Il 4 febbraio 1991, in apertura alla prima sessione del Comitato negoziale intergovernativo per la predisposizione di una Convenzione quadro sui cambiamenti climatici,[1] il Direttore Generale per lo sviluppo e la cooperazione economica internazionale Antoine Blanca pose in parallelo la portata storica della Conferenza di San Francisco con quella della sessione allora in corso. Così come la prima era nata dalla necessità di porre fine alle “guerre tra le genti“ – argomentò Blanca –, la seconda avrebbe costituito il primo passo verso la fine di una guerra scoppiata “tra le genti e la natura”.[2] L’intervento di Blanca, indice della fiducia che quasi trent’anni fa la comunità internazionale ripose negli strumenti del multilateralismo per la difesa del clima, ben colse lo spirito dell’epoca: con la caduta del muro di Berlino, la disponibilità di fondi da devolvere a cause estranee alla difesa (il cosiddetto peace dividend) parve costituire un’opportunità irripetibile per reindirizzare risorse verso programmi di tutela ambientale e di lotta ai cambiamenti climatici. I successi ottenuti pochi anni prima con il Protocollo di Montréal (1987), inoltre, erano riusciti a convincere i più scettici non solo di come i cambiamenti atmosferici di natura antropica potessero creare effetti su scala globale (nel caso specifico, l’ampliamento del buco dell’ozono dovuto allo sregolato utilizzo dei clorofluorocarburi in contesti industriali e domestici), ma anche della concreta possibilità di contenerne gli effetti attraverso strumenti di cooperazione che coinvolgessero Stati, organizzazioni internazionali e imprese private in un unico sforzo comune.[3]
L’entusiasmo e la fiducia che favorirono la creazione di consenso attorno al testo finale della Convenzione quadro sembrano aver raggiunto, oggi, i minimi storici. L’ottimismo dei primi anni Novanta, in parte ricomparso nelle giornate della COP21 di Parigi del dicembre 2015, si è presto eclissato in quella che il discorso pubblico e gran parte della letteratura dedicata alla storia della Convenzione quadro e alle sue Conferenze delle parti (COPs) hanno descritto come un susseguirsi di “fallimenti”,[4] “occasioni perse”,[5] “ambizioni limitate”[6] che avrebbero consentito alla comunità internazionale di raggiungere risultati esigui dall’entrata in vigore della Convenzione quadro nel 1992 ad oggi. Sotto traccia, si coglie la convinzione pluridecennale secondo cui occorrerebbe l’intervento di un leader ambientale per sopperire alla mancanza di volontà politica globale e ai timori che gli sforzi compiuti da uno o più Stati possano legittimarne altri a proseguire lungo percorsi di sviluppo di sostenibilità ambientale ridotta (o inesistente). L’idea, quindi, è che un attore internazionale dia forma e guidi le decisioni di policy degli altri firmatari della Convenzione quadro e dei suoi successivi protocolli ricorrendo ad incentivi economici o sanzioni (esercitando quindi una leadership di tipo strutturale), che condivida con questi le migliori pratiche introdotte entro i propri confini (leadership intellettuale), o che faciliti il raggiungimento di compromessi e accordi tra le parti nei forum globali del clima in qualità del suo agire da “imprenditore di policy” (leadership istituzionale).[7] Aspettative di tal genere sono supportate dall’influenza della quale ancora oggi gode l’applicazione di approcci strutturalisti delle teorie sulla formazione di negoziati internazionali. Ricercare spiegazioni ai traguardi raggiunti in un contesto negoziale nella distribuzione di potere tra le parti coinvolte rimane infatti, ad oggi, uno degli approcci analitici più intuitivamente convincenti, nonostante di rado siano riscontrabili anche solo semplici correlazioni tra la posizione che un attore ricopre nel regime globale di regolamentazione climatica e i suoi obiettivi di policy del clima.[8]
Dall’annuncio dell’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi,[9] la comunità internazionale nutre la ragionevole aspettativa che possa essere la Cina ad assumere il ruolo di potenza leader dei negoziati globali sul clima, specialmente alla luce delle dichiarazioni rilasciate dalla portavoce del Ministero per gli affari esteri cinese Hua Chunying in merito alla strenua difesa di Pechino dei processi che regolano la governance del clima.[10] Vi sono però importanti motivi che inducono a ritenere che la Repubblica popolare cinese possa non essere disposta a ergersi come nuovo leader globale del clima, certamente non alle condizioni in base alle quali la comunità internazionale ritiene che questa leadership possa o debba manifestarsi.
