Il quadro economico in Cina alla fine del 2012

Lo scorso 22 febbraio sono state rilasciate le statistiche consuntive sulla situazione economica della Repubblica popolare cinese (Rpc) per l’anno 2012. Come si è spesso rimarcato, anche in questa sede, il 2012 è stato un anno di forti apprensioni per l’economia cinese. Alla prova dei fatti, le incertezze di inizio anno si sono tradotte in un ridimensionamento dei tassi di crescita economica, in una forte instabilità della produzione industriale e nell’andamento dei rapporti con l’estero, e in un mancato decollo dei consumi domestici. D’altra parte, la spinta inflazionistica di inizio anno si è mantenuta ben al di sotto dei livelli di guardia ed è emersa con maggiore evidenza la questione sociale, specialmente riguardo alle disuguaglianze.

Il Pil è cresciuto del 7,8% rispetto al 2011, superando di poco l’obiettivo ufficiale del 7,5%. La crescita è stata più debole nel primo trimestre per poi recuperare nel resto dell’anno. Ancora una volta, la crescita della Rpc è stata trainata dal mercato interno. Il contributo della domanda è pesato per circa il 50% della crescita totale, un valore in linea con il contributo degli investimenti. La produzione industriale ha osservato i più bassi tassi di crescita dell’ultimo decennio (Tabella 1). La crisi del settore produttivo è stata segnalata dall’andamento altalenante dell’indice PMI (Purchasing Managers Index) del manifatturiero, i cui valori per la gran parte dell’anno passato hanno segnato un andamento stagnante – se non una recessione, nei mesi estivi – della produzione (Figura 1). L’inflazione ha chiuso l’anno con un incremento medio del 2,6% rispetto al 2011 (Tabella 2), ben al di sotto del target del 4%, ma con una ripresa della spinta sui prezzi – specialmente quelli alimentari – negli ultimi mesi dell’anno, che si prevede proseguirà anche nei primi mesi del 2013. Continuano a non decollare compiutamente i consumi interni, considerando che le vendite al dettaglio hanno chiuso l’anno registrando l’incremento più basso dall’inizio della crisi (Tabella 1). Nonostante un incremento degli scambi con l’estero negli ultimi mesi dell’anno, il contributo netto del commercio estero sulla crescita totale è stato marginale. A questo riguardo è interessante osservare come il saldo delle partite correnti sia tornato a crescere – seppur marginalmente – in termini assoluti per la prima volta dopo la crisi. Ciononostante, si è ulteriormente ridotto il peso sul Pil, adesso al 2,6% (dal 2,7% del 2011).

Nel 2012 si è anche osservato un calo degli investimenti diretti esteri (IDE) in entrata – sia in valore sia nel numero di imprese – rispetto all’anno precedente (Tabella 3). Le cause di questo calo, oltre alla situazione di instabilità internazionale che ha frenato gli investitori, risiedono anche in fattori interni. Tra questi spicca la crescita dei costi di produzione che sembra frenare in particolar modo i nuovi ingressi in settori tradizionalmente forti del manifatturiero quali il tessile e l’elettronica. Si riducono anche gli investimenti nel settore real estate, a causa delle recenti incertezze nel mercato, ma crescono i servizi legati al commercio e alle attività di comunicazione e IT, in vista di un’espansione del mercato interno. Continuano invece a crescere a ritmi sostenuti (+28% rispetto al 2011) gli investimenti delle imprese cinesi all’estero, consolidando il ruolo della Rpc come uno dei principali investitori tra i paesi emergenti, un trend in crescita dalla seconda metà degli anni 2000. Ancora una volta gli investitori cinesi hanno potuto beneficiare anche della maggior disponibilità di riserve in valuta estera (Tabella 2), arrivate allo stratosferico totale di 3,3 mila miliardi di dollari USA (con un incremento del 4,1% rispetto al 2011). Seppure l’informazione non sia pubblicamente disponibile, si reputa che la gran parte di queste riserve siano attualmente investite in titoli di debito pubblico statunitense (per circa il 60%) ed europeo, e che solo una piccola quota sia stata finora investita tramite imprese all’estero.

È interessante infine osservare l’andamento dell’occupazione e dei salari. Il numero di lavoratori nella Rpc ammonta oggi a 767 milioni di individui. Di questi, 371 milioni sono impiegati nelle aree urbane, con un incremento di 12,6 milioni rispetto all’anno precedente, mentre il tasso di disoccupazione urbano si è mantenuto sugli stessi livelli del 2011 (4,1%). I salari nelle aree urbane hanno registrato un aumento del 10% rispetto all’anno precedente (Tabella 2). Leggermente superiore (+11%) è stato l’incremento dei salari nelle aree rurali, il cui gap con le aree urbane è tuttavia ancora molto elevato (un rapporto di circa uno a quattro). Già nei prossimi anni, tuttavia, si attende un forte incremento dei salari dato che la forza lavoro in eccesso nelle aree urbane è in riduzione. È verosimile che questi incrementi riguardino in particolare la forza lavoro più qualificata nelle aree urbane, contribuendo così ad un ulteriore inasprimento delle disuguaglianze, tema che ha guadagnato un forte interesse in tempi recenti e che sarà probabilmente il banco di prova più duro per l’amministrazione di Xi Jinping e Li Keqiang (习近平, 李克强). Un primo segnale forte in questa direzione è rappresentato dal piano di ridistribuzione del reddito nazionale, pubblicato dal Consiglio degli Affari di Stato ad inizio anno, con indicazioni che ricalcano quelle del 12° piano quinquennale aggiungendo obiettivi concreti riguardo, tra gli altri, la crescita del salario minimo (al 40% del livello locale), la maggior spesa sociale (dal 10 al 12% del budget), e l’aumento dei dividendi (dal 7 al 10%) delle imprese statali destinati al bilancio pubblico.

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