Sulla carta, il Ruanda è il portabandiera della parità dei sessi nel mondo: ha la più alta percentuale di donne in parlamento (67,5%) ed è sesto in classifica tra i paesi che hanno ridotto il divario di genere secondo il World Economic Forum — preceduto solo da quattro paesi scandinavi e il Nicaragua.
A venticinque anni dal genocidio del 1994, l’uguaglianza tra i sessi viene imposta dal governo a tutti i livelli: educazione, economia, politica. Ma la vita di tutti i giorni per le donne ruandesi è ancora segnata da discriminazione e violenza, eredità del recente passato del paese e della sua società ancora profondamente patriarcale. Il cambiamento è nelle mani di questa generazione.
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Due grandi tendoni bianchi si stagliano su quello che fino al giorno prima era solo un campo di terra brulla e rossa nella provincia di Bugesera, nel Ruanda orientale. Gli invitati vanno a sedersi all’ombra nel caldo insopportabile — è agosto, la stagione secca — e le damigelle d’onore distribuiscono loro bottigliette di Fanta. Si dividono in due gruppi — chi è con la futura sposa, Divine Uwamahoro, a sinistra; chi con il futuro sposo, Innocent Ntirengaya, a destra — e le tende si riempiono subito di occhiali da sole, completi colorati e kitenge, il tessuto tradizionale africano laccato in cera. Bambini curiosi da tutto il vicinato si arrampicano sugli alberi di avocado: sta per cominciare lo spettacolo.
“Grazie a tutti di essere venuti a festeggiare il Presidente!”, attacca l’animatore della cerimonia. Secondo la tradizione ruandese, un matrimonio non può essere dichiarato tale prima che sia stata chiesta ufficialmente la mano della sposa, tramite l’intervento di alcuni “vecchi saggi”. Ecco che un uomo con occhiali e capelli grigi — il vecchio saggio scelto dalla famiglia del pretendente — si fa avanti offrendo alla famiglia della sposa una bottiglia di vino che, guarda caso, si chiama ‘Divine’.
“Non avevate precisato quale delle nostre ragazze volete, Divine non è più libera!” rispondono dalla tenda della futura sposa. L’usanza vuole che la famiglia non ceda troppo facilmente. “Ma potete prendere sua cugina Murekatete”, scherzano ancora. Il microfono passa di mano in mano mentre la sceneggiata continua. Alla fine, la richiesta di Innocent viene accolta, così come la dote (otto mucche, che muggivano da ore nel campo vicino) e i due sposi finalmente appaiono davanti a tutti, abito chiaro per lui e vestito bianco per lei. Un pastore in abito tradizionale e cappello da cowboy canta le sue preghiere per la buona salute della coppia — e delle vacche — e da entrambe le tende si sprecano benedizioni e fotografie.
Divine non si immaginava di sposarsi così giovane, a 22 anni, pur essendo già madre della piccola Keza Leilla da tre anni e mezzo. Quando però ha incontrato Innocent, a un matrimonio di un’amica due anni prima, è stato un colpo di fulmine. “Gli ho raccontato la mia storia e non si è tirato indietro”, ricorda, “ha saputo ascoltarmi e accettarmi per quella che sono”.
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Divine è nata da uno stupro commesso durante il genocidio. Innocent è un orfano — ha perduto suo padre durante i massacri e sua madre poco dopo. Venticinque anni dopo, il solo nome del Ruanda rievoca ancora al mondo intero quei terribili cento giorni tra l’aprile e il luglio del 1994. Cento giorni che hanno fatto più di 800mila morti — la grande maggioranza di loro della minoranza etnica Tutsi, per mano di estremisti Hutu — durante la guerra civile tra governo hutu e il Fronte Patriottico Ruandese (Rwandan Patriotic Front, RPF), costituito principalmente da rifugiati tutsi. Secondo le stime delle Nazioni Unite, 95mila bambini sono diventati orfani, e fra le 250mila e il mezzo milione di donne sono state violentate. Una di loro era la madre di Divine.
Sotto la guida di Paul Kagame, Presidente del Ruanda dal 2000 e rieletto per la terza volta nell’agosto 2017 con il 98% dei voti, il piccolo paese dell’Africa orientale continua ad affascinare la comunità internazionale. Kagame era alla testa delle forze ribelli del RPF che sono arrivate dall’Uganda e hanno fermato il genocidio del luglio 1994. L’uomo, al potere da diciasette anni (e che potrebbe restarci fino al 2034, a seguito di una modifica della Costituzione nel 2015) è spesso criticato per aver creato un regime fortemente autoritario. Alcuni successi sono però innegabili: un paese stabile, con un’economia in crescita all’8% e tassi di povertà in caduta libera, soprannominato “Miracolo ruandese” o “Singapore d’Africa”. E al cuore di questa società reinventata ci sono le donne.
La generazione di Divine è cresciuta in un paese molto diverso rispetto al Ruanda pre-1994: nella scuola primaria e secondaria ora maschi e femmine hanno lo stesso numero di iscritti, mentre a livello governativo la presenza femminile in posti di potere è aumentata grazie all’introduzione di un sistema aggressivo di quote rosa a partire dalla nuova Costituzione del 2003. Appena cinque anni più tardi, il Ruanda ha fatto la storia come il primo paese al mondo a eleggere più donne che uomini in parlamento, con il 56%. Nel 2013, un nuovo record vide le deputate donne salire al 64% — a tutt’oggi, in Italia sono 31%. Questi passi da gigante per la condizione femminile sono stati tristemente necessari all’indomani del genocidio. Non solo le donne rappresentavano il 70% dei sopravvissuti ai massacri, ma le loro mani erano anche meno sporche di sangue: il 94% di coloro che sono stati accusati di genocidio erano uomini.