Il primo motivo ha a che fare con la nozione stessa di leadership inserita nel contesto delle negoziazioni internazionali sul clima. Nelle primissime fasi della storia del suo coinvolgimento con il regime globale di regolamentazione climatica, la Cina si comportò da attore deciso a non rimanere ai margini di una conversazione che andava assumendo connotati sempre più marcatamente “globali”, ma egualmente determinato a non assumere alcun ruolo di particolare spicco, limitandosi invece ad aggregare e coordinare le istanze espresse dagli altri paesi in via di sviluppo.[11] Questi ultimi e la Cina, nonostante una loro evidente vulnerabilità alle minacce derivanti dai cambiamenti climatici e al degrado ambientale di matrice antropica, videro queste solo come parte di scenari astratti, o in ogni caso troppo remoti da poter essere considerate priorità d’importanza pari ad imperativi quali crescita economica, sviluppo, e rafforzamento di capacità tecniche e istituzionali a livello nazionale.[12] Quella della difesa dai cambiamenti climatici fu prontamente etichettata come “pseudo agenda”[13] ad uso e consumo di economie avanzate intente a ricorrere a pretesti di politica estera ambientale per interferire nelle questioni nazionali dei paesi in via di sviluppo. A partire da questi anni, si diffuse quindi la convinzione per cui fossero le economie avanzate, Stati Uniti in primis, a doversi assumere la responsabilità e ad avere il dovere di creare un fondo internazionale per consentire ai paesi in via di sviluppo di implementare politiche per la prevenzione del degrado del clima, riconoscendone al contempo il diritto allo sviluppo[14] – questi erano primi accenni al principio “chi inquina paga” che sarebbe stato introdotto nella Convenzione quadro in occasione della Conferenza di Rio del 1992 assieme all’ancor più noto principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”.
Un problema centrale del modello di leadership calato nel contesto delle negoziazioni internazionali sul clima è che, per il Sud globale, esso rappresenta il risultato di tentativi delle economie avanzate risalenti ai tardi anni Ottanta e ai primi anni Novanta del secolo scorso di inserire questioni inerenti agli “obblighi”, alle “responsabilità”, e ai “risarcimenti” per gli impatti nocivi e misurabili del riscaldamento climatico entro una nuova cornice capace di consentire alle economie sviluppate di non essere più ritenute economie “inquinanti” ma, appunto, “leader” del clima da seguire, anziché denunciare. Questo cambio di terminologia apparentemente innocuo celava, agli occhi dei paesi in via di sviluppo, la determinazione dei paesi del Nord del mondo a non essere obbligati a creare fondi di risarcimento, né a fornire ai paesi meno sviluppati sufficiente spazio per tentativi di ulteriore crescita economica.[15] Accettare nel 2020 di assumere apertamente un ruolo di leadership nei contesti offerti dai forum globali sul clima, dunque, significherebbe per la Cina dare l’impressione di voler rinunciare ad importanti discussioni incentrate sui già menzionati “obblighi”, “responsabilità”, e “risarcimenti” per i quali Pechino si batte dalla sua adesione alla Convenzione quadro. Una presa di posizione di tal genere complicherebbe inoltre la difesa della Cina della sua posizione di paese in via di sviluppo all’interno delle negoziazioni, non solo agli occhi delle economie avanzate, ma anche e soprattutto di fronte a quei paesi in via di sviluppo che sono ancor più vulnerabili della Cina agli effetti dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale.
