Il peacebuilding italiano: quali opportunità?
Sebbene non ancora consolidata, l’azione di peacebuilding avrebbe in Italia solide basi per un significativo sviluppo. A livello normativo, la nuova legge sulla cooperazione internazionale richiama l’Art. 11 della Costituzione e include tra gli obiettivi fondamentali la prevenzione dei conflitti e il sostegno ai processi di pacificazione, di riconciliazione, di stabilizzazione post-conflitto, di consolidamento e rafforzamento delle istituzioni democratiche (Legge 125/2014). Anche le disposizioni sulla partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali (Legge 145/2016) pongono la condizione del rispetto dei principi dell’Art. 11 della Costituzione (oltre che del diritto internazionale generale, del diritto internazionale dei diritti umani, del diritto internazionale umanitario e del diritto penale internazionale). Queste disposizioni prevedono inoltre la partecipazione dei Corpi Civili di Pace (CCP) accanto a quella delle Forze Armate e delle Forze di Polizia a ordinamento militare o civile, fornendo una base privilegiata e ampia per interventi di peacebuilding.
Sul piano politico-istituzionale, l’Italia contribuisce attivamente – anche attraverso una strategia nazionale – all’attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile che include l’obiettivo di promuovere società pacifiche e inclusive (Sustainable Development Goal 16, SDG 16), e impegna risorse nella azione multilaterale, risultando tra i maggiori donatori del fondo Nazioni Unite dedicato al peacebuilding, il Peacebuilding Fund.
Da oltre un decennio, l’Italia è inoltre impegnata in maniera attiva attraverso Piani d’Azione Nazionali specifici nell’implementazione dell’agenda internazionale “Donne, pace e sicurezza”, che prevede la promozione del ruolo delle donne in tutte le fasi dei processi di pace, con riferimento anche ad attività di peacebuilding a vari livelli.
Uno degli elementi più caratterizzanti del sistema italiano – determinante nei processi di costruzione della pace dal basso – è la presenza di una società civile plurale e attiva, che trova origine e alimento in culture diverse, particolarmente in ambito cattolico e progressista. Tra le organizzazioni della società civile italiana quelle attive nel peacebuilding sono senz’altro meno numerose e visibili di quelle del settore umanitario o quelle di solidarietà. Tuttavia, il lavoro di pace in Italia è sostenuto da decenni da una comunità piuttosto solida e ben articolata: essa è fatta di realtà “storiche” caratterizzate dall’impegno nell’ambito della ricerca (Centro Studi Sereno Regis), dell’advocacy e della formazione (CSDC), dell’azione in aree di crisi croniche e/o dimenticate (Assopace), nell’accompagnamento e nell’azione dal basso (Operazione Colomba), nell’elaborazione di idee e proposte politiche (Movimento Nonvionento), accanto ad organizzazioni che hanno avuto un forte sviluppo in questo ambito connotandosi oggi come multi-mandato (UPP), e nuove realtà con un profilo più tecnico-specialistico (Agenzia per il Peacebuilding).
Se occasionalmente la società civile impegnata nel lavoro di pace ha beneficiato di un contributo pubblico per attività di informazione, l’impossibilità di un sostegno diretto ad azioni sul campo ha limitato le possibilità di sviluppo e ha orientato le organizzazioni della società civile (OSC) italiane verso l’advocacy. Le attività delle diverse reti nazionali dedicate (Rete della Pace, Tavola della Pace, Tavolo Interventi Civili di Pace) è stata anche arricchita nel tempo da esperienze e scambi di livello internazionale (con realtà come Nonviolent Peaceforce, European Network for Civil Peace Services, European Peacebuilding Liaison Office). Negli ultimi anni sono state promosse un paio di campagne nazionali di rilievo. La prima in ordine di tempo, “Un’altra difesa è possibile”, è finalizzata alla creazione di un Dipartimento dedicato alla difesa civile non armata e nonviolenta nonché di un Istituto di ricerca sulla pace e il disarmo, ed è culminata nella presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare, poi ripresa in ambito parlamentare. Una proposta più recente mira all’istituzione di un Ministero della Pace, per dar vita a un nuovo sistema nazionale per la promozione della pace. In diverse circostanze le OSC italiane hanno dimostrato inoltre capacità di interlocuzione diretta con le istituzioni e con le stesse Forze Armate, condividendo ricerche (CEMISS), dialogando sulle politiche (Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa) e organizzando momenti di confronto pubblico. L’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (AOI) è stata parte di accordi di cooperazione multistakeholder in aree di conflitto (Libano).
