Tra il 18 e il 21 luglio scorsi il Ministro degli Esteri Franco Frattini si è recato in visita ufficiale in Cina, trattenendosi per due giorni a Pechino prima di proseguire per Shanghai e Canton. La missione del titolare della Farnesina va letta in connessione con altri quattro incontri di alto livello avvenuti negli ultimi due anni: la visita del Presidente della Rpc Hu Jintao in Italia nel luglio 2009, quella del Premier Wen Jiabao a Roma nell’ottobre 2010 per il Quarantennale della normalizzazione dei rapporti diplomatici tra i due Paesi, la visita di Stato in Cina del Presidente della Repubblica Napolitano nei giorni seguenti del medesimo mese di ottobre, e la recentissima presenza del Vice Presidente della Rpc Xi Jinping a Roma in occasione dei festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
In questo quadro vi sono due distinte dinamiche di cui è opportuno dar conto: la prima attiene alla sostanza dell’evoluzione dei rapporti bilaterali tra Italia e Cina, e riguarda il portato generale delle politiche perseguite da Roma e assecondate da Pechino. La seconda, di non immediata evidenza, si riferisce ai processi burocratici – ancor prima che politici – che hanno consentito l’attuazione di tali politiche.
Quanto alla dimensione diplomatica, la missione di Frattini nei giorni scorsi ha suggellato la dinamica virtuosa che le relazioni tra i due paesi stanno vivendo negli ultimi anni: il ministro ha rilanciato il Comitato Governativo Italia-Cina quale organo principale di consultazione e discussione per tutte le tematiche più rilevanti che investono i rapporti tra i due paesi. La riattivazione del Comitato – costituito nel 2004 con l’inaugurazione del partenariato strategico bilaterale, ma sinora incapace di realizzare appieno il proprio potenziale, anche per la riluttanza della controparte cinese – segna un netto passo in avanti nei rapporti tra Roma e Pechino. Se sia opportuno parlare anche di “salto di qualità” lo dirà il tempo.
Nel suo intervento alla Scuola del Partito Comunista Cinese del 19 luglio, Frattini ha evocato i concetti di amicizia, fiducia e rispetto come fondamenti della relazione bilaterale, auspicando che questa maturi secondo “una visione strategica di lungo termine”. Gli interlocutori cinesi hanno reagito positivamente alla proposta italiana di fare del Comitato Governativo uno strumento di dialogo su temi di natura anche politica, aperto non soltanto alla discussione di questioni bilaterali, ma anche a temi globali su cui i due paesi possano cercare più assiduamente occasioni di convergenza. L’onere della prova ricade ora sui vertici politici italiani, chiamati a sviluppare una più articolata e coesa “politica cinese”, che si muova con orizzonti più ampi rispetto agli auspici del pur importante Piano di Azione Triennale siglato nel 2010 con l’obiettivo di portare l’interscambio commerciale a 80 miliardi di dollari l’anno (contro i 45 dello scorso anno).
Se l’Italia ambisce davvero a rilanciare le relazioni bilaterali con Pechino, è improrogabile un’assunzione di responsabilità da parte del Presidente del Consiglio, la cui limitatissima frequentazione della Rpc è forse il principale fattore di debolezza di una diplomazia altrimenti efficace. Non si tratta di una questione formale: un impegno di Palazzo Chigi consentirebbe di mobilitare altri ministri, conferendo maggiore rilevanza agli incontri del Comitato. Valga il paragone con la Germania: nei giorni scorsi il Cancelliere Merkel ha inaugurato personalmente un nuovo meccanismo di consultazione bilaterale con la Rpc alla presenza di oltre 20 ministri cinesi e tedeschi, inclusi i titolari di dicasteri quali l’economia, le finanze, scienza e tecnologia, politiche agricole, ambiente ed istruzione. Per contro, il Ministro Frattini è stato accompagnato a Pechino soltanto da uno sparuto gruppo di alti funzionari ministeriali.
Nel riflettere sul successo del IV Comitato Governativo, riconosciuto anche dalle autorità cinesi, non si può prescindere da alcune osservazioni in merito ai processi burocratici interni alla Farnesina. La prima riguarda appunto la capacità dei vari terminali del Ministero degli Affari Esteri (MAE) italiano di elaborare logiche di interazione bilaterale con la Cina pur in assenza di una strategia complessiva di engagement (o, quantomeno, di un catalogo di priorità) nei confronti delle potenze emergenti. Si tratta di una carenza tradizionale dei governi repubblicani, che emerge in tutta evidenza proprio nel caso della Cina. Basti pensare che si ritiene la Cina detenga ormai circa il 13% del debito pubblico nazionale, investendo in titoli di Stato italiani più di ogni altro paese. Anche l’ultima significativa riflessione strategica, il “Rapporto 2020” che fu curato nel 2007 dall’Unità di Analisi e Programmazione del Mae e da un Gruppo di Riflessione Strategica offriva più una ricognizione del nuovo profilo della Rpc (sovente in chiave comparativa rispetto a India e altri Brics), che reali scenari e opzioni di policy.
Altrettanto rilevante è la grave carenza di funzionari che si occupino di dossier che riguardano la Cina. Responsabile di una rete diplomatico-consolare tra le più estese al mondo e chiamata ad agevolare l’organicità dei rapporti che l’Italia intrattiene con l’estero (per i quali sono in parte competenti anche le Regioni a norma della Legge La Loggia del 2003), la Farnesina è stata ripetutamente mortificata da tagli alle risorse ministeriali e al personale che rischiano di pregiudicare l’efficacia complessiva della macchina amministrativa. A causa di ciò e della scarsa propensione sia del governo che del parlamento a definire chiare priorità in materia di politica estera, il Mae si trova a non disporre di un’unità di lavoro dedicata alla Cina – al contrario delle altre maggiori cancellerie europee –, potendo contare a Roma soltanto su tre funzionari con responsabilità di coordinamento delle iniziative verso l’intera regione dell’Asia Pacifico.
Colli di bottiglia di questa natura, uniti alla debolezza strutturale di un Paese sotto frequente attacco speculativo e fiaccato da un diffusa atrofia nelle istituzioni centrali, non consentono all’Italia di ambire a un rapporto bilaterale con Pechino paragonabile a quello di Regno Unito, Francia o Germania (come qualificati interlocutori cinesi ammettono off the record). La speranza è che il proliferare di soggetti interessati a più stretti rapporti italo-cinesi spinga le forze politiche a un approccio più strategico verso la Cina che valorizzi appieno gli strumenti finora creati, superando il vizio italiano di dichiarare “missione compiuta” nel momento in cui si riesce a sedere a un tavolo che conta, quando invece il gioco sta appena cominciando.
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