Questo aspetto aiuta ad introdurre il secondo motivo per cui, almeno per il momento, è plausibile che Pechino non stia considerando come percorribile l’assunzione una posizione di leadership nei contesti offerti dal regime globale di regolamentazione climatica: un leader, per essere considerato tale, ha bisogno di seguaci.[16] Gli esiti delle Conferenze delle parti degli ultimi dodici anni indicano come la Cina, almeno per quanto riguarda la diplomazia del clima, ne stia perdendo all’interno della sua tradizionale coalizione di riferimento, il Gruppo dei 77 (G77),[17] nonostante resti da capire quanto questa perdita sia dovuta ad un allontanamento della Cina dal resto della coalizione, o viceversa all’allontanamento degli altri paesi membri del G77 dalla Cina. Notoriamente descritta come un’incerta alleanza tra i riluttanti (e.g., l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, OPEC) e gli indifesi (e.g., i Paesi a minor livello di sviluppo, LDCs; o l’Alleanza dei piccoli Stati insulari, AOSIS),[18] il G77 è il prodotto della prima istituzionalizzazione formale dell’intesa tra i paesi del Sud del mondo (1964) la cui longevità ha attirato diversi studiosi interessati a comprenderne i fattori di coesione in una varietà di contesti negoziali, Conferenze delle parti della Convenzione quadro incluse. Per gli Stati appartenenti al G77, il valore della coalizione è insito nella promozione della loro reciproca “solidarietà”. Il Gruppo, infatti, offre agli Stati minori l’opportunità di farsi valere in contesti negoziali ad alta complessità, mentre consente alle maggiori economie emergenti di schierarsi come “negoziatori chiave” in grado di far valere le richieste dei paesi in via di sviluppo davanti alle rimostranze delle economie avanzate.
Pur non comportando necessariamente una deviazione dei singoli Stati membri dal Gruppo, o dai processi di difesa del clima concordati attraverso il Protocollo di Kyoto e l’Accordo di Parigi, la frammentazione del G77 è diventata quantomai evidente a partire dal 2009, quando Brasile, Sud Africa, India e Cina decisero di formare il Gruppo BASIC per incrementare il loro potere negoziale nel contesto offerto dalla COP15 di Copenhagen. In quell’occasione, i paesi BASIC prepararono un documento originale contenente il testo che avrebbero voluto diventasse l’Accordo di Copenhagen. Tuttavia, questo fu stilato senza previa approvazione degli altri paesi del G77, nemmeno i più vulnerabili della coalizione (e.g., AOSIS e gli LDCs). Si ritiene che questo episodio e la débâcle per la quale divenne poi nota la Conferenza di Copenhagen abbiano determinato quale effetto indesiderato l’indebolimento del G77 e della posizione della Cina al suo interno: un’indagine condotta tra i partecipanti delle Conferenze delle parti della Convenzione quadro tra il 2008 e il 2010 rilevò che il ruolo di leadership della Cina e del G77 percepito nel corso di tre COPs era sceso dal 27% (COP14, Poznán) al 19% (COP16, Cancún).[19] L’anno seguente, nel corso della COP17 di Durban, si aprì un ulteriore divario all’interno dello stesso Gruppo BASIC che portò Brasile e Sud Africa a prendere le distanze da Cina e India, poiché accusati da queste ultime di aver difeso istanze eccessivamente “verdi” e non sufficientemente concentrate su questioni di monitoraggio e valutazione care alla Cina.[20] Sempre a Durban, AOSIS, Argentina e Messico complicarono il quadro negoziale esercitando pressioni sulla Cina affinché la stessa si adoperasse per la creazione di soluzioni post-Kyoto.[21] Durante la COP18 di Doha del 2012, sempre in seno al G77, prese invece forma l’Associazione indipendente dell’America Latina e dei Caraibi (AILAC), formata da paesi decisi a differenziarsi dal resto del G77, date le loro convinzioni sulla necessità di introdurre restrizioni vincolanti sulle emissioni di gas serra anche per i paesi in via di sviluppo:[22] un chiaro segnale inviato al G77 in generale e ai paesi del Gruppo BASIC in particolare, risoluti oppositori all’eventuale imposizione di restrizioni vincolanti nei confronti di detti paesi. Non è dunque da escludere che questo tipo di tensioni all’interno del G77, pur non mettendo a rischio la longevità del Gruppo, possa realisticamente disincentivare l’affermazione di un leader tra i suoi Stati membri, o quantomeno rendere complesso il mantenimento di una posizione di leadership stabile.