Un’espressione significativa dell’esperienza italiana nel peacebuilding è rappresentata dai già menzionati CCP. L’idea – nata in Europa dalla proposta dell’italiano Alexander Langer e supportata per anni dalle OSC di pace italiane – si è finalmente concretizzata qualche anno fa con l’istituzione in via sperimentale di un contingente di giovani volontari (500 in totale) da impegnare in azioni di pace non governative. La sperimentazione in Italia presenta una formula originale con pochi analoghi nel mondo ed è chiaramente connotata nella sfera del peacebuilding grazie a un mandato focalizzato sulla gestione e prevenzione dei conflitti (anche nella parte riguardante le emergenze ambientali, attuabile sia all’estero che sul territorio italiano). La carta etica dei CCP – adottata con un processo partecipato dal basso – è caratterizzata da principi specifici del settore (nonviolenza, ownership locale, terzietà nel conflitto). L’alto numero di aspiranti volontari per questo tipo di progetti – in controtendenza rispetto all’andamento generale del Servizio Civile – è un indicatore importante della vitalità del settore, vitalità che negli ultimi anni spesso i media hanno messo in questione.
Un potenziale in larga parte inespresso
Il potenziale determinato dalla compresenza di un quadro normativo favorevole, di un rilevante bagaglio di esperienze dal basso e dalla sperimentazione di formule originali e innovative, rischia tuttavia di rimanere ancora inespresso a causa di una serie di ostacoli persistenti. La cooperazione italiana stenta ancora oggi a parlare il linguaggio del peacebuilding e a dare opportunità in quest’ambito alle OSC.
L’Italia non ha ancora sfruttato appieno i meccanismi delineati nella Legge 125/2014 e attuato i suoi piani per valutare, arbitrare e monitorare i potenziali conflitti: lo confermano i dati dell’ultima Peer Review dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (OECD), la prima pubblicata dopo la nuova legge, che incoraggia il paese a capitalizzare i suoi punti di forza mantenendo e rafforzando il proprio sostegno alla sua fitta rete di organizzazioni non governative (ONG) sul campo attraverso un sostegno flessibile e diretto, in particolare nei contesti più fragili.
Il rinnovamento necessario è ostacolato anche dalla mancanza di risorse: sia economiche, oggi di nuovo in calo dopo un periodo di forte ripresa, sia umane, ancora sottodimensionate a vari livelli tanto presso il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) quanto nell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS). Persiste inoltre la tendenza generale del paese a privilegiare il canale multilaterale, sul quale l’Italia spende circa la metà dell’aiuto pubblico allo sviluppo (APS).
In ambito politico, in un quadro parlamentare fortemente rinnovato e fluido, pur riscontrandosi un certo interesse e nuove aperture sui temi legati alla pace da parte di singoli membri, è venuta meno una presenza organizzata, come è stata quella del gruppo dei “Parlamentari per la pace” che contava nella scorsa legislatura un centinaio di presenze.
Rilevano inoltre aspetti culturali. All’Italia è riconosciuta una particolare capacità di rispondere alle catastrofi naturali a livello nazionale, e un grande impegno e professionalità in interventi di carattere umanitario in contesti fragili. L’azione umanitaria ha invero profonde radici nella storia e nella cultura italiana: è nata in Italia (a Solferino) e si inserisce in un contesto dove lo spirito caritatevole e il volontariato, anche individuale, hanno lunga tradizione e forza. Che le istituzioni italiane riconoscano all’azione umanitaria un ruolo centrale è dimostrato oltre che dall’impegno diretto anche dalla circostanza che la Società Nazionale di Croce Rossa in Italia ha avuto fino a tempi recenti – tra le poche al mondo – natura di “ente pubblico”. Per quanto riguarda più specificatamente l’azione di pace, un posto privilegiato è tradizionalmente assegnato alle Forze Armate nell’ambito delle missioni internazionali. L’Italia è anche presente con personale comandato o reclutato ad hoc in molte missioni civili, soprattutto in ambito europeo, ma manca di una conoscenza diffusa degli strumenti propri della trasformazione dei conflitti.
