sospettato di far utilizzo di stupefacenti. Nella fattispecie, il tribunale non ha riconosciuto agli imputati il diritto alla legittima difesa.

[9] Cfr. ICC, Report on Preliminary Examination Activities, 5 December 2018, online: https://www.icc-cpi.int/itemsDocuments/181205-rep-otp-PE-ENG.pdf, pp. 15-18.

[10] Su Peter Lim, l’imprenditore di Cebu che secondo Duterte sarebbe implicato in un traffico nazionale di droga, pende dall’agosto scorso una taglia di 500 mila pesos (poco più di novemila dollari). Nel luglio 2018, invece, Antonio Halili, sindaco di Tanauan City e grande sostenitore del presidente, . stato ucciso da un uomo che si è poi dileguato. Si tratta del quarto sindaco ucciso da quando il presidente . in carica.

[11] Il sito GunPolicy.org non presenta dati aggiornati, tuttavia ha rilevato che gli omicidi sono aumentati, in due anni, da 8.484 del 2012 a 9.756 del 2014. Per maggiori dettagli si veda: Alpers, P. and Picard, M. (2018), Guns in the Philippines: Homicides (any method), Sydney School of Public Health, The University of Sydney, online: https://www.gunpolicy.org/firearms/compareyears/146/number_of_homicides_any_method.

[12] In sostanza, le autorit. di polizia non sarebbero costrette a presentare gli arrestati davanti al giudice, chiamato a formulare uno o pi. capi di accusa. Per maggiori dettagli si veda: Human Rights Watch (2018), World Report 2019: Philippines – Events of 2018, online: https://www.hrw.org/world-report/2019/country-chapters/philippines#1ff4dc.

[13] Heydarian, R. J. (2018), The Rise of Duterte. A Populist Revolt against Elite Democracy, London: Palgrave Macmillan, p. 9.

[14] Curato, N. (2016), “Politics of Anxiety, Politics of Hope: Penal Populism and Duterte’s Rise to Power”, Journal of Current Southeast Asian Affairs, 35 (3), pp. 94-100.

[15] Ku, S. C. Y (2014) The Philippines After Marcos. Unchanged After Changes, in Hsin-Huang, Michael Hsiao, (a cura di), Democracy or Alternative Political Systems in Asia. After the Strongmen, Abingdon and New York: Routledge, pp. 100-102.

[16] Tadem, T, S. E., Tadem, E.C. (2016), “Political Dynasties in the Philippines: Persistent Patterns, Perennial Problems”, South East Asia Research, 24 (3), pp. 332-333.

[17] Thompson, M. R. (2016), “Bloodied Democracy: Duterte and the Death of Liberal Reformism in the Philippines”, Journal of Current Southeast Asian Affairs, 35 (3), p. 41.

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