Un terzo motivo per cui è ragionevole ritenere che Pechino non coltivi ambizioni di leadership in seno alle Conferenze delle parti della Convenzione quadro, almeno, non nei termini dettati dalla comunità internazionale, ha invece a che fare con i suoi recenti approcci al testo dell’Accordo di Parigi. La ventunesima Conferenza delle parti del 2015 ha portato la Cina e altri 188 paesi ad assumersi obblighi quali: comunicare e mantenere contributi determinati su base nazionale;[23] perseguire misure nazionali di mitigazione al fine di raggiungere gli obiettivi dei contributi già menzionati; comunicare nuovi contributi a cadenza quinquennale che traducano “la più alta ambizione possibile” di ciascun paese firmatario; e sottoporsi ad un processo biennale di valutazione e esame internazionali. I dettagli dei contributi sono a discrezione di ciascuno Stato. Nel 2015, la Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme della Repubblica popolare cinese consegnò al Segretariato della Convenzione quadro i contributi di Pechino determinati a livello nazionale. Questi avevano come obiettivo il raggiungimento del picco delle emissioni di CO2 della Cina intorno al 2030 ed un suo possibile raggiungimento anticipato; la riduzione delle emissioni di CO2 per unità del Pil tra il 60%-65% rispetto ai livelli del 2005; l’aumento di circa il 20% della percentuale di combustibili non fossili nel consumo di energia primaria; e l’incremento del volume delle scorte forestali di circa 4,5 miliardi di m3 rispetto ai livelli del 2005.[24] Gli elementi chiave dell’Accordo che regolano i procedimenti internazionali inerenti alla gestione dei contributi già menzionati, tuttavia, sono vincolanti per tutti. Questo significa che riferimenti ad una “più alta ambizione possibile”, ad esempio, sono giuridicamente vincolanti e richiedono che ciascun paese firmatario (pur nei limiti delle proprie capacità) aumenti il livello di ambizione dei propri contributi determinati a livello nazionale con cadenza quinquennale.
Le Conferenze dei tre anni successivi alla COP21 hanno avuto come principale obiettivo quello di consentire ai paesi firmatari dell’Accordo di Parigi di formulare il Katowice Rulebook – un regolamento per la trasparente ed equa implementazione dell’Accordo. A Katowice, una delle discussioni più accese tenutasi in seno al Gruppo di lavoro ad hoc sull’Accordo di Parigi (Ad hoc working group on the Paris Agreement, APA) Item 3[25] riguardò la potenziale esclusione nei documenti prodotti dal Gruppo di lavoro di vocaboli che richiamassero il carattere vincolante di detta “ambizione”, o che si riferissero al dovere delle parti di allegare informazioni “necessarie” a favorire la chiarezza, la trasparenza e la comprensione dei contributi determinati a livello nazionale comunicati al Segretariato ogni cinque anni. In quel frangente, la Cina, assieme ad altri paesi del G77 quali l’Arabia Saudita, si ritrovò al centro di queste discussioni che si chiusero grazie all’intervento dei co-facilitatori delle sessioni, i quali ribadirono l’impossibilità dell’eventuale riapertura dei negoziati su tematiche inerenti al lessico proprio dell’Accordo di Parigi.[26] La mossa diplomatica della Cina nel dicembre 2018 risulta perfettamente coerente se letta come tentativo di un’ulteriore estensione del principio del rispetto della sovranità statale nei forum della gestione del clima: qui, termini che rimandano a obblighi di “ambizione” o che evocano la “necessità” di una misura pattuita potrebbero ragionevolmente apparire agli occhi dei paesi in via di sviluppo come l’anticamera di imposizioni sempre più stringenti e sempre più, in questo senso, “limitanti” del loro agire. Posti di fronte a esempi di tal genere, è necessario inserire le decisioni prese dalla Cina alle Conferenze delle parti nel quadro più ampio dei suoi obiettivi nazionali di difesa del clima e dell’ambiente, la cui importanza primaria difficilmente lascia spazio ad intraprese tipiche dei cosiddetti “imprenditori di policy” all’interno del contesto negoziale di riferimento.