Rispetto alle OSC, le scarse opportunità, il forte legame con l’attivismo e la connotazione valoriale dell’impegno per la pace non ha permesso la professionalizzazione avvenuta in altri settori. La stessa sperimentazione dei CCP ha rappresentato per molte realtà un’occasione mancata: la collocazione nell’ambito del Servizio Civile ha precluso la partecipazione diretta a molte delle organizzazioni di peacebuilding (spesso prive del riconoscimento di “enti di servizio civile”), mentre non è riuscita – se non in parte – a sollecitare l’interesse specifico in questi ultimi, né quello di organizzazioni dei network di ONG italiane come AOI, CINI e Link 2007. Una problematica rilevante riguarda la gestione burocratico-finanziaria e le procedure di sicurezza, che il lavoro di pace richiederebbe specifiche per tempistica e standard, ma che il sistema italiano ancora non prevede né nell’ambito della cooperazione né del Servizio Civile relativamente all’esperienza CCP.
Infine, dal punto di vista del sistema di attori, l’evoluzione delle OSC verso la concentrazione in realtà internazionali penalizza le realtà di peacebuilding, che in Italia sono spesso piccole e decentrate. Questa si somma alla recente tendenza generale a screditare l’operato delle OSC e a concentrare l’attenzione sul settore privato: proprio alle imprese, nel loro nuovo ruolo di attori della cooperazione, è stato riservato uno spazio rilevante in Coopera 2018, evento nazionale dedicato alla cooperazione internazionale, a cui è seguita la mostra ExCo 2019, e un bando riservato. Il forte interesse nei riguardi delle imprese private si conferma anche campo dei diritti umani, con l’adozione di un Piano d’Azione Nazionale su Impresa e Diritti Umani. L’interlocuzione con i responsabili istituzionali promossa da ONG e reti del settore pace e diritti umani nell’ambito di Coopera 2018 ha invece prodotto un interessante dibattito e utili indicazioni, ma ha avuto la limitata visibilità dei side event e non ha prodotto nel lungo termine seguiti significativi.
Quali prospettive?
Al di là dell’auspicabile destinazione di nuovi fondi pubblici ad hoc, sarebbe opportuno destinare allo sviluppo di attività di peacebuilding parte delle risorse esistenti nei vari settori in cui è prevista la dimensione della pace (Cooperazione Internazionale, Difesa, Donne, pace e sicurezza), in applicazione della normativa e delle politiche di livello nazionale e internazionale.
Oltre alle risorse finanziarie si potrebbero garantire maggiori visibilità e riconoscimento al lavoro di peacebuilding della società civile italiana in iniziative e strutture nazionali e internazionali pertinenti: questo potrebbe portare a maggiori opportunità di finanziamenti privati in linea con la tendenza generale delle ONG italiane a produrre risorse in autonomia e potrebbe rivelarsi utile per stabilire contatti con altri paesi o agenzie internazionali che possano offrire supporto (come avvenuto già in passato con la Germania e UNDP).
La necessità di strumenti di attuazione del cosiddetto Humanitarian-Development-Peace Nexus (HDPN), cioè il nesso fra settore umanitario, sviluppo e pace (oggi promosso nelle maggiori sedi internazionali quali ONU, UE, OECD-DAC) potrebbe rivelarsi determinante. L’elaborazione delle “Linee Guida Nazionali sul Nesso” oggi allo studio nell’ambito del Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo potrebbe avere una funzione strategica per sensibilizzare e offrire strumenti metodologici utili per tutti gli attori del sistema. La presenza di organizzazioni specificamente dedicate al peacebuilding in questo processo potrebbe risultare cruciale: oltre a offrire competenze specialistiche, la loro partecipazione potrebbe favorire il superamento di timori e ostacoli che si sono profilati anche a livello internazionale riguardo alla compatibilità dei principi e delle modalità di azione tra i tre diversi ambiti. La prospettiva della costruzione della pace, basata sul sostegno ai processi dal basso e lo sviluppo delle capacità locali, potrebbe infatti ridurre il timore rispetto all’introduzione nel sistema di logiche securitarie e di modalità coercitive, che entrerebbero in contrasto con i principi propri dell’azione umanitaria e la modalità partecipata caratteristica dei processi di sviluppo.