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Al matrimonio di Divine, sua madre Verena Mukashuge è seduta in terza fila e la guarda fiera: come è bella ed elegante nel suo vestito da sposa. Durante il genocidio, il primo marito di Verena fu ucciso, mentre lei e la sua primogenita furono entrambe vittime di stupri collettivi da parte delle milizie hutu. Entrambe si sono ritrovate incinte — Verena di una femmina, Divine, mentre sua figlia di un maschio, Arthur, ed è poi morta dopo poco tempo. Divine e Arthur sono cresciuti sotto lo stesso tetto degli altri fratelli e sorelle. “Non riuscivo a provare amore per loro”, confida a fatica Verena, che era decisa a non dir loro mai la verità, fino al giorno in cui non ha incontrato un’altra sopravvissuta.
La donna le ha parlato di SEVOTA (Solidarietà per la Crescita delle Vedove e degli Orfani nel Lavoro e nella Promozione di Sé), un’associazione di donne che offre supporto psicologico e finanziario alle vedove del genocidio, come alle mogli degli autori delle violenze e alle donne vittime degli stupri. Quando Verena è entrata a far parte di questo gruppo di donne, ha realizzato per la prima volta che molte altre condividevano la sua storia. “Mi sono sentita quasi guarita”, racconta. I bambini nati dalle violenze non ricevono alcun aiuto da parte dello stato, a differenza degli orfani del genocidio. Con i pochi aiuti ricevuti da SEVOTA, Verena è riuscita a pagare le rette scolastiche di Divine e Arthur. E vedere delle sconosciute che tendevano la mano, sia a lei che ai due bambini “mi ha ispirata”, continua, “se potevano amarli queste altre donne, allora dovevo riuscirci anche io”.
“Dovevamo ricominciare a vivere”, ricorda Godeliève Mukasarasi, 58 anni, la fondatrice di SEVOTA. Anche lei ha visto sua figlia stuprata durante il genocidio, e poi uccisa a fianco del marito e di altre nove persone poco dopo la fine dei massacri. Per non cedere alla violenza o alla disperazione lei stessa, Mukasarasi ha quindi deciso di mobilitare altre vittime di stupro e insieme le donne hanno trovato il coraggio di testimoniare davanti al Tribunale penale internazionale per il Ruanda (International Criminal Tribunal for Rwanda) creato ad Arusha, in Tanzania, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha avuto un ruolo fondamentale nella definizione del concetto di genocidio. In passato, a un violentatore veniva data la stessa pena che a un ladro di vacche. Le parole delle donne che testimoniarono ad Arusha fecero sì che per la prima volta lo stupro fosse riconosciuto come crimine contro l’umanità e arma di genocidio. “La violenza sessuale ha fatto parte della distruzione dei Tutsi. Distruzione dello spirito, della volontà di vivere, della vita stessa”, riporta la sentenza contro i genocidaires della regione di Butare, nel sud del Ruanda. Ci è voluto molto tempo per capire cosa volessero dire queste parole — anche per Verena, e per Divine stessa.
A sedici anni, Divine ha scoperto la verità per caso. Stava andando a farsi la sua prima carta d’identità e i suoi due fratellastri più grandi le hanno detto che non era figlia dell’uomo che pensava fosse suo padre. Messa alle strette dall’adolescente, Verena ha confessato. “Riuscite a immaginarvi cosa significhi nascere da uno stupro?”, chiede Divine, sgranando gli occhi. “La prima settimana, non ho detto nemmeno una parola a mia madre. Nei mesi seguenti, la trattavo come una sconosciuta”. Divine ha cominciato a chiudersi in se stessa. “A scuola non parlavo più, mi vergognavo davanti ai miei amici”. Non capiva cosa sua madre avesse vissuto, “al contrario, pensavo fosse stata infedele a mio padre. Non sapevo nulla dello stupro usato come arma di guerra”. Non riusciva a comprendere la storia del suo paese, e come lei stessa fosse venuta al mondo.
Per Divine, come per sua madre, la consapevolezza è arrivata dopo essere entrata in uno dei Club della Pace organizzati da SEVOTA per i bambini nati da violenze commesse durante il genocidio. “Ho capito che non ero la sola”, racconta. E che non era colpa di sua madre. Né sua. I bambini nati dagli stupri commessi durante il genocidio in Ruanda sono tra i 5mila e i 20mila, secondo le stime ufficiali. Al Club di Divine, psicologi ed educatori hanno insegnato ai ragazzi come usare la terapia cognitivo-comportamentale per lenire il proprio trauma. Ora lei sa che battendosi piano con due dita sulla fronte, le tempie, il petto e le braccia, riesce a scacciare anche i pensieri più cupi. Dei gesti semplici, che ha insegnato anche a sua madre.
“Sarà sempre una parte di me”, racconta oggi del tormento che a volte ancora prova pensando che sua madre non l’abbia amata come i suoi altri figli. Ma adesso, la giovane madre sa di avere una grande responsabilità: “Dobbiamo fare attenzione a come parliamo ai bambini più piccoli. Io non voglio che l’eredità che lascerò a mia figlia sia il trauma”.
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