È chiaro dunque che una combinazione di fattori retaggio delle divisioni tra Nord e Sud del mondo su questioni ambientali e del clima, di tensioni interne al G77, e di cauta ma ferma opposizione all’eventuale impiego scorretto di alcuni elementi costitutivi dell’Accordo di Parigi portino ad escludere che la Cina stia cercando di far valere eventuali tentativi di affermazione della propria leadership nel contesto offerto dalle Conferenze delle parti della Convenzione quadro. Ciò non toglie che non sia ancora possibile per Pechino ergersi come leader intellettuale dei paesi che ne richiedano il supporto tramite attività di capacity building e condivisione di alcune e selezionate migliori pratiche di tutela del clima e dell’ambiente introdotte entro i suoi confini. Questo è il caso di successi registrati nel raggiungimento di alcuni degli obiettivi chiave dell’11°, 12° e 13° Piano quinquennale come: l’introduzione di robusti meccanismi di applicazione per le riduzioni delle emissioni di anidride solforosa del 10% (2006-2010), per le riduzioni dell’intensità energetica del 18.2% e dell’intensità delle emissioni di CO2 del 20% (2011-2015); lo sviluppo su ampia scala di impianti di energia idroelettrica, eolica, nucleare, e di altre centrali per la produzione di energia rinnovabile (2007)[27] e il massiccio e sostenuto sviluppo di impianti a carbone con tecnologia ultra-super critica (USC), il cui numero supera di gran lunga quello degli Stati Uniti;[28] o la diminuzione di concentrazioni di PM10 e PM2.5 a livello nazionale rispettivamente del 5.3% e del 9.3% tra il 2017 e il 2018.[29] Sarebbe, questa, una nuova tipologia di leadership[30] che potrebbe concedere a molti degli Stati più vulnerabili della Convenzione quadro di procedere nel rispetto dei rispettivi contributi determinati su base nazionale presentati nel 2015: un importante risultato raggiunto in coordinazione e non in contrasto al regime globale di regolamentazione climatica già esistente.
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[1] Individuabile nella letteratura come Intergovernmental Negotiating Committee (INC) for a Framework Convention on Climate Change (FCCC).
[2] United Nations General Assembly, Report of the Intergovernmental Negotiating Committee for a Framework Convention on Climate Change on the work of its first session, held at Washington, D.C., from 4 to 14 February 1991, A/AC.237/6 (8 marzo 1991).
[3] Joyeeta Gupta, The history of global climate governance (Cambridge e New York: Cambridge University Press, 2014), 59.
[4] Wolfgang Sterk et al., Something was rotten in the state of Denmark – cop-out in Copenhagen (Monaco: Wuppertal Institute for Climate, Environment and Energy, 2010).
[5] Karl Vella, “COP24: insider perspective”, World Business Council for Sustainable Development, 17 dicembre 2018, disponibile all’Url https://www.wbcsd.org/Overview/News-Insights/Insider-perspective/Insider-Perspective-COP24.
[6] Karl Mathiesen, “How COP25 talks failed on global climate «ambition»”, Climate Home News, 16 dicembre 2019, disponibile all’Url https://www.euractiv.com/section/climate-environment/news/how-cop25-talks-failed-on-global-climate-ambition/.
[7] Per una più completa elaborazione sul tema della leadership ambientale e delle forme che si ritiene possa assumere, si veda: Steiner Andresen e Shardul Agrawala, “Leaders, pushers and laggards in the making of the climate regime, Global Environmental Change 12 (2002): 41-51; Ulrike Saul e Christian Seidel, “Does leadership promote cooperation in climate change mitigation policy?”, Climate Policy 11 (2011): 901-921.
[8] Robert Falkner, “American hegemony and the global environment”, International Studies Review (2005) 7: 587.
[9] L’amministrazione Trump ha formalmente avviato il processo per uscire dall’Accordo di Parigi lo scorso novembre. Il processo sarà completo solo nel novembre di quest’anno. Si veda: Jeff Tolleson, “It’s official: Trump begins process to exit climate agreement”, Nature, 4 novembre 2019, disponibile all’Url https://www.nature.com/articles/d41586-019-03230-y.
[10] Ministero per gli affari esteri della Repubblica popolare cinese, “Wàijiāo bù fāyán rén jiù měiguó xuānbù tuìchū «Bālí xiédìng» děng wèntí dá jìzhě wèn [La portavoce del Ministero per gli affari esteri risponde all’annuncio degli Stati Uniti di recedere dall’Accordo di Parigi e ad altre domande] disponibile all’Url http://www.gov.cn/xinwen/2017-06/02/content_5199321.htm (link in cinese).
[11] Questo si può notare dal testo della Dichiarazione ministeriale di Pechino sull’ambiente e lo sviluppo, stilata a seguito di un summit tenutosi a Pechino per volontà della Commissione di Stato per la scienza e la tecnologia, e che radunò 40 paesi in via di sviluppo, Cina esclusa. Si veda: Beijing Ministerial Declaration on Environment and Development, Chinese Journal of Population Resources and Environment 1 (1992) 1: 54-60.
[12] Ibid.
[13] Joyeeta Gupta, The history of global climate governance (Cambridge e New York: Cambridge University Press, 2014), 73.
[14] Qu Geping, “Shìyìng xíngshì fāzhǎn gǎo hǎo huánjìng wàijiāo——Qū Gépíng júzhǎng zài guójiā huánjìng bǎohù jú wàishì gōngzuò huìyì shàng de jiǎnghuà (zhāiyào) [Adattarsi allo sviluppo della situazione e svolgere un buon lavoro di diplomazia ambientale – Discorso del direttore Qu Geping alla Conferenza di lavoro sugli affari esteri dell’Amministrazione statale della tutela ambientale (Abstract)], Zhōngguó huánjìng niánjiàn [Annuario ambientale della Cina] (Pechino: Amministrazione statale della tutela ambientale, 1991), 76.
[15] Joyeeta Gupta, The history of global climate governance (Cambridge e New York: Cambridge University Press, 2014), 53-54.
[16] Liang Dong, “Bound to lead? Rethinking China’s role after Paris in UNFCCC negotiations”, Chinese Journal of Population Resources and Environment 15 (2017) 1: 36-37.
[17] In inglese, il nome ufficiale del gruppo è “Group of 77 plus China” occasionalmente reso in italiano come “Gruppo dei 77 e Cina”. Per semplicità, in questa nota si fa riferimento al gruppo come “G77”.
[18] Sjur Kasa, Anne T. Gullberg e Gørild Heggelund, “The Group of 77 in the international climate negotiations: recent developments and future directions”, International Environmental Agreements (2008) 2: 117.
[19] Kathryn A. Hochstetler, “The G77, BASIC, and global climate governance: a new era in multilateral environmental negotiations”, Revista Brasileira de Política Internacional 55 (2012): 66.
[20] Ibid.
[21] Phillip Stalley, “Principled strategy: the role of equity norms in China’s climate change diplomacy”, Global Environmental Politics 13 (2013) 1: 2.
[22] Rafael Méndez, “La tercera vía latinoamericana en la negociación del clima”, El País, 5 dicembre 2012, disponibile all’Url https://elpais.com/sociedad/2012/12/05/actualidad/1354699047_259945.html (link in spagnolo).
[23] Strumenti con i quali i paesi firmatari dell’Accordo di Parigi si sono impegnati a ridurre le emissioni di gas serra nel medio periodo. Noti in inglese con il nome di Nationally Determined Contributions (NDCs).
[24] Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, “Enhanced actions on climate change: China’s intended nationally determined contributions”, disponibile all’Url https://www4.unfccc.int/sites/ndcstaging/PublishedDocuments/China%20First/China’s%20First%20NDC%20Submission.pdf (testo in cinese e inglese).
[25] Gli incontri degli APA sono divisi per 8 punti, “Items”, il terzo dei quali riguarda gli aspetti dei contributi determinati a livello nazionale dedicati agli sforzi compiuti per la mitigazione dei cambiamenti climatici.
[26] Si veda la sezione “Overcoming the political discussion” della seguente presentazione: UNFCCC Webinar Series 2019, “Updates from COP24 negotiations on NDCs and ETF”, UNFCCC, 23 gennaio 2019, disponibile all’Url https://unfccc.int/sites/default/files/resource/NDCSpotlight_Outcomes%20of%20COP24%20on%20NDCs%20and%20ETF.pdf.
[27] Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, “Medium and long-term development plan for renewable energy in China”, Pechino, settembre 2007.
[28] Per una disamina esaustiva dei che la Cina ha ottenuto nello sviluppo di centrali a carbone a impatto ambientale ridotto, si veda: Melanie Hart, Luke Bassett e Blaine Johnson, “Research note on U.S. and Chinese coal-fired power data: assessing combustion technology, efficiency, and emissions”, Center for American Progress, disponibile all’Url https://cdn.americanprogress.org/content/uploads/2017/05/16113214/ChinaCoal-ResearchNote2.pdf.
[29] Energy Research institute of Academy of Macroeconomic Research (NDRC) and China National Renewable Energy Centre, “China renewable energy outlook 2019: Executive Summary” (2019): 5.
[30] Per un esempio recente di tutti i motivi per Shi Jianzhong, ”Lǜsè lǐngdǎo lì: shèhuì hé huánjìng kě chíxù de zhèngnéngliàng” [Leadership verde: energia positiva per la sostenibilità sociale e ambientale], Lǐngdǎo kēxué [Scienze della Leadership] (2013) 4: 32-33.
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“Per ora si parla solo di neutralità carbonica, non di zero emissioni nette. È possibile che la Cina non si voglia impegnare su tutte... Read More
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