Un’ulteriore opportunità è rappresentata dal Piano Nazionale d’Azione su Donne, pace e sicurezza. La prospettiva di adozione di uno strumento nazionale dedicato ha favorito l’aggregazione di realtà diverse intorno ai temi della pace, nell’ottica di promuovere la partecipazione attiva delle donne. In particolare, nell’azione di advocacy del III Piano Nazionale d’Azione (2016–2019) una piattaforma informale di una decina di organizzazioni è riuscita a ottenere l’inserimento di diverse previsioni che in seguito, grazie alla destinazione di un budget dedicato, si sono poi tradotte in nuove opportunità di azione dapprima soprattutto nel campo della formazione di livello universitario in Italia, poi anche in attività all’estero. Accanto a quelle prevalenti di peacekeeping militare e di peacemaking femminile, saranno infine realizzate anche azioni di peacebuilding dal basso, come nel caso di un progetto (promosso nell’ambito del NAP 1325 da UPP e di cui il CSDC è partner) che promuove ponti di pace tra donne sfollate, rifugiate sopravvissute alla violenza ed ex combattenti al fine di sostenere le loro capacità come costruttrici di pace, in Iraq e Libano.
Nuovo impulso e preziose indicazioni per sviluppi futuri: l’esperienza dei CCP
Come già accennato, quello dei CCP rappresenta un importante laboratorio per il peacebuilding italiano. Il percorso finora svolto attraverso due bandi specifici ha evidenziato la necessità di un’ulteriore focalizzazione del mandato sull’azione di peacebuilding: un passaggio che permetterebbe di caratterizzare meglio l’esperienza CCP rispetto alle altre di Servizio Civile e di armonizzare azioni e principi evitando possibili contraddizioni o dilemmi (per esempio nel caso in cui il volontario/a assumesse un ruolo diretto e attivo nella difesa/denuncia di violazione dei diritti umani, o nella distribuzione di beni e servizi, in possibile contrasto rispettivamente con i principi di terzietà nel conflitto e local ownership). Gli stessi giovani – che oltre a mostrare grandi impegno e dedizione possiedono in larga parte un notevole background di studi ed esperienze – hanno apertamente avanzato la richiesta di un maggiore riconoscimento della loro professionalità e l’aspirazione a una crescita professionale specifica come operatori/trici di pace.
Indicazioni e richieste del resto in linea con quanto emerso già nel processo di revisione promosso nel 2015 dalle Nazioni Unite nel settore pace e sicurezza, dove non solo relativamente all’architettura del peacebuilding ma anche negli ambiti del peacekeeping e dell’agenda “Donne, pace e sicurezza” si riconosce valore al ruolo specifico della società civile e all’azione nonviolenta sul campo. La necessità di dare priorità alla prevenzione dei conflitti è confermata anche da sviluppi più recenti (Agenda for Humanity, Action for Peacekeeping), ma il sostegno maggiore allo sviluppo di esperienze come quella dei CCP è certamente offerto dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU su “Giovani, pace e sicurezza”, che a partire dal 2015 hanno posto le premesse per mobilitazioni e azioni specifiche a livello internazionale e anche italiano (con la nascita di una rete dedicata a partire da un evento promosso dal CSDC nel 2018).
L’esperienza recente del Servizio Civile, le novità del mondo della cooperazione, le esigenze di rinnovamento e di sostenibilità delle missioni internazionali, e lo sviluppo delle agende internazionali su “Donne, pace e sicurezza” e “Giovani, pace e sicurezza” offrono oggi un’opportunità preziosa per sviluppare sinergie tra attori e individuare nuovi percorsi d’azione per la costruzione di una pace sostenibile e inclusiva da parte dell’Italia.
Per poterla cogliere è necessario non solo dotarsi di strumenti tecnico-finanziari ma anche di un passaggio culturale, che permetta di conoscere e valorizzare il lavoro di pace con le sue specificità. Non solo strumenti e approcci, ma ancor prima attenzione e cura dei processi – aspetti cruciali per un’azione in cui il mezzo è indissolubilmente legato al fine.
L’impegno dell’Italia nell’educazione alla cittadinanza globale, e la nascita della rete italiana delle Università per la Pace, sono elementi importanti per la diffusione della cultura di pace. Un tale percorso potrà svilupparsi efficacemente anche attraversando tutte le sedi deputate (in ambito di Servizio Civile ma anche presso gli operatori dei diversi ambiti della cooperazione e a tutti i livelli istituzionali, incluso il mondo diplomatico e quello militare). Come per lo sviluppo del peacekeeping, la prassi del peacebuilding dovrà essere supportata da studi, ricerche e formazione, concretizzarsi in esperienze, consolidarsi attraverso la raccolta di buone pratiche e lo studio di lezioni apprese che diano impulso allo sviluppo e alla revisione di politiche e linee guida, in un processo virtuoso e dinamico. Un percorso già avviato da tempo grazie all’impegno quotidiano e straordinario di individui e gruppi e che potrebbe diventare un elemento caratterizzante del sistema Italia.
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