La Nuova Zelanda è un campione del multilateralismo, è stata tra i proponenti originari del Partenariato Trans-Pacifico (TPP) ed è coinvolta nei negoziati per il Partenariato Economico Regionale Globale (Regional Comprehensive Economic Partnership – RCEP). Il Paese intrattiene stretti legami con l’Europa, accordi di libero scambio con numerosi stati asiatici e, avendo la più ampia popolazione polinesiana al mondo, ha rapporti molto stretti con altre isole del Pacifico. Inoltre, nonostante le tensioni tra Stati Uniti e Cina, la Nuova Zelanda ha solidi rapporti con entrambe le superpotenze: condivide informazioni di intelligence con Washington, mentre gli investitori cinesi stanno assorbendo rapidamente una quota consistente del settore immobiliare e il cinese è ormai lingua diffusa nelle principali città.
La Nuova Zelanda promuove il multilateralismo per sopravvivere. Essendo una piccola economia insulare alle estremità del Pacifico, con una popolazione inferiore ai cinque milioni di abitanti e il Paese più vicino, l’Australia, a tre ore di volo, le connessioni economiche con altri stati rappresentano per la Nuova Zelanda linfa vitale. Una causa scatenante fu l’abolizione da parte del Regno Unito del regime di preferenza con i Paesi del Commonwealth quando, due generazioni fa, Londra si unì alla Comunità Economica Europea. La Nuova Zelanda si trovò improvvisamente lasciata ‘alla deriva’ e comprese che se non poteva più contare sull’ex capitale imperiale aveva bisogno di puntare sul più alto numero possibile di cavalli.
In tale contesto, la Nuova Zelanda percepisce l’espansionismo cinese manifestato dall’Iniziativa “Belt & Road” (BRI) con una certa apprensione, in primis perché la BRI è costituita da una pluralità di accordi bilaterali. Per quanto Pechino si sforzi di presentare l’iniziativa nel modo più attraente possibile, non ci sono dubbi che la BRI sia una strategia huband-spoke con la Cina al centro. E un sistema basato su accordi bilaterali rappresenta un rischio per piccoli Paesi dipendenti dal commercio come la Nuova Zelanda perché, essendo quella con la Cina una relazione asimmetrica, quest’ultima ha la possibilità di interferire mettendone a repentaglio l’autonomia.
Ciononostante, la sopravvivenza della Nuova Zelanda dipende contestualmente dal far parte di più reti possibili e pertanto non può permettersi il lusso di essere troppo selettiva. La BRI, infatti, offre grandi opportunità al Paese, in particolare perché la Cina è una destinazione cruciale per le esportazioni di prodotti alimentari. Se in Cina vi è infatti una forte domanda sostenuta anche dall’aumento di consumatori ricchi che richiedono prodotti di alta qualità (in particolare carne e prodotti lattiero-caseari), la Nuova Zelanda è rinomata per una produzione alimentare di prima classe che incontra la domanda cinese.
La Nuova Zelanda si è tuttavia da tempo impegnata a coltivare una buona relazione con Pechino essendo il primo Paese a esprimere parere favorevole all’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) nel 1997, a riconoscere alla Cina lo status di economia di mercato nel 2004, e a concludere un negoziato di libero scambio nel 2008 (attualmente in fase di aggiornamento).
Va però sottolineato che entrambi i Paesi traggono vantaggio dalla relazione bilaterale. Un beneficio significativo per la Cina consiste nella possibilità di proiettare al mondo un’immagine di egemone benevolo attraverso la proficua (e non minacciosa) collaborazione con un piccolo stato occidentale come la Nuova Zelanda, accrescendo il proprio soft power. Al contempo, la Nuova Zelanda cercherà di sfruttare la BRI a proprio vantaggio senza diventare eccessivamente dipendente dalla Cina, e coinvolgendo più Paesi all’interno dell’infrastruttura economica dell’Asia-Pacifico. La Nuova Zelanda cercherà così di trovare modalità che le permettano di utilizzare la BRI non solo in relazione alla Cina, ma anche per approfondire i legami con gli altri stati compresi nel suo raggio. La partecipazione dei leader di Cile e Argentina al Belt & Road Forum nel maggio 2017 ha schiuso alla Nuova Zelanda l’opportunità di trasformarsi in un trampolino tra Sud-America e Sud-est asiatico. Se le attività economiche della Cina nel Pacifico meridionale aumenteranno, la Nuova Zelanda potrà analogamente agire come punto d’accesso verso più piccoli stati insulari quali Tonga o Samoa.
Inoltre, la Nuova Zelanda sta cercando di accrescere i propri legami con l’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico (ASEAN) al fine di incrementare la propria autonomia. Il blocco è infatti una potenziale zona neutrale tra le due superpotenze sempre più antagoniste e la BRI può servire a rafforzare l’ASEAN. Infatti, il principale ostacolo allo sviluppo della regione (oltre ai problemi burocratici legati alla creazione di regole comuni e un sistema coordinato) è rappresentato dal deficit di infrastrutture fisiche. Le imprese thailandesi possono espandersi in Myanmar con l’appoggio finanziario da Singapore, ad esempio, solo in presenza di strade, ferrovie e collegamenti marittimi tra il Myanmar e il resto dell’ASEAN. Di conseguenza, dal momento che la BRI ha lo scopo di connettere il Sud-est asiatico alla Cina meridionale sviluppando tali infrastrutture, la Nuova Zelanda vede nella BRI un’opportunità di sviluppo per l’ASEAN e quindi la potenzialità per la creazione di nuovi mercati per i prodotti neozelandesi.
In sintesi, la Nuova Zelanda vede la crescente influenza cinese con apprensione, ma anche come un’opportunità troppo grande per essere persa. La Nuova Zelanda è un piccolo stato che non può influenzare l’allineamento delle placche tettoniche della geopolitica, ma può solo impegnarsi a mantenere buone relazioni con tutti gli attori e volgere l’ordine globale il più possibile a proprio vantaggio. Dal momento che verosimilmente la Cina continuerà la propria ascesa, la Nuova Zelanda è pronta ad adottare politiche capaci di sfruttare tale trend.
Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